pubblico questo bellissimo articolo di Giovanni Montanaro pubblicato oggi dal Corriere della Sera.
È il settembre del 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha trentasette anni.
Come ogni uomo, è già stato tanti uomini diversi. È stato avvocato e precettore, ha frequentato i tribunali e, con più trasporto, le taverne e le sale da concerto.
Ha studiato lingue, dal greco all’italiano, ma non ha trascurato l’equitazione e la scherma. Si è applicato al disegno, ma anche a geologia e anatomia, botanica e mineralogia.
Ha attraversato un periodo infernale, coliche e sangue in bocca, in cui ha temuto di morire presto. Ha bruciato quasi tutta la sua produzione letteraria giovanile, ma ha scritto già il suo best-seller, il Werther, che poi è la storia di una Charlotte vera che non ci stava con lui, di un suo amore aspro, giovanile, di quelli che sono tutto. Ha conosciuto la fama, ma anche l’angoscia dei ragazzi che si suicidavano imitando il protagonista del suo libro, tenendo quel libro in tasca.
In quel giorno di settembre del 1786, all’inizio del suo viaggio in Italia, Goethe si trova dentro l’Orto Botanico dell’Università di Padova (vedi foto in testa).
E vede la stessa pianta che vedo io adesso, la palma di San Pietro. Dopo la dipartita di un agnocasto, nel 1984, è la pianta più antica dell’Orto.
Risale almeno al 1585, è cresciuta in questi secoli, continua a crescere, a salire, ma il tronco originario, la ceppaia, è lo stesso. Goethe ne osserva le foglie; quelle più giovani, di sotto, sono tutte intere, poi con l’età cominciano a spezzarsi, a diramarsi, a venire come ciuffi sottili. Goethe ne resta affascinato.
Le foglie, nella loro vita, cambiano forma, fino a sembrare di piante diverse. Goethe pubblica, nel 1790, una teoria su La metamorfosi delle piante : sostiene che gli organismi crescono attraversando fasi che li modificano completamente.
Al di là del rigore scientifico della tesi, al di là della meraviglia e ambizione di quest’uomo universale in un’epoca in cui si poteva ancora esserlo, e scrivere copioni di teatro e trattati sulla natura, c’è qualcosa di più.
Forse, l’evocazione che crescere, in fondo, significa perdere occasioni, fare solo una delle cose che si potevano fare. È facile dire che c’è tutto Goethe, qui; il Werther , in fondo, è una foglia intera, mentre il Faust o Le Affinità Elettive , scritti dopo aver visto questa palma, sono foglie più irregolari. È che le piante fanno sempre riflettere sulla vita, anche quelle che teniamo sul balcone, che ci sorprendono a crescere.
A maggior ragione, la vita dilaga qui, nell’Orto, in questo tripudio di specie diverse, dal caffè alla polmonaria curativa, dalla ruta che profuma al fiore di loto che cresce velocissimo.
Quanti altri hanno paragonato la loro esistenza a questa palma? Quanti si sono sentiti piccoli, rispetto ai cipressi calvi, ma comunque protetti dagli alberi? Quanti, invece, hanno rivisto qualche conoscente nelle piante insettivore, quelle ad aspirazione, che succhiano la preda, quelle adesive, che la incollano senza muoversi o far nulla, o quelle a scatto, che invece ti sorprendono e ingoiano?
Giovanni Montanaro per Corriere della Sera - 16 settembre 2014.
Giovanni Montanaro per Corriere della Sera - 16 settembre 2014.
Certo, è sorprendente accorgersi di tutte le specie importate, arrivate in Italia tramite Padova: le patate e i gelsomini, il sesamo e i fagioli, i girasoli e le agavi.
È che anche noi piantiamo semi dove mai avremmo pensato o abbiamo radici che qualcuno ci ha portato.
Io credo che per chiunque sia una sorpresa venire qui, anche solo guardare tutti questi colori, domandarsi perché esistono tante piante diverse. L’Orto Botanico di Padova, in fondo, continua a crescere come una pianta tra le altre.
La ceppaia dell’Orto è sempre la stessa, è il più antico del mondo che è rimasto fermo nel luogo della fondazione. È qui dal 1545, voluto dall’Università di Padova e dalla Repubblica di Venezia per i suoi studenti. Lo scopo primo era semplice: reperire le erbe medicinali, riconoscerle tra le altre, evitare di sbagliarsi, di avvelenare i pazienti.
Nel 1552, il corpo centrale, geometrico, quasi mistico, un quadrato racchiuso da un cerchio, viene murato per evitare che di notte si rubino le piante. Poi, però, l’Orto continua a crescere, non c’è modo di fermarlo. E mentre le specie nel mondo diminuiscono, qui non si smette di importarle, lavorare, studiare, e desiderare che continuino.
Ormai, l’Orto si spinge fino alle nuove serre, bianche, piene di luce trasparente, con intorno un prato verdissimo e delle vasche larghe, quiete.
L’Orto è sempre nel cuore di Padova, vicino alla grandezza dolce di Prato della Valle; da una parte si vedono le cupole di S. Antonio, vezzose, quasi arabe, invisibili così se non da qui, e dall’altra quelle di S. Giustina, svettanti, bianche, più robuste. Forse, un giorno, l’Orto le supererà.
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