Dopo La vista da Castle Rock aveva giurato che non avrebbe scritto più. E il suo editore italiano, per consolarci di non poter più contare sull’atteso periodico appuntamento con i bellissimi racconti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrittrici di questi due secoli, ha pensato bene di pubblicare una intensa, freschissima raccolta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, traduzione sempre impeccabile di Susanna Basso).ù
Racconti acuti, dolorosi, su gente vera e normale, su frammenti di vita impeccabilmente ricreati. Ma, dice ora maliziosa e rilassata la bella signora con i capelli bianchi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E perché ha mentito, signora? «Pensavo che fosse una buona idea. Pensavo che la gente mi potesse essere grata per questo». E Alice Munro, canadese, anni settantasette portati con grazia estrema («ma se mi penso mi penso a quaranta, quando sei ancora capace di esercitare un’attrazione sessuale e hai tempo davanti a te»), autrice di un corpus relativamente piccolo e molto acclamato di opere, sorride, beve vino bianco e ricorda.
«Sono nata nel 1931, durante la depressione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disastrosa. Non eravamo disperatamente poveri. Eravamo mentalmente poveri. Coltivavamo il nostro cibo, le nostre verdure. E nostro padre allevava volpi argentate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le fotografie di Eleanor Roosevelt aveva sempre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diventare ricco con questa attività, ma non ha avuto mai abbastanza soldi per investire, e non ci è riuscito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pellicce è passato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavorare in una fabbrica, in una fonderia. Mia madre si è ammalata molto gravemente di Parkinson ed è vissuta per quasi vent’anni in questa condizione disperata. E io, io ero la figlia più grande. E immagino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rimasta a casa, con mia madre e mio fratello e mia sorella più piccoli. Invece ho vinto una borsa di studio e me ne sono andata. All’ università. Per la verità non avevo abbastanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quattro. Dovevo trovare qualche forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non bastavano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era sposarmi».
Scherza? Sposarsi per sopravvivere?
«No, ero anche innamorata. Sa, ai ragazzi della mia città non piacevo affatto, perché ero così strana, una che leggeva sempre. Ma è successo che all’ università ho incontrato un ragazzo capace di accettare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non potevano sopportare che le loro donne si impegnassero seriamente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era felicissimo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto perché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bambina Sheila, poi una seconda bambina Catherine, che è morta subito, poi una terza, Jeannie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vivevamo a Vancouver, nei sobborghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle piccole riviste e una radio che promuoveva la letteratura nazionale. Ho cominciato a vendere qualche racconto, ad essere conosciuta nei giri che si occupavano di letteratura…».
La leggenda di Alice Munro vuole che per le short stories si sia ispirata alla Sirenetta di Andersen e per i romanzi a Cime tempestose.
«Non oserei mai di scrivere sul modello di Cime tempestose, è un libro unico. Ma è vero che La sirenetta ha avuto un influsso molto profondo su di me. Si è condannata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tragedia. In genere si pensa che una scrittrice donna debba scrivere come Jane Austen. E Jane Austen è bravissima. Ma per qualcuna della mia classe sociale non è interessante come le Bronte. Io non sono mai stata interessata alla società ben educata. Volevo che la gente avesse dei destini tragici e grandi emozioni. Quando i bambini erano piccoli ho letto come una disperata, tutto, ma non sono mai stata influenzata dai classici del ventesimo secolo come Proust, Mann, la letteratura nobile, sa, perché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scrivere sono Flannery O’ Connor, Carson McCullers, Eudora Welthy, scrittrici che raccontano le piccole città, la povera gente. Il mio territorio. Perché non solo ho avuto la fortuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità».
Ci sono state anche altre influenze.
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come cameriera, presso una famiglia, durante le vacanze su un lago. Eravamo in un posto molto isolato. Il padrone di casa mi ha dato da leggere le Sette storie gotiche di Karen Blixen. E le ho amate moltissimo, anche se poi più tardi ho pensato che non mi piaceva il suo punto di vista - quello di un’ aristocratica, e non solo, una che pensava che all’ aristocrazia vanno riservati trattamenti speciali. Quando leggo una scrittrice così penso sempre che nei suoi racconti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche grazie a lei se ho scoperto la bellezza della forma racconto - senza tuttavia mai cercare di imitare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la parodia del bello stile».
Ma lei fa dello stile: la lingua che usa è ricca, precisa, a volte persino preziosa nella scelta lessicale. «E’ un fatto canadese. La lingua è rimasta protetta in una capsula che non è tanto cambiata».
Difficile, per una donna, scrivere nel suo paese?
«Non difficile, quasi impossibile. Ero una giovane moglie e madre. Gli uomini non mi prendevano sul serio. Be’, veramente, alcuni sì. Per esempio Robert Weaver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Dirigeva una rivista, e non ha mai smesso di incoraggiarmi. Ma quando andavo agli incontri con gli altri scrittori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sopportavano».
Perché era troppo bella?
«Non mi sono mai considerata bella. No. Perché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o ornamenti. Nessuno mi prendeva sul serio come scrittrice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai margini. Scrivevo sulle cose sbagliate, non scrivevo di guerra, di politica - ed era ancora l’ epoca Hemingway».
Ed è uno stupendo contrappasso che lei oggi sia il nome più grande della letteratura canadese. «Sì. Una stupenda vendetta». Perché si è esercitata soprattutto la forma della short story?
«Per via del mio lavoro da casalinga. Non ho mai avuto un anno in cui lavorare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sempre interrotto. Non potevo nemmeno lontanamente pensare a un romanzo».
Cinque racconti di Le lune di Giove sono in prima persona. Siamo autorizzati a pensare che sono molto personali?
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto autobiografico: cose che ho vissuto, perché non puoi scrivere d’ amore senza aver avuto una certa quantità di esperienze d’ amore. O di sofferenza».
O, come in L’incidente, dell’ azione del caso, del suo potere di sconvolgere e ridisegnare le vite. «Non ho mai avuto un’ esperienza del genere, ma era importante scrivere quella storia. E se in passato ho capitalizzato sulla mia vita, ora mi guardo maggiormente in giro. Per esempio, sto lavorando adesso su una vecchia signora che ho visto andare a farsi tingere i capelli di viola e di blu, ma che non ha neanche un filo di trucco. Mi sono chiesta: che cosa sta cercando, che cosa vuol provare? E la mia fantasia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo. Da qualche anno sono tornata a vivere con il mio secondo marito in una piccola città, a trenta miglia da quella in cui sono cresciuta. Non scrivo direttamente sulla vita dei miei cocittadini, ma mi incuriosisce come la organizzano - e la vita è sempre molto difficile, è difficile attraversarla ed essere felici».
Accetterebbe la definizione di pietas per il suo modo di guardare ai personaggi dei suoi racconti?
«O di comprensione. O di capacità di perdonare i torti degli altri. Sì, se è pietas sapermi identificare nella condizione degli altri, nei loro comportamenti. Non scrivo così perché io sia particolarmente buona. Ma perché posso immaginare che io stessa, in certe condizioni, potrei comportarmi in maniera disonorevole».
Lei è molto amata e letta, ma i suoi racconti non sono certo consolatori o tranquillizzanti, scavano, fanno soffrire.
«Credo che la gente legga le mie storie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Perché non cerco lo happy ending, perché scrivo per un momento di choc, di stupore, di rivelazione - ciò che rende la vita appassionante per me. E se riesco a suscitare negli altri questo effetto, è meraviglioso. Lo so, parlo di cose difficili, di sofferenza, di come si sopravvive alla sofferenza». Di Le lune di Giove, il racconto che dà il titolo alla raccolta e che ha al centro la figura di suo padre, colpisce il suo rapporto con la vecchiaia. «Non ho mai avuto paura della vecchiaia, ma ora, a settantasette anni, sento che il tempo si sta chiudendo. E ho un po’ paura delle cose che possono succedere. Di quello che ho visto succedere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in passato a come uso il tempo che mi è concesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sorride - per scrivere».
Intervista di Irene Bignardi, Repubblica 5 marzo 2005
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