C’è un luogo, in
città, dove i romani vanno nelle sere grigie d’autunno, quando il vento raschia
le foglie dall’asfalto, e le luci dei lampioni ondeggiano prima della
tempesta, quando vogliono assaporare il
brivido insolito di un panorama urbano che sembra proprio non appartenere in
nulla a quello consolidato e rassicurante di Roma, ma che sembra piuttosto uscito dalla fantasia
allucinata di un maestro dell’horror.
Questo luogo è il quartiere Coppedè, che
sorge quasi del tutto isolato in un piccolo quadrilatero di vie, nel più grande
rione chiamato Trieste, non lontano dalla Via Nomentana. Si tratta di una porzione di architetture
omogenee, per l’esattezza ventisei palazzine e diciassette villini, ideati,
progettati e realizzati tra il 1913 e il 1927 da un geniale architetto
fiorentino, Gino Coppedè.
Il suo cognome è rimasto talmente legato
a questo luogo, che oggi si fa fatica perfino a trovare traccia fotografica del
grande architetto, nato il 26 settembre
del 1866. Le poche foto lo ritraggono
con una folta barba e baffi dannunziani,
vestito sempre elegantemente, con sgargianti mocassini chiari, come lo sparato sopra il papillon nero, il fisico prestante, lo
sguardo fiero e penetrante.
Coppedè, proveniente da una famiglia di
architetti e di intagliatori, mostrò da
subito una spiccata propensione per il disegno eccentrico, sviluppando una
personale interpretazione eclettica dello stile Liberty, che ebbe modo di
esprimersi in diverse opere – come il castello Mackenzie a Genova,
commissionato da Evan Mackenzie, fiduciario del Lloyds nel capoluogo
ligure e facoltoso collezionista d’arte
- ma soprattutto nel quartiere che prese
il suo nome, a Roma e che gli fu invece commissionato dai finanzieri Cerruti,
della Società Anonima Edilizia Moderna.
Qui, Coppedè pensò bene di provare a fondere in modo armonico elementi
architettonici provenienti dal Barocco, dal medievale, dal classicismo al più sfrenato manierismo.
Una impressione immediata di questo stile
allucinato e straniante si ha appena varcato l’ingresso del quartiere di Via
Tagliamento, passando sotto il possente arco che funge da ponte sospeso a tre
piani tra due palazzi chiamati degli Ambasciatori, dalla volta del
quale pende un monumentale lampadario in ferro battuto, e oltrepassato il quale
si giunge nella Piazza Mincio, ornata dalla celebre Fontana delle rane, doppio livello marmoreo dal quale si affacciano
dodici rane che spruzzano acqua.
Voltando lo sguardo a 360 gradi, dal centro della piazza, si ha davvero
la sensazione di essere inavvertitamente scivolati fuori dal tempo. Sensazione che si rafforza non appena si
iniziano a percorrere le vie del quartiere, che si dipanano a raggiera dalla
piazza stessa e sulle quali affacciano
bizzarre costruzioni, come lo splendido Villino
delle Fate, che sembra davvero uscito dalla fantasia di Lewis Carroll, con
tutte le sue asimmetrie, le porte e le finestre, le scale, i muri e i portici oscuri, tutti diversi uno
dall’altro, o come la Palazzina del Ragno che richiama le antiche
costruzioni egizie.
Più che un quartiere, una
scenografia.
Dichiaratamente a tal punto che lo stesso
Coppedè stesso volle lasciare la sua ‘firma’ cinematografica proprio
nell’ultimo palazzo del quale riuscì a seguire personalmente la realizzazione,
e cioè quello che affaccia su Piazza Mincio, al civico numero 2 lasciando fra
l’altro il suo blasone sul portone al fianco:
Artis praecepta recentis/ maiorum
exempla ostendo. Il portone di
questo elegante villino – dallo strano effetto telescopico - è infatti fotocopiato,
per volere dell’architetto, da una delle
celebri scenografie del primo grande kolossal del cinema Italiano, Cabiria,
realizzato da Giovanni Pastrone, nel 1914.
Era perciò un destino che il quartiere
Coppedè diventasse naturalmente, con gli anni, a sua volta, un ideale set
cinematografico. Ed è anche comprensibile che lo diventasse - a causa di questo suo fascino estroso,
fantastico, gotico - di film terribilmente visionari come quelli girati dal
regista Dario Argento, che scelse in diverse occasioni, proprio queste locations, per l’ambientazione dei suoi film.
Prima di lui, però, era stato Mario Bava,
a intuire le potenzialità evocative di questo luogo come set cinematografico,
nel film La ragazza che sapeva troppo,
del 1962. Mario Bava era considerato un
maestro da Dario Argento, all’epoca in cui era ancora giornalista e critico
cinematografico.
Così,
per la sua prima volta dietro la
cinepresa, nel suo film d’esordio, L’uccello
dalle piume di cristallo, girato nel 1969 e uscito nelle sale nel 1970, il
regista romano scelse proprio il quartiere come ambientazione di alcune scene e
implicito omaggio al suo maestro. È la
storia di uno scrittore americano, Sam Dalmas,
interpretato da Tony Musante, che di
passaggio a Roma, assiste casualmente ad un tentativo di omicidio attraverso la
vetrata di una galleria d'arte: un uomo sta accoltellando una donna. La presenza e l'intervento di Sam mettono in
fuga il colpevole, ma da quel momento in poi, una serie di omicidi sconvolgono
la città e Sam si trova ad essere sospettato dalla polizia. In una delle strade del Coppedè è ambientata
la famosa scena in cui Sam/Tony Musante riesce miracolosamente a schivare la coltellata
dell’assassino.
Al quartiere
poi, Dario Argento ritornerà con un altro film, dieci anni più tardi, Inferno,
del 1980, incentrato sulla storia di una
giovane poetessa americana, Rose, che dopo aver acquistato un antico libro di
alchimia, intitolato Le tre madri,
comincia a investigare sulle tre case costruite a Friburgo, Roma e New
York, dalle tre entità in questione,
ovvero : Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, Mater Lacrimarum, la Madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre. È ovvio
a questo punto che per la casa romana, Dario Argento immaginò proprio una delle
case del Coppedè.
Non solo,
nel quartiere sembra proprio che Dario Argento abbia finito per trovarsi
così bene da sceglierlo come abitazione .
Ed ecco così la strana conseguenza per la
quale anche lo stesso Argento ha finito per diventare il fantasma - non è facile
incontrarlo – di un quartiere che molti, soprattutto per effetto dei suoi film,
hanno creduto e credono popolato di strane presenze.
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