26/11/12

Pietro Citati: Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario.




Riporto qui una anticipazione del bellissimo articolo comparso il 20 novembre 2012 sul Corriere della Sera, su Gustave Flaubert, firmato da Pietro Citati. 


Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario Era nato per il riso, il grottesco e la buffoneria ma con la malattia scoprì il senso della rinuncia

A ventun anni Gustave Flaubert era bellissimo: di una bellezza eroica, scrisse Maxime du Camp. Aveva una pelle bianca leggermente rosata sulle guance, lunghi capelli fini e ondeggianti, era alto e largo di spalle, aveva la barba abbondante e di un biondo dorato, gli occhi enormi, color verde mare, protetti da sopracciglia nere: mentre una voce echeggiante come un suono di tromba, i gesti eccessivi e un riso squillante ricordavano i giovani condottieri galli che avevano lottato contro le armate romane. Salmodiava la prosa, urlava i versi, s'infatuava di una parola che ripeteva sino alla sazietà, riempiva tutto col suo rumore, sdegnava le donne attratte dalla sua bellezza, svegliava gli amici alle tre del mattino per portarli a vedere un effetto di chiaro di luna sulla Senna. Aveva un'immensa vitalità fisica. Sembra che solo il mare potesse fronteggiarlo. La primavera e l'estate era sempre nell'acqua, nella Manica e nella Senna, nuotando e vogando su un canotto, che il padre gli aveva acquistato.

Il padre gli aveva imposto di studiare legge, abbandonando la letteratura; e il 10 novembre 1841 si iscrisse alla facoltà di Diritto di Parigi, sebbene continuasse ad abitare a Rouen. L'8 gennaio 1842 era a Parigi. Discese all'Hôtel de l'Europe, rue Le Pelletier, e scrisse alla madre. «Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile, come dice Candide»: poi si informò sul programma e gli orari del corso del primo anno. Ma il diritto non era, per Flaubert, «il migliore dei mondi possibili». «La giustizia umana», scrisse qualche mese dopo a un amico, «è per me quello che c'è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà... Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto».

Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell'appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l'Est. Era furibondo. «Il diritto mi uccide - scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei». «Voglio finirla prima possibile - ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei per cadere in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito». «Sono così irritato, così infastidito, così furioso - continuava 5 mesi dopo -. Qualche volta ho voglia di dare dei pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l'accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz'ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima». Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione.

Quando lo studio del diritto non gli offuscava la mente, faceva la parte del Garçon: un ruolo ilare, grottesco, rabelaisiano, che derideva l'immensa idiozia del mondo, e insieme se stesso. Se entrava in questa parte, non poteva uscirne. Diceva e ripeteva levando le braccia in un gesto di ammirazione: «Non so se tu capisci la grandezza di questo: quanto a me, lo trovo enorme (anzi: hénaurme)». E gridava. «È enorme! Enorme!». Quando gli amici non condividevano il suo entusiasmo, li trattava da bourgeois, che era la sua massima ingiuria. A Parigi, cenava frequentemente da Dagneau, rue de l'Ancienne Comédie, insieme a Louis de Cormenin, Maxime du Camp e Alfred Le Poittevin. Restavano sino all'ora della chiusura, chiacchierando con i gomiti sul tavolo. Parlavano di tutto, tranne che di politica. Dalla personalità di Dio e dall'identità dell'io fino alle buffonerie dei piccoli teatri, tutto era buono per gettarsi in teorie a perdita d'occhio. «Saltavamo - continua Maxime du Camp - da un soggetto all'altro senza preoccuparci troppo delle transizioni. Mi ricordo una conversazione a proposito di una farsa recitata allora al Palais-Royal, che continuò con l'analisi del libro di Gioberti sull'estetica, e finì con l'esposizione delle Idee ebraiche di Herder».

Malgrado la compagnia degli amici, aveva una profondissima nostalgia per la famiglia. Scriveva a Caroline: «Ora sono tutto solo che penso a voi, immaginando quello che fate. Siete là tutti accanto al fuoco, dove io solo manco. Si gioca al domino, si grida, si ride, si è tutti insieme, mentre io sono qui come un imbecille, con i due gomiti sulla tavola a non sapere che fare... Amo la mia vecchia stanza di Rouen, dove ho passato delle ore così tranquille e così dolci, quando sentivo attorno a me tutta la casa muoversi, quando tu venivi alle quattro per fare della storia o dell'inglese, e invece di storia e inglese parlavi con me fino a cena. Per amar vivere in qualche luogo, bisogna viverci da molto tempo. Non è in un giorno che si scalda il proprio nido». «Quando penso a voi altri, qualcosa di buono e di dolce mi rianima e mi rinfresca, mille tenerezze gaie mi tornano al cuore, e vado dall'uno all'altro guardandovi tutti andare, venire, parlare col suono della vostra voce».

A Rouen, amava soprattutto Caroline, il suo «topo», il suo «topolino»: «Se mi ami molto è giusto, perché io ti 
ho molto amata». A Caroline era legato da una strettissima complicità: insieme condividevano la letteratura e il riso - le due divinità di Gustave. «Ho nelle orecchie il tuo riso sonoro e dolce, quel riso per il quale mi farei crepare in buffonerie, per il quale darei la mia ultima facezia, persino la mia ultima goccia di saliva». A volte, solo, nella camera di Parigi, faceva smorfie nello specchio, o gettava il grido del Garçon, come se la sorella fosse là per vederlo e ammirarlo. «Che sciocchezze dirò e farò nella carrozza con te! Quali smorfie e quali buffonerie! Ti prometto un riso come non ne hai mai sentito». Intanto, Caroline era a Rouen: disegnava, dipingeva, suonava il piano; e pensava al fratello, desiderava vederlo e parlargli. Senza il fratello la casa era vuota e triste: anzi, faceva «vomitare di noia».


Mentre studiava diritto, contendendo disperatamente il tempo ai codici di Giustiniano, Flaubert scriveva: dapprima Novembre , cominciato alla fine del 1840 e terminato il 25 ottobre 1842, e poi L'Éducation sentimentale (la prima redazione), cominciato nel febbraio 1843 e finito nel gennaio 1845. Novembre si apriva sotto il segno di Montaigne: «Se filosofia è dubitare, come dicono, a più forte ragione niaiser e fantasticare, come io faccio, deve essere dubitare», scriveva Montaigne negli Essais e ripeteva Flaubert nella dedica. Aveva rivisto tutto il proprio passato, come un uomo che visita le catacombe e che guarda lentamente, sulle due pareti, i morti disposti dopo i morti. Qualche volta gli sembrava di aver vissuto per secoli e che il suo essere racchiudesse i resti di mille esistenze trascorse. Sognava e desiderava le donne: l'aria imbalsamata da un caldo odore di donna ben vestita, qualcosa che sentiva il mazzo di violette, i guanti bianchi, il fazzoletto ricamato. Amava di un amore divorante la morte: i dolci fluidi che salgono e discendono nelle nostre vene; e i pensieri tristi, così piacevoli, perché evocano l'infinito. L'Éducation sentimentale è un libro variegato e molteplice quanto Novembre monotono e ossessivo: costruito su due personaggi, Henri e Jules, che si contraddicono come poli estremi. A Jules, la vita umana fa l'effetto di un ballo mascherato, dove ci si spinge, si grida, dove ci sono dei pierrot vestiti di bianco, degli arlecchini, dei domini, delle donne oneste che attendono l'avventura, delle donne galanti che la provocano, dei marchesi consumati, dei re che si pavoneggiano, degli imbecilli che si divertono, una folla di curiosi che guarda. Jules nutre un'irresistibile attrazione per le epoche «abbondanti» come il Basso Impero e il XVI secolo, dove la vegetazione completa dello spirito umano si è mostrata in tutta la sua ricchezza, dove tutti gli elementi sono stati mescolati, e i colori impiegati. Sogna la totalità: quando la suprema poesia, l'intelligenza senza limiti, la natura in ogni sua faccia, la passione in ogni suo grido, il cuore in ogni suo abisso si abbracciano in un sistema immenso, di cui rispetta le parti per amore dell'insieme.


Pietro Citati 20 novembre 2012, Corriere della Sera.

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