Primo Levi fotografato a Torino poco tempo prima di essere arrestato
"Ci radono i capelli, ci tatuano sul
braccio un numero progressivo, ci denudano, ci rivestono di
stracci immondi a rigoni: non siamo piu' uomini. Nessuno spera
piu' di uscire".
C'e' tutta la prosa di Primo Levi, la grandezza
del narratore, l'asciuttezza che ne sara' lo stile e nello stesso
tempo la capacita' di accendere lo sdegno con la forza di un
resoconto scientifico reso drammaticamente eloquente dai numeri
("Il 22 febbraio '44 siamo partiti tutti, 650 disperati con
bambini, donne, vecchi, 50 rinchiusi in ogni vagone merci, 4
giorni, 4 notti di viaggio senza dormire e senza bere.. siamo
tornati in 15") nella lettera inedita che pubblica il
quotidiano La Stampa in occasione dei 100 anni dalla nascita del
grande scrittore torinese.
Resa pubblica per concessione dei figli Lisa e Renzo, la
lettera, due fogli battuti fitti fitti a macchina con inchiostro
rosso, riporta la data del 26 novembre 1945.
Levi aveva solo 26
anni, era rientrato a Torino da meno di un mese ed era gia' in
cerca di un lavoro ("Sono ancora disoccupato, pero' ho imparato
il tedesco e un po' di russo e di polacco, ed ho visto un bel
pezzo di Europa che pochi stranieri hanno visto").
Ai parenti
lontani non nasconde niente, racconta della decisione di salire
in montagna con i partigiani per sfuggire alle leggi razziali,
l'arresto con le amiche Vanda e Luciana, il campo di Fossoli, la
deportazione, i suoi 11 mesi nel campo di Monowitz, satellite di
Auschwitz, la fame disperata, le condizioni impossibili, le
selezioni, la morte.
Un reportage dall'inferno, lucidissimo e
terribile, dove i sentimenti sembrano anestesizzati.
C'e' il
dramma incommensurabile e insieme un incredibile pudore, la
totale assenza di vittimismo, forse chissà già il tarlo dello
sgomento per essere lui tra i pochi che si sono salvati.
"Quattro milioni di ebrei hanno varcato la soglia della camera a
gas. Per tre anni il camino ha oscurato il cielo", scrive ai
parenti.
Prima di lanciarsi in un'altrettanto lucida e spietata
analisi dell'Italia che ha ritrovato e anche dell'Europa
("Vecchia, maledetta e pazza") con parole che sembrano
premonitrici e oggi più che mai attuali: "il fascismo ha
dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e
metodi, ma non e' morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina
materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo".
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