C'è un po' di oltre-mondo in Rio de Janeiro.
Quando sono arrivato lì, anni fa, ho sentito una dissonanza (dal resto del mondo), che era come la scrittura di Clarice Lispector, lussureggiante e chiusa, misteriosa e sincopata, generosa, palpitante.
Quando ho attraversato Leblon - in un caffé incontrai per una intervista Manuel Puig - sentivo il canto disperato di Maria Creuza, del suo amore oltre-mondano poetato da Vinicius de Moraes.
Nel grande ingresso del Teatro Municipal, ogni ballerino era un mondo, ed ogni mondo era un colore diverso.
Ogni frutto mangiato lì aveva un sapore oltre-terreno: niente aveva sapori conosciuti, niente aveva profumi conosciuti.
A Copacabana, il grande spazio immenso era allo stesso tempo recluso dai Morros. Così come tutto quell'azzurro era chiuso da nuvole cariche di pioggia che sparivano misteriosamente in pochi minuti, dopo aver inondato tutto.
Sui tornanti tortuosi per raggiungere il Corcovado, il tassista giocava con la nebbia e ci fermava sempre sul tempo del precipizio.
Tutto era precipizio, come Cristo sui pinnacoli tentato dal diavolo.
Tornati da Angra dos Reis, attraversando la foresta aggressiva fino al mare, i villaggi dei pescatori già supportati dal cemento, le centrali nucleari invise a Fernando Ribeiro e alla sua truppa di volenterosi, fui nuovamente inghiottito da Rio.
E di nuovo fu come passare in un'altra dimensione.
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata
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