23/03/21

Il genio e la sregolatezza di Goliarda Sapienza

Goliarda Sapienza ai tempi del suo legame con Citto Maselli

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. 

Questo è l’incipit del romanzo L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza, nata a Catania nel 1924 da Giuseppe Sapienza e Maria Giudice (la prima donna dirigente della Camera del lavoro di Torino). E forse proprio queste frasi ci possono fare capire il tipo di persona che era Goliarda: vera, sincera e libera. Goliarda cresce in un clima di assoluta libertà. Non ha vincoli sociali. Addirittura non frequenta regolarmente la scuola perché il padre non voleva che la figlia fosse soggetta ad imposizioni fasciste. A sedici anni si iscrive all’accademia nazionale d’arte drammatica di Roma e per un periodo intraprende la carriera teatrale, distinguendosi nei ruoli delle protagoniste pirandelliane. Lavora anche per il cinema, inizialmente spinta da Alessandro Blasetti, poi si limita a piccole apparizioni come in Senso di Luchino Visconti. Sotto la regia di Blasetti nel 1946 recita in Un giorno nella vita e nel 1948 in Fabiola. Nel 1950 recita in Persiane chiuse di Comencini, nel 1951 appare in Altri tempi, nuovamente di Blasetti, mentre nel 1955 ha una parte in Ulisse e in Gli Sbandati di Francesco Maselli. Nel 1970 ha una parte in Lettera aperta ad un giornale della sera sempre di Francesco Maselli e nel 1983 recita sotto la regia di Marguerite Duras in Dialogo di Roma.

Sentimentalmente si lega al regista Citto Maselli, ma qualche anno dopo sposa il copywriter Angelo Maria Pellegrino. Poi lascia il palcoscenico e il cinema per dedicarsi alla carriera di scrittrice. Ma la sua vita è complicata. Verso la fine degli anni Sessanta finisce in carcere per un furto di oggetti in casa di amiche. E sempre dal carcere, ma anche dopo, continua a scrivere pubblicando poche opere, tranne alcune come “Le certezze del dubbio”. Ma il suo capolavoro è “L’arte della gioia”, una sorta di romanzo autobiografico in cui dalla sua penna Goliarda fece un ritratto non solo di se stessa, ma anche della società del tempo e riuscì a trattare argomenti scomodi per il periodo come la libertà sessuale, la politica, la famiglia. Per questo il libro non fu mai pubblicato e va alle stampe postumo nel 2000, riscuotendo prima indifferenza e a distanza di anni enorme successo di critica. Fra le altre sue opere citiamo “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno”, “Università di Rebibbia”, “Le certezze del dubbio” e “Destino coatto”.

Ed è proprio a causa del suo romanzo “L’arte della gioia” che Goliarda, nota negli ambienti artistici e culturali romani, attrice, scrittrice, compagna per 17 anni di Francesco Maselli, si riduce in povertà. Nella casa romana di via Denza pende lo sfratto e le viene tagliata anche la luce. E lei ruba a casa della amiche. Un furto per disperazione, lo aveva definito lo scrittore Angelo Pellegrino che ha vissuto con lei per 20 anni e che ha curato la sua opera. Nella prefazione al libro racconta che Goliarda scriveva sempre a mano per sentire l’emozione nel battito del polso, servendosi di una semplice Bic nero-china a punta sottile. “Scriveva – si legge nella prefazione – come leggeva, da lettrice, scriveva per i lettori più puri e lontani, con abbandono lucido e insieme passionale, affettuoso e sensuoso, attenta ai battiti cardiaci di un’opera, più che ai concetti e alle forme”. Goliarda scriveva in solitudine, guardando il mare, di mattina, su fogli extrastrong piegati in due perché il formato ridotto le consentiva una sua idea di misura, dove vergava le parole con una grafia abbastanza minuta, facendo ciascun rigo via via più rientrato sino a ridurlo a una o due parole, allora ricominciava daccapo con un rigo intero e veniva fuori un curioso disegno, una specie di elettrocardiogramma di parole, una scrittura molto cardiaca. E’ così che è definita da Pellegrino nella prefazione de “L’arte della gioia” la scrittura della sua compagna di vita.

Goliarda Sapienza non vedrà mai l’uscita di quel romanzo a cui aveva dedicato tutta se stessa. Pellegrino riesce a farlo pubblicare da Stampa Alternativa, nell’indifferenza totale di tutto il mondo culturale. Per uscire dall’ombra nel suo Paese d’origine, il romanzo deve prima sbarcare in Francia dove è stato tradotto e da dove è partita la popolarità di questa siciliana orgogliosa, tenace, libera e senza pregiudizi. Per mesi il suo romanzo ha dominato le classifiche dei libri più venduti e ha appassionato i critici che lo hanno paragonato a “Il gattopardo” o a “Horcynus Orca”. Nelle edicole c’è anche il romanzetto “L’università di Rebibbia”, nato dalla carcerazione seguita al furto di gioielli nella casa dell’amica romana. “L’ho fatto per rabbia – aveva raccontato all’epoca – per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato”. Da questo diario-romanzo emerge la figura di una signora che parla in modo forbito, guardata con sospetto dalle compagne di cella per i suoi vestiti, ma che presto capisce che lì non ha bisogno di fingere, se è borghese, non può nasconderlo. Nella dura e fredda realtà del carcere, Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia. Tutta la sua esistenza è fuori dall’ordinario, anche per i due tentativi di suicidio, l’elettroshock subito, la cura psicanalitica.

Negli ultimi della sua vita Goliarda Sapienza insegna recitazione presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Goliarda è riuscita a dare voce all’emotività senza quel forzato distacco che caratterizza molti degli autori contemporanei. Muore a Gaeta e qui viene seppellita nel 1996, mentre fiori rossi e terra bruna cadono sul suo feretro. Tutti al suo funerale hanno pensato che presto si sarebbe ricominciato a parlare di lei. E così è stato. “Sai come sono fatta – aveva detto ad una conoscente tre giorni prima di morire – è possibile che scompaia per un po’ per poi tornare all’improvviso”. E all’improvviso è scoppiato il caso editoriale del libro a cui ha dedicato parte della sua vita e che non ha mai visto pubblicato.

Chiudiamo questo omaggio con i suoi versi:

Non sapevo che il buio 
non è nero 
Che il giorno non è bianco
Che la luce 
acceca 
E il fermarsi 
è correre 
Ancora 
di più

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