Raro caso di poeta, insieme a Rene' Char e Saint-John Perse, ad essere pubblicato ancora in vita nella prestigiosa collezione della Biliothe'que de la Ple'iade, Philippe Jaccottet, morto a 95 anni nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, e' stato piu' volte candidato al Premio Nobel.
26/02/21
Morti 2 grandi poeti: Lawrence Ferlinghetti e Philippe Jaccottet
Raro caso di poeta, insieme a Rene' Char e Saint-John Perse, ad essere pubblicato ancora in vita nella prestigiosa collezione della Biliothe'que de la Ple'iade, Philippe Jaccottet, morto a 95 anni nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, e' stato piu' volte candidato al Premio Nobel.
24/02/21
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16/02/21
La Villa Paolina di Roma e il mito della sua proprietaria Paolina Bonaparte
Via XX Settembre è una nobile strada di Roma dove
si sono stabilite diverse ambasciate e uffici diplomatici: una di queste è la
sede della rappresentanza di Francia presso la Santa Sede che è ospitata nei
nobili locali della Villa Paolina, in quell’area una volta definita dalle Mura
Aureliane, la cosiddetta strada Pia
(oggi via XX Settembre) e via di Porta
Salaria (oggi via Piave).
La villa sorse intorno al 1748 per volere del cardinal Silvio Valenti
Gonzaga, segretario di Stato di papa Benedetto XIV, su un preesistente edificio
che era proprietà di una famiglia fiorentina dal curioso cognome: Cicciaporci.
All’interno della villa il cardinale raccolse splendide collezioni molte
eterogenee tra loro, soprattutto strumenti scientifici e poi quadri, gioielli e argenterie, come si può desumere
da un celebre quadro di Gian Paolo Pannini, la
Galleria del cardinale Valenti
Gonzaga, oggi conservato al Wadsworth Atheneum di Hartford, in Inghilterra.
In questa tela è raffigurato un gruppo di persone
nell’intento di esaminare il progetto della villa, immerso in una galleria di
invenzione sulle pareti è possibile però ammirare alcuni pezzi della collezione
del cardinale: libri, statue e arazzi che testimoniano la cultura divorante e
l’eclettismo dei gusti del Cardinale-umanista.
Alla morte del Cardinale, la villa fu acquistata
nel 1809 da un’altra proprietaria illustre: Paolina Bonaparte, che le diede il
nome e ordinò nuove sontuose decorazione all’interno e all’esterno della Villa.
Paolina (che in realtà si chiamava Maria Paola)
era come noto la sorella prediletta di Napoleone, che nel 1797 era andata in sposa al generale
Victor Leclerc, e alla morte di questo (il matrimonio durò solo cinque anni)
divenne, su insistenza del fratello, la sposa del potentissimo principe Camillo
Borghese, più anziano di lei di cinque anni, la personalità più eminente della
Roma di allora, il che ne fece la regina della vita mondana romana, vista anche
la sua bellezza e il suo noto anticonformismo che la portò anche a posare
scandalosamente nuda per Antonio Canova nel celebre capolavoro che oggi è
l’attrazione principale del Museo Borghese, nella villa omonima.
La Villa in Via XX Settembre (provenendo da Porta
Pia, la si incontra sul lato destro introdotta da un grande portale in bugnato)
divenne la residenza personale e principale di Paolina a Roma, con il Casino a
più piani, la scala monumentale, le colonne doriche, e soprattutto la splendida
collezione esotica, che in parte Paolina aveva ereditato dal precedente
proprietario della Villa e in parte arricchì secondo il suo gusto personale.
Anche il giardino, per volontà della nobile
Bonaparte, divenne uno dei più lussureggianti e belli (quello rimasto oggi è
semplicemente una piccola porzione) con molte piante rare, tra le quali i primi
arbusti di ananas piantati a Roma.
Paolina, poi, dal temperamento irrequieto (che
suscitava continui scandali e costringeva il fratello a richiamarla all’ordine)
nutriva continue curiosità che si nutrivano dei bizzarri gusti del precedente
proprietario: nella grande sala del pianterreno ad esempio, Silvio Valenti
Gonzaga aveva fatto trasportare una grande pietra circolare proveniente dagli
scavi del Campo Marzio, forse attinente alla Meridiana di Augusto, sulla
superficie della quale erano riportate misteriose figure matematiche, trapezi,
triangoli, pentagoni, esagoni e solidi.
La grande sala possedeva poi, già dai tempi del
Cardinale Gonzaga, una particolarissima proprietà acustica, che sembra
divertisse molto Paolina: posizionandosi ad uno degli angoli del salone era
infatti ascoltare distintamente le conversazioni che si svolgevano al lato
opposto. Il che, in quegli anni dominati
dalla frenetica vita di corte, dagli intrighi e dai pettegolezzi, forniva degli
innegabili vantaggi.
Con la morte di Paolina (nel 1824) purtroppo
anche la Villa cadde in uno stato di abbandono, aggravato dai pesanti
danneggiamenti subiti nel 1870 durante gli scontri e i cannoneggiamenti della
Presa di Porta Pia. Rimase comunque di proprietà dei Bonaparte, fin quando fu
acquistata dall’ambasciatore di Prussia (nel 1907) per restaurarla e stabilirvi
gli uffici diplomatici.
Nel frattempo gran parte del rigoglioso giardino
era andato perduto e sacrificato per essere dato in concessione per la nascita
di nuove costruzioni abitative.
La Villa poi, in un certo senso, tornò a casa (la patria di Paolina) nel
1951 quando come detto fu acquistata dal governo francese per realizzarvi
l’ambasciata presso la Santa Sede.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013
15/02/21
100 anni dalla nascita di Giulietta Masina: Un libro la ricorda
14/02/21
La Poesia della Domenica: "Coniando sfere dissimili" di Fabrizio Falconi
Coniando sfere dissimili
come granelli,
13/02/21
Libro del Giorno: "Due vite" di Emanuele Trevi
Un libro prezioso, di rara qualità. Emanuele Trevi ritorna con "Due vite", recentemente ristampato da Neri Pozza e già sicuro concorrente - e possibile o probabile vincitore - del premio Strega 2021. Un libro che, nello stile di Trevi, è in parte memoriale, in parte omaggio/tributo a due amici scrittori morti prematuramente, in parte saggio di critica letteraria, in parte pura narrazione (le biografie, cioè, qui diventano pura materia letteraria).
«L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità». Così scrive Emanuele Trevi in un brano di questo libro che, all’apparenza, si presenta come il racconto di due vite, quella di Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori prematuramente scomparsi qualche tempo fa e legati, durante la loro breve esistenza, da profonda amicizia.
Trevi ne delinea le differenti nature: incline a infliggere colpi quella di Rocco Carbone per le Furie che lo braccavano senza tregua; incline a riceverli quella di Pia Pera, per la sua anima prensile e sensibile, così propensa alle illusioni. Ne ridisegna i tratti: la fisionomia spigolosa, i lineamenti marcati del primo; l’aspetto da incantevole signorina inglese della seconda, così seducente da non suggerire alcun rimpianto per la bellezza che le mancava. Ne mostra anche le differenti condotte: l’ossessione della semplificazione di Rocco Carbone, impigliato nel groviglio di segni generato dalle sue Furie; la timida sfrontatezza di Pia Pera che, negli anni della malattia, si muta in coraggio e pulizia interiore.
Tuttavia, la distanza giusta, lo stile dell’unicità di questo libro non stanno nell’impossibile tentativo di restituire esistenze che gli anni trasformano in muri scrostati dal tempo e dalle intemperie. Stanno attorno a uno di quegli eventi ineffabili attorno a cui ruota la letteratura: l’amicizia.
Nutrendo ossessioni diverse e inconciliabili, Rocco Carbone e Pia Pera appaiono, in queste pagine, come uniti da un legame fino all’ultimo trasparente e felice, quel legame che accade quando «Eros, quell’ozioso infame, non ci mette lo zampino».
12/02/21
1.500.000 di Visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi. Grazie !
Grazie davvero di cuore a tutti i lettori di Questo Blog !
09/02/21
Roma la Grande e Pompei il Mito, per la prima volta insieme al Colosseo !
08/02/21
Alla Casa del Cinema di Roma una grande mostra su Mario Monicelli
07/02/21
Libro del Giorno: "La casa di Parigi" di Elizabeth Bowen
Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi” è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.
Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.
Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia.
In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto.
Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti.
I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale.
Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno.
Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.
Elizabeth Bowen
La Casa di Parigi
Sonzogno, Venezia 2016
Traduzione di Alessandra Di Luzio
Postfazione di Leonetta Bentivoglio
286 pagine, Euro 15
05/02/21
Una nuova mostra a Roma su Federico Fellini, nella sua Cinecittà
03/02/21
Scoperte in Egitto Mummie dalla lingua d'oro !
02/02/21
Che fine ha fatto il famoso Colosso di Nerone - alto 35 metri - che si trovava di fianco al Colosseo?
Il Colosso di Nerone andato perduto
Un basamento rettangolare in peperino (roccia
magmatica che i romani trasportavano dalla Tuscia) di grandi dimensioni (17 metri
per 15) è quanto rimane del sito dove sorgeva l’imponente statua dedicata a
Nerone, la più grande mai realizzata in bronzo.
Il parallelepipedo, provato
dalle ingiurie del tempo, oggi praticamente ignorato dai turisti e dai
visitatori che a migliaia ogni giorno si mettono in fila per visitare l’Anfiteatro
Flavio, reca una iscrizione in marmo: “Area del basamento del Colosso di
Nerone”. In effetti non si tratta (e non si trattava) propriamente del
basamento, ma delle fondamenta di quella possente struttura di supporto che
doveva sostenere la gigantesca statua dell’imperatore.
Commissionata allo scultore
greco Zenodoro, era alta ben 35 metri e costituiva il massimo tributo alla
divinizzazione di sé che Nerone aveva voluto per autocelebrarsi.
Originariamente il colosso
era posizionato nel vestibolo della Domus Aurea, la residenza imperiale,
proprio per incutere soggezione e timore nei visitatori, e raffigurava l’imperatore
con la testa radiata e nelle vesti del Sole. Dopo la sua caduta, la grande
statua dalla Velia – dove Adriano fece innalzare il tempio di Venere e Roma –
fu trasferita nell’area dell’anfiteatro che Vespasiano fece costruire. Il trasporto eccezionale, riferiscono le
cronache dell’epoca, fu effettuato grazie all’utilizzo di ben dodici elefanti,
incaricati di trainare il Colosso. L’immagine del Sole divinizzata rimase così
nella sua nuova collocazione per diversi secoli. L’imperatore Commodo decise
perfino di “ritoccarla”,
modificandone i lineamenti perché assomigliasse a lui.
Fu proprio comunque la
presenza inconfondibile del Colosso – sembra – a conferire per assonanza il
nome Colosseo all’enorme Anfiteatro Flavio, ancora oggi simbolo di Roma. Ma che
fine ha fatto?
Purtroppo non si sa esattamente. L’ultima citazione che lo riguarda è nel Cronografo del 354 d.C., il calendario illustrato opera di Furio Dionisio Filocalo.
Nessuna cronaca successiva lo riporta, facendo propendere
per l’ipotesi che il Colosso, vero simbolo del potere imperiale romano, e della
sua tracotanza, sia stato abbattuto e distrutto già all’epoca delle prime
invasioni barbariche, e le enormi parti in bronzo subito fuse per realizzarne
armi. Della statua si persero definitivamente le tracce, come della sua omologa
di Rodi considerata una delle sette meraviglie dell’umanità.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015
01/02/21
Imparare a gestire le frustrazioni, non a evitarle
Fabrizio Falconi - 2021