C'è qualcosa di convenzionale, ma anche di sottilmente perturbante nel celebrato romanzo Una scrittura femminile azzurro pallido, scritto nel 1941 (e pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo, nel 1955) da Franz Werfel e diventato un piccolo grande caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa fu pubblicato da Adelphi e continuamente ristampato.
In una storia di 131 pagine quello che sta a cuore a Werfel, esule dopo l'Anschluss come molti altri intellettuali ebrei, è raccontare cosa succede - e cosa è successo - nell'anima dei volontari collaborazionisti, di gente normale che si lascia cadere a peso morto, proprio perché incapace di affrontare le proprie personali ombre, le proprie personali debolezze, le proprie eclatanti cadute.
Ed è nella scena madre del romanzo, quella nella quale Leonida riaffronta il fantasma di Vera, la donna da lui vigliaccamente abbandonata sedici anni prima senza un motivo né una spiegazione, che Werfel inserisce quegli elementi simbolici così stringenti per il lettore. Il salotto dell'albergo nel quale Leonida è costretto ad incontrare Vera è il contrario di quel che si aspettava: un luogo tetro - la stanza "piena zeppa di mobili pesantissimi che si innalzano come fortezze arcigne" - claustrofobico, mortuario. Sono mortuarie anche le rose tea che Leonida ha ingenuamente portato con sé e che alla fine dell'incontro lascia "nelle tenebre" della stanza proprio perché sono "fiori di morte."
La morte accompagna Leonida anche nella scena finale - l'ultimo capitolo si intitola Nel sonno ed è un presagio del sonno mortale che ormai lo attende, dopo che la sua anima è perduta per sempre - in quel Teatro dell'Opera, in quella platea dove ciascuno recita il suo ruolo, aus dem Leben der Marionetten, per dirla con Bergman, dove a ciascuno dei figuranti non resta che vivere un doloroso e inutile oblio, conseguente a una non voluta, forzata consapevolezza.
Leonida è accerchiato dal destino, che è il suo carattere e il suo fato. Da quando ha indossato quel frac lasciatogli dall'amico, suicida, le cose non potevano andare diversamente. La sua carriera è stata spettacolare, ma tutto è servito alla fine, soltanto per ingannare se stesso.
Il danno è questo. Nessuna salvezza, da fuori, potrà venire. Perché l'unica salvezza, è sempre e soltanto nell'attraversamento consapevole del dolore. E Leonida, come molti altri, il dolore l'ha soltanto voluto sfiorare, e guardare negli altri. Come fosse, appunto, la semplice vita delle marionette.
Fabrizio Falconi - luglio 2012.
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