Ho conosciuto Giovanna Bemporad nell'estate del 1983.
Ero un ventitreenne che aveva appena esordito con un libro di racconti - Prima di Andare - e su suggerimento dell'editore - nella persona di Maria Cristina Becattelli - inviai una copia del volume ad alcuni scrittori (come si faceva un tempo).
Giovanna Bemporad mi rispose quasi subito. Una lunga lettera, compilata con una scrittura obliqua regolare, in una lingua perfetta, esatta, non distante, prodiga di suggerimenti (e anche di elogi).
Le telefonai al numero che mi aveva lasciato e lei - una voce esile, minuta, dai riflessi apparentemente rallentati - mi invitò a casa sua. Abitava in Via dell'Umanesimo, all'Eur, in un bell'appartamento (suo marito era il senatore Giulio Romano Orlando, non avevano figli).
Suonai al campanello, la voce esile mi disse di salire. Al pianerottolo il portone dell'appartamento era socchiuso. Dall'interno, la voce mi disse di accomodarmi nel salone. Entrai, lei non c'era. La aspettai per qualche minuto. Quando comparve - erano le sei di sera, l'orario in cui, lo scoprii solo più tardi, abitualmente cominciava la sua giornata - rimasi colpito dall'aspetto: magrissima, con folti capelli neri (sembravano quasi una parrucca), pallida, la pelle del volto liscia come quella di una bambola. Profumata (di talco?), leggermente incipriata, vestita con abiti maschili - pantaloni scuri, un gilet di raso, camicia bianca e la giacca di velluto.
Fu un incontro speciale. Che - posso dirlo ora che non c'è più - mi cambiò la vita.
Era la prima volta che mi si palesava di fronte l'essenza vera di un poeta. Di un poeta vero, di un vero poeta.
Parlammo a lungo, lei era molto interessata a quel che aveva da dire e da scrivere un giovane come me. Era affascinata dal fatto che fossi figlio di operai, e che avessi scoperto il piacere di scrivere a dieci anni quando i miei mi regalarono per la Befana, una macchina per scrivere Olympia Carrera.
Cominciò quel giorno una lunga amicizia. Telefonate lunghissime - Giovanna era una affabulatrice, ma nello stesso tempo si interessava ad ogni questione dell'attualità o dei problemi, delle vicissitudini personali dell'interlocutore - letture dei suoi Esercizi (praticamente il suo unico libro di poesia, che scrisse e riscrisse molte volte), riletture ad alta voce, in pubblico, degli amati classici che traduceva - Eneide, Odissea, ma anche Novalis, Mallarmé, Valery, Rilke.
Lei viveva di notte. Ritmi circadiani completamente invertiti. Si coricava alle otto del mattino. Fu lei a portarmi in giro in quella Roma, dove di notte incontravi tutti, all'inizio degli anni '80. E le sue storie erano piene di meravigliosi aneddoti: l'amicizia giovanile - fraterna - con Pasolini, Ungaretti che era stato il suo testimone di nozze, Eliot a Roma...
Trascorrere il tempo con lei voleva dire, per uno come me, sognare: entrare in un mondo che consideravo precluso e che invece in qualche modo era accessibile, il mondo dei poeti, osservarlo di soppiatto, cercare di carpirne i misteri.
Quando pubblicai L'Ombra del Ritorno, qualche anno più tardi, mi incoraggiò molto. Mi aiutò non poco nel rivedere i testi, minuziosamente, fino alla fine.
Per lei la poesia era soprattutto questo: riflessione, meditazione, approfondimento, sempre e sempre. Una lenta discesa negli strati più profondi dell'essere umano.
Stamattina, aprendo i giornali, ho appreso che Giovanna, a 83 anni ci ha lasciato.
Da tempo, si era isolata da tutti. Ma lei, in fondo, come scrive oggi il Corriere della Sera, era sideralmente distante dal cosiddetto 'mondo letterario' :non aveva mai veramente frequentato nessuno, se non quelli che considerava amici poeti. Nessun salotto, nessun bel mondo, nessuna televisione, nessun premio letterario, nessuna congrega (o consorteria o corporazione) di scrittori .
Lei era semplicemente la sua anima.
E da oggi, io mi sento più orfano.
Ciao, Giovanna.
Fabrizio Falconi
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