C’era un tempo in cui anche a Roma esisteva la caccia
alle streghe. Il 5 luglio del 1659 cinque donne, Gerolama Spana, Maria Spinola,
Graziosa Farina, Cecilia Bossi Verzellini e Laura Crispolti furono condannate a
morte per “fabbricazione di liquido velenoso, detto Acquetta, avvelenamento di congiunti e spaccio del veleno ad altre
donne.”
Ma di cosa si trattava, esattamente ?
L’accusa per le cinque donne romane era quella di
aver utilizzato la famosa Acqua Tofana (conosciuta
con mille nomi diversi nelle diverse regioni italiane), un liquido velenoso brevettato per la prima
volta da una certa Giulia Tofana, palermitana, che nel 1640 realizzò una
pozione incolore, inodore e insapore – simile ad acqua, appunto – destinata ad
alimentare il mercato delle vedove o dei vedovi, in un’epoca in cui non
esisteva ovviamente il divorzio: per eliminare definitivamente cioè il proprio
coniuge.
La pozione segreta ebbe un tale successo che il suo
uso si diffuse rapidamente in molte città italiana: essa conteneva principalmente
arsenico, piombo e probabilmente una essenza di belladonna. Giulia Tofana era riuscita a produrre la
micidiale soluzione facendo bollire in una pentola chiusa ermeticamente, acqua
insieme ad una miscela di limatura di piombo, antimonio e anidride arseniosa.
L’assenza di qualsiasi odore o sapore permetteva di
usarlo praticamente senza lasciare traccia, versando una piccola quantità in un
bicchiere di vino, o direttamente sul cibo.
La persona che lo inghiottiva moriva in pochi minuti
tra atroci spasmi.
Lo smercio dell’Acqua
Tofana avveniva ovviamente
clandestinamente, e soprattutto per via femminile. La pozione era accompagnata
da un minuzioso manuale che ne spiegava l’uso.
Ad essa dunque fecero ricorso anche le cinque donne
romane, pochi anni dopo la sua invenzione.
Le autorità ecclesiastiche ricostruirono una sordida
vicenda di avvelenamenti multipli, che aveva coinvolto, come protagoniste,
anche donne di alto lignaggio, tra cui la duchessa di Ceri, una Vitelleschi e
altre patrizie allettate dalla possibilità di sbarazzarsi di scomodi mariti e
di ereditarne le ricchezze.
I giudici dell’Inquisizione, però, come accadeva
spesso, mentre non ebbero pietà con le cinque donne che appartenevano ad un
ceto inferiore, risparmiarono le donne dell’alta società, liberandole da
qualunque accusa.
Per le streghe
dedite all’uso dell’Acqua Tofana, le condanne erano durissime e
spaventose. L’Inquisizione aveva introdotto infatti la condanna della muratura
a vita, una sorta di condanna a morte dilazionata nel tempo, nelle condizioni
sepolte vive; oppure l’impiccagione, che veniva eseguita nella pubblica piazza.
Sorte che toccò alle cinque donne, giustiziate in
Campo de’ Fiori.
Nelle cronache dell’epoca c’è il racconto dettagliato
dell’esecuzione.
Il 5 luglio del 1659, riporta Giacinto Gigli, dopo pranzo furno fatte morire cinque donne in Campo de’ Fiore le quali
nelli anni passati nel tempo del contaggio (l’epidemia di peste del 1656) havevano carafe d’acqua distillata con
veleni d’arsenico e sollimato (sublimato di mercurio e cromo) per far morire la gente con la quale acqua
molte donne havevano uccisi li mariti et altri parenti, delle quali donne ne
furono murate molte nelle carceri dell’Inquisizione. (5)
La scelta del luogo di Campo de’ Fiori al posto
dell’usuale Ponte Sant’Angelo fu dovuta proprio allo scandalo derivato dalla
vicenda e dal fatto che riguardasse cinque donne: il che si costuma verso i malfattori più enormi per celebrità, era
la motivazione che si lesse nelle cronache dell’epoca.
Alle cinque donne avvelenatrici fecero seguito, per
altri due secoli molte altre condanne ai danni di donne: l’ultima in assoluto,
una certa Michelina Cimini, fu giustiziata – per omicidi – il 20 luglio del 1841
con il taglio della testa mediante ghigliottina a Ponte Sant’Angelo.
Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton Editore, Roma, 2015
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