Ho avuto Pier Paolo Pasolini come insegnante di Lettere alle scuole medie, dalla prima al secondo trimestre della terza, quando venne a sostituirlo il cugino Nico Naldini, anche lui poeta. Siamo nei primi anni Cinquanta, quando la terra italiana ha ancora la faccia di mille anni prima.
La scuola, un minuscolo istituto privato, stava a Ciampino, non lontano dalla chiesa ed era intitolata a Francesco Petrarca.
La gestiva una giovane coppia di insegnanti, marito e moglie, Anna e Gennaro Gullotta. Dalle finestre della nostra classe potevamo intravedere, tra le piccole case, alcune in vago stile liberty, la grande costruzione del Sacro Cuore di Gesù, un ex collegio distrutto dai bombardamenti e popolato di sfollati, quasi tutti provenienti da Cassino, dalle zone disastrate dalla guerra e dalla miseria.
Nel taglio dei nostri sfilatini, le mamme mettevano la pastasciutta avanzata la domenica, oppure olio e sale.
Malgrado tanti stenti non mancavano l’allegria e la speranza del futuro.
L’aeroporto di Ciampino era internazionale e dalle recinzioni in ferro spinato potevamo ammirare i progressi dell’aeronautica. Nel giro di pochi anni ho visto apparire e scomparire i Dakota, i Vampire, i Constellation, fino all’irruzione dei turboelica, degli F84, del Comet (primo aereo di linea a reazione). Tutti segnali che dicevano a noi ragazzini con le scarpe bucate e le magliette tinte, che si poteva guardare avanti con fiducia.
Infatti molti dei miei amici di classe non facevano in tempo ad iscriversi alle superiori che venivano chiamati a lavorare dalle aziende o anche dalle compagnie aeree.
Proseguivano gli studi i più sfortunati o i figli dei piccoli borghesi che puntavano a salire la scala sociale in grazia del pezzo di carta.
In quell’eremo campagnolo, tra macerie e crateri aperti dalle bombe, a 14 chilometri da Roma, paracadutato dal Friuli, il destino ha fatto arrivare un professore di 29 anni, a insegnare italiano, latino, storia e geografia, povero come noi, malgrado l’obbligo di giacca e cravatta, non importa se sgualcite e consumate.
Solo che aveva una voce dolcissima e un sorriso timido, e, al contrario degli altri insegnanti, sapeva dare calci al pallone come un professionista. Era maestro anche nei tiri in porta, sempre di collo pieno.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che il Friuli stava in Italia. E poi che a scuola si va per diventare grandi insieme. Conoscersi era per Pasolini il passo necessario alla scoperta del mondo. Quando, in un mio momento difficile, gli chiesi: «Scusi, professore, ma cosa dovrò fare per stare bene nella vita», lui, dopo un attimo, mi rispose: «Basta che non fai quello che fanno tutti!». Fu per me la frase meno ideologica che abbia mai ascoltato.
Ogni suo alunno era un portatore di Sapere, è da lì che ci faceva compiere i primi passi nel lungo cammino scolastico: per Pasolini eravamo una somma di individualità diverse e non una semplice somma.
La scuola doveva renderci tutti diversi e non tutti uguali. Nei temi liberi che dava come compito a casa ci chiedeva di parlare della realtà, della nostra realtà. Ci chiedeva di raccontare la nostra vita, perché la vedessimo e, perché no, la correggessimo.
Faceva studiare, accanto a Dante e Petrarca, i poeti allora quarantenni, come Attilio Bertolucci, Sandro Penna, Alfonso Gatto, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni, e molti altri. Così la parola dei poeti finiva per essere la nostra voce, e la loro lingua la nostra lingua.
Non separava troppo le materie, studiando latino scoprivamo l’italiano e con l’italiano la geografia, le regioni d’Italia e la loro storia, la nostra più profonda identità. Per quasi tre anni, insieme con i miei compagni di classe abbiamo avuto un professore che ci stava formando, liberandoci dalla vacuità delle piccole mitologie per proporci una visione più vasta e complessa dell’universo.
Che io ricordi, tutti i suoi allievi hanno avuto un avvenire soddisfacente e sereno, nei limiti delle fatalità del vivere.
La generosità del nostro professore è evidente nelle sue scelte d’artista, che hanno tutte in comune quella vocazione pedagogica che gli ha permesso di osservare l’Italia cambiare volto ogni giorno. La osservava con animo appassionato e filologico già prima che ideologico. Non è un caso che fu bistrattato, aggredito e incompreso sia dalla destra che dalla sinistra.
Noi suoi studenti scoprimmo più tardi che il nostro professore, che abbiamo amato così tanto, faceva scelte coraggiose e provocatorie, al limite dello scandalo in un’Italia insieme bacchettona e resa ciecamente euforica dal consumismo. Nessuno voleva vedere l’anomia e l’omologazione che stavano invadendo, fin dentro le anime, il nostro paese. Il popolo semplice, eternamente vivente fuori della storia, si stava imbarbarendo. E ad uccidere il nostro professore è stata proprio la barbarie.
La nostra storia è ricca di poeti civili, a cominciare da Sordello, Dante, Petrarca, Guittone d’Arezzo, Leopardi… di artisti che non hanno mai disgiunto il benessere del loro paese da quello dell’individuo: non si può essere felici in una terra infelice.
Per questo all’Italia essi hanno dedicato molti versi, come ha fatto Pier Paolo Pasolini e perfino il mite Caproni nella sua opera postuma Res amissa (Da un pezzo me ne sono accorto./ La ragione è sempre/ dalla parte del torto).
Il nostro giovane professore di Lettere, capitato a Campino per le vie oscure del fato, è stato il più grande poeta civile del Novecento. Ma noi lo ricordiamo quando andava su tutte le furie se non gli passavamo la palla nelle partitelle all’aperto durante il quarto d’ora di ricreazione.
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