Il Colosso di Nerone andato perduto
Un basamento rettangolare in peperino (roccia
magmatica che i romani trasportavano dalla Tuscia) di grandi dimensioni (17 metri
per 15) è quanto rimane del sito dove sorgeva l’imponente statua dedicata a
Nerone, la più grande mai realizzata in bronzo.
Il parallelepipedo, provato
dalle ingiurie del tempo, oggi praticamente ignorato dai turisti e dai
visitatori che a migliaia ogni giorno si mettono in fila per visitare l’Anfiteatro
Flavio, reca una iscrizione in marmo: “Area del basamento del Colosso di
Nerone”. In effetti non si tratta (e non si trattava) propriamente del
basamento, ma delle fondamenta di quella possente struttura di supporto che
doveva sostenere la gigantesca statua dell’imperatore.
Commissionata allo scultore
greco Zenodoro, era alta ben 35 metri e costituiva il massimo tributo alla
divinizzazione di sé che Nerone aveva voluto per autocelebrarsi.
Originariamente il colosso
era posizionato nel vestibolo della Domus Aurea, la residenza imperiale,
proprio per incutere soggezione e timore nei visitatori, e raffigurava l’imperatore
con la testa radiata e nelle vesti del Sole. Dopo la sua caduta, la grande
statua dalla Velia – dove Adriano fece innalzare il tempio di Venere e Roma –
fu trasferita nell’area dell’anfiteatro che Vespasiano fece costruire. Il trasporto eccezionale, riferiscono le
cronache dell’epoca, fu effettuato grazie all’utilizzo di ben dodici elefanti,
incaricati di trainare il Colosso. L’immagine del Sole divinizzata rimase così
nella sua nuova collocazione per diversi secoli. L’imperatore Commodo decise
perfino di “ritoccarla”,
modificandone i lineamenti perché assomigliasse a lui.
Fu proprio comunque la
presenza inconfondibile del Colosso – sembra – a conferire per assonanza il
nome Colosseo all’enorme Anfiteatro Flavio, ancora oggi simbolo di Roma. Ma che
fine ha fatto?
Purtroppo non si sa esattamente. L’ultima citazione che lo riguarda è nel Cronografo del 354 d.C., il calendario illustrato opera di Furio Dionisio Filocalo.
Nessuna cronaca successiva lo riporta, facendo propendere
per l’ipotesi che il Colosso, vero simbolo del potere imperiale romano, e della
sua tracotanza, sia stato abbattuto e distrutto già all’epoca delle prime
invasioni barbariche, e le enormi parti in bronzo subito fuse per realizzarne
armi. Della statua si persero definitivamente le tracce, come della sua omologa
di Rodi considerata una delle sette meraviglie dell’umanità.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015
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