Cari amici, vi trascrivo integralmente l'articolo comparso ieri su La Stampa Vivere e morire secondo il Vangelo, scritto da ENZO BIANCHI
C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohelet, così come «c'è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana - prima ancora che biblica - è parsa dimenticata. Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v'era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l'ora in cui fosse forse possibile - ma non è certo - dire una parola udibile. Attorno all'agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all'umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana.
Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... - senza pensarea Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna neppure io ti condanno: va' e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urlaminacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!»al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristianorecitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con unostile da manifestazione politica o sindacale? Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell'agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un'etica superiore, l'etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile.
L'abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore. È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.
Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall'altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l'ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L'Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto- tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi - di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurarelo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine.
Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all'altro, a una cultura o a un'altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell'amore: amore per chi resta e accettazione dell'amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso.
Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmentecome candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia»,lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi èsempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, allestrutture e ai macchinari... Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né puòconquistarla con la forza.
Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...». Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell'incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell'eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis,il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell'attesa dell'incontro con colui che hanno tanto cercato...
In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni PaoloII: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto esaputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l'estremo atto di obbedienza nell'amore al loro Signore. Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche achi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull'ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.
La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale,essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza devemostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizionedi amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli ineditiinterrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano.
Così le riassumevala lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico diuccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significatuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza chegli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi nonsarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile?
In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e inqualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita». Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividonola loro fede, affinché la società ritrovi un'etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà.
C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohelet, così come «c'è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana - prima ancora che biblica - è parsa dimenticata. Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v'era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l'ora in cui fosse forse possibile - ma non è certo - dire una parola udibile. Attorno all'agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all'umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana.
Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... - senza pensarea Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna neppure io ti condanno: va' e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urlaminacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!»al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristianorecitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con unostile da manifestazione politica o sindacale? Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell'agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un'etica superiore, l'etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile.
L'abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore. È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.
Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall'altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l'ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L'Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto- tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi - di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurarelo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine.
Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all'altro, a una cultura o a un'altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell'amore: amore per chi resta e accettazione dell'amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso.
Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmentecome candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia»,lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi èsempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, allestrutture e ai macchinari... Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né puòconquistarla con la forza.
Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...». Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell'incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell'eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis,il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell'attesa dell'incontro con colui che hanno tanto cercato...
In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni PaoloII: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto esaputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l'estremo atto di obbedienza nell'amore al loro Signore. Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche achi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull'ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.
La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale,essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza devemostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizionedi amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli ineditiinterrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano.
Così le riassumevala lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico diuccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significatuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza chegli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi nonsarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile?
In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e inqualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita». Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividonola loro fede, affinché la società ritrovi un'etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà.
Preziosissimo Enzo Bianchi, preziosissimo Faber!
RispondiEliminaGrazie
Grazie a te, preziosissima Biancospina!
RispondiEliminaTrovo solo ora il tempo per leggere queste stupende parole di Enzo Bianchi. Sono commossa.
RispondiEliminaSpero di riuscire a concepire veramente la mia morte e quella dei miei cari così
'l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo'
se questo fosse possibile tutta la vita sarebbe ancora più bella!
Grazie Faber, con affetto
Magda
...vivere e morire, -per entrare nella terra dei viventi- direbbe Alfonso Maria De Liguori, in fondo sono entrambi passaggi verso un unica meta,l'eredità che il signore ci ha garantito vincendo la morte. Ognuno di noi ha dentro l'esperienza della morte e della separazione come morte.Mi sono sempre domandato, quando mi sono occupato di formazione di operatori che accompagnano alla morte, perché vicino al letto del morente non c'è mai il medico! La risposta che mi do e che la morte è il segno tangibile dell'impotenza di tutta la sua scienza e conoscenza di fronte la limite estremo della malattia. Li, di fianco al morente si può solo accarezzare un viso asciugare una fronte, salutare con un arrivederci, rimanendo a riva chi si appresta a un viaggio di cui noi che restiamo non conosciamo la meta. Non è questione di scienza ma di comune umanità. Per questo il medico non c'è mai di fianco al paziente che muore....a meno che non sia lui a staccare la spina. C'è da riflettere su tutto ciò!
RispondiEliminaWow, this piece of writing is fastidious, my sister is analyzing such things, so I am going to inform her.
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