20/01/12

6 miliardi di "altri": il mistero dell'individualità umana.


La nostra presenza qui, su questo mondo, è fondata sul presupposto dato per scontato, della nostra individualità.  L'individualità - quando sconfina in individualismo e in fanatismo - è anche il presupposto su cui si fondano fondamentalismi, nazionalismi, xenofobie.  

Eppure se soltanto riflettessimo sull'autentico fondamento della natura umana, capiremmo quanto sono labili i presupposti di questa individualità. 

Come ha efficacemente descritto Bill Bryson nel suo straordinario libro Breve storia su (quasi) tutto (pubblicato da Guanda nel 2006) le conoscenze scientifiche dimostrano sempre più chiaramente l'origine comune degli esseri umani. 

Ecco il brano che spiega assai bene la questione: 

Se i nostri genitori non si fossero uniti proprio in quel momento - con una precisione al nanosecondo - noi non saremmo qui. 

E se i loro rispettivi genitori, e i genitori di questi ultimi prima di loro, non avessero fatto altrettanto, ovviamente e di nuovo, noi non saremmo qui. 

Appena venti generazioni fa il numero di persone che hanno procreato nel nostro interesse arriva a 1.048.576. 

Trenta generazioni fa il numero totale dei nostri antenati era di oltre un miliardo. Se tornassimo indietro di sessantaquattro generazioni (all'epoca dei romani) il numero di persone che dovremmo ringraziare sarebbe di qualche triliardo. 

Ovvio che i numeri non tornano. La risposta è che la nostra non è una linea pura. Non saremmo qui infatti, se non ci fosse stato qualche 'incesto' - anzi, molti 'incesti' - sebbene a un livello di parentela molto lontano, o prudente. Poichè abbiamo milioni di antenati saranno state molte le occasioni in cui un nostro parente per parte di madre si sarà accoppiato con qualche lontano parente per parte di padre. 

In realtà se si ha una relazione con qualcuno della stessa razza e della stessa nazione, ci sono ottime probabilità di essere in qualche modo parenti. 

E fra noi c'è anche una misteriosa, arcana somiglianza. 

Se confrontassimo infatti i nostri geni con quelli di qualsiasi altro essere umano scopriremmo che sono identici al 99,9 per cento. E' questo a fare di noi una specie. 

Le minuscole differenze che rendono conto di quello 0,1 per cento sono ciò che ci conferisce la nostra individualità. 

Il mistero più grande, dunque, è proprio dentro di noi.

19/01/12

Bergonzoni: La pista di Atterraggio - un pensiero nuovo.



Conosco Alessandro Bergonzoni da molti anni. Mi vanto, anzi, di averlo in un certo senso "tenuto a battesimo", nei tempi lontani (1985) di una epica radio romana, della quale insieme a Giorgio Iacoboni, curavo la programmazione.

Alessandro era, all'epoca, all'inizio della sua folgorante carriera, un brillantissimo ragazzone bolognese 'in trasferta'  per presentare il suo spettacolo d'esordio (a Roma) al Teatro dell'Orologio, La saliera e l'ape Piera. 


Non era difficile, già da allora percepire la genialità di Alessandro e la sua capacità di creare - con gli apparenti nonsense e calembour dei suoi testi - una specie di pirotecnico spettacolo scenico, travolgente.

Con ancora maggior piacere dunque, riscopro oggi che Bergonzoni (ormai artista a tutto campo) si muove e percepisce quelle stesse istanze di rinnovamento personale sulle quali spesso in questo blog insistiamo e che sono l'unico presupposto - a mio avviso - per una effettiva ri-nascita globale, dopo la catastrofe delle ideologie, delle economie, delle filosofie, a cui stiamo assistendo in questi anni.

Non è un caso che questo magnifico monologo di Alessandro sia stato pubblicato sul sito di Beppe Grillo suscitando molti commenti acidi e di totale dissenso. Naturale, visto che i contenuti che qui propone Bergonzoni sono in totale anti-tesi con il pensiero massimalista, superficialmente omogeneo che oggi sembra aver depredato le menti.

Buona visione e ascolto.


15/01/12

La poesia della Domenica - 'In(abisso)'

In(abisso) 



Generale tempo del senso perso,
ecco i tuoi amici dispersi
ecco coloro che se ne sono andati,
i marinai del vento contrario,
ecco i monchi pazzi
ecco le vedove
ecco mio padre che sorride
e quello che un solco venerabile
ha lasciato, eccoli in corteo:
non vedi come conta i denti la ruota
del tempo soppesato da te,
non vedi come si ribella
reclama un nuovo visibile
spavento, uno spavento che finisca
in riso e non si penta e non scolori
mai
nel pianto.

Fabrizio Falconi © (inedito - 2012)




14/01/12

Festival delle Scienze di Roma - Julian Barbour: "Il tempo non esiste".



Sarà un meraviglioso viaggio nei gangli della condizione umana più misteriosa - quella del «tempo» - la settima edizione del Festival delle Scienze. 

Tra pochi giorni, dal 19 al 22 gennaio, all' Auditorium Parco della Musica a Roma, prenderà vita uno straordinario itinerario attraverso quello che la fisica e l' astronomia, la musica, l' arte e la storia, hanno prodotto sul significato della quarta dimensione e cioè l'idea del tempo.

Il carnet degli ospiti è davvero d' eccezione: dall' antropologo statunitense Ian Tattersall (sabato 21, alle 16) che discute del «tempo profondo dell' evoluzione» al fisico britannico Julian Barbour (domenica 22, alle 21) autore di quel libro geniale che è «La fine del tempo», pubblicato da Einaudi che giunge ad un 'ripensamento' completo della nostra concezione del tempo alla luce delle cognizioni della meccanica quantistica. 

Nel video qui sopra, una gustosa anticipazione del pensiero di Barbour.

11/01/12

"Considerazioni su di me e tutto il resto": il libro-memoria di Martin Scorsese.



Ho letto in questi giorni Conversazioni su di me e tutto il resto, il volume biografico su Martin Scorsese, appena uscito nell'edizione italiana da Bompiani.

E' un lungo libro-intervista  (purtroppo funestato da una pessima traduzione e ancor peggiore edizione con una esagerata quantità di errori e refusi di stampa)  realizzato dal giornalista e film-maker Richard Schickel, una vera e propria miniera per gli appassionati di cinema.  Che serve a inquadrare e a mettere in luce la complessa personalità di uno dei più grandi autori di cinema di sempre. 

La cosa per me più interessante del libro è stata - a parte la quantità di retroscena creativi e aneddoti di lavorazione, da Mean Streets a Toro Scatenato, da Fuori Orario a Gangs of New York - scoprire come ancora una volta il grande talento artistico - in questo caso quello di un creatore di fiction, di narrativa per immagini - si accompagni ad una consapevolezza profonda di sé, dei propri mezzi e bisogni espressivi, e dei propri limiti. 

Stupisce di Scorsese la fragilità emotiva - propria di molti artisti - ma anche la straordinaria umiltà, che stride con la vanagloria esibita da molti mezzi figuri che popolano la scena internazionale, i quali nelle loro rispettive carriere hanno realizzato un centesimo di ciò che ha prodotto la fertile vena del regista newyorchese. 

Scorsese è addirittura spietato nel valutare alcuni suoi film del passato. Inflessibile nel giudicare New York, New York, considerato da molti un capolavoro, perentorio nel giudicare perfino Toro Scatenato, che non inserisce tra i suoi preferiti, e che pure è ormai universalmente riconosciuto come una pietra miliare del cinema degli ultimi quarant'anni.  

I suoi giudizi, nell'intervista di Schickel (il quale fra l'altro tende lui sì a mettersi al centro dell'attenzione, a prendersi un indebito ruolo da protagonista nel corso dell'intervista) ribadiscono qual è la qualità principale per la crescita artistica: l'umiltà, insieme alla capacità di auto-valutazione. La durezza verso se stessi (la mancanza di auto-indulgenza) è l'unica condizione per continuare a sperimentare, a ricercare - con il rischio di fallire ogni volta - a capire cosa è giusto, cosa è necessario, cosa è vero.

Una grande lezione che è utile ascoltare e meditare e che spiega il senso di una vera ricerca creativa. 



Video in testa: SCORSESE from Sergio Ramirez on Vimeo.

05/01/12

Il figlio di Giorgio Caproni: "mio padre non era ateo."


L' "ateo" Giorgio Caproni era devoto a Maria e andava regolarmente a messa ogni domenica, cosi' come recitava quotidianamente le preghiere.

Alla vigilia del centenario della nascita del poeta (Livorno, 7 gennaio 1912 - Roma, 22 gennaio 1990), il figlio Attilio Mauro Caproni, 70 anni, professore ordinario di bibliografia all'Universita' degli Studi di Udine, sfata i ricorrenti pregiudizi dell'interpretazione critica sul padre. 

"Per Giorgio Caproni" e' il titolo del "Quaderno" che la rivista Studi cattolici dedica al grande poeta nel centenario della nascita. Caproni ebbe uno speciale rapporto con il mensile, come e' testimoniato dall'intensa corrispondenza con il direttore Cesare Cavalleri e dall'intervista - rilasciata nel 1983 e ora riprodotta - in cui lascio' trapelare la sua ricerca interiore. 

"Avvenire" ha anticipato oggi il dialogo tra il giornalista Alessandro Rivali e Attilio Mauro Caproni, da cui si apprende, attraverso le parole del figlio, che lo scrittore "amava molto i Padri della Chiesa, con una particolare predilezione per il sant'Agostino delle Confessioni e del De Civitate Dei". 

"Vorrei sfatare una volta per tutte la presunta irreligiosita' di mio padre. Si parla di un Caproni ateo. Inizio' un colloquio con Dio nella sua seconda stagione della vita - ricorda il figlio del poeta - o forse sarebbe meglio dire un colloquio con la trascendenza. Era un rapporto basato sulla ricerca del bene e del male. Faceva fatica a trovare Dio perché faceva fatica a trovare il bene, senz'altro meno appariscente del male, che invece si incontra tutti i giorni. L'etichetta di ateo e' stata attaccata in modo troppo sbrigativo, anche perché lui era profondamente religioso".

"Andava a Messa tutte le domeniche con mia madre. - continua il figlio del poeta - Forse ci andava per accontentarla, ma comunque ci andava. Diceva le preghiere due volte al giorno e un po' si seccava se tu te ne accorgevi. Era molto devoto alla Madonna della Guardia di cui aveva un'immaginetta nel taccuino. Poi la smarri' e ci resto' molto male. Era un'immagine molto consumata vecchia di quarant'anni. Mia madre gliene porto' un'altra; Sulla sua scrivania c'erano due testi che leggeva regolarmente: l'Antico e il Nuovo Testamento".  

04/01/12

E' morto Pietro Zullino. Un ricordo.


E' scomparso questa mattina presto.

Pietro Zullino se ne è andato in coerenza assoluta con il suo stile, con la sua discrezione assoluta.

Vorrei ricordare questo amico con poche parole. E' grande il vuoto che lascia. Perché Pietro assommava, in misura notevole, due qualità umane molto rare di questi tempi: la curiosità e la generosità.

Semplicemente, è una delle persone più colte che abbia conosciuto nella mia vita.  Capace di spaziare in ogni campo, e sempre da lui c'era da imparare.

Aveva anche la capacità di difendere il suo punto di vista sempre, ad ogni costo, di fronte a qualunque interlocutore: anche perché molto spesso aveva ragione lui.

Pietro ha lasciato una vasta e preziosa produzione di saggi e opere di narrativa straordinarie, che spero davvero vengano ristampate presto da un editore illuminato.  C'è anche qualche inedito che meriterebbe di essere scoperto perché chi lo ha letto sa che si tratta di cose davvero considerevoli, soprattutto nell'attuale, stantio  paesaggio culturale italiano.


Ciao, Pietro.


03/01/12

La morte di Don Verzè - Ambizione e cristianesimo non vanno d'accordo.



Sarà pur vero, come dice Massimo Cacciari, partecipando alle esequie, che Don Verzè ha lasciato ai suoi collaboratori, e al personale docente della Università Vita e Salute, "massima libertà, mai nessuna interferenza."

E sarà vero anche che, come invita a fare lo stesso Cacciari, Verzé meriti di essere ricordato "per quello che ha lasciato alla luce del sole," piuttosto che per i suoi guai giudiziari.

E però io credo che la vicenda umana del fondatore della Università del San Raffaele di Milano ci insegni fondamentalmente una cosa molto semplice: e cioè che l'ambizione personale (che nel caso di Don Verzé giungeva al livello della megalomania, come ha scritto Aldo Cazzullo nel ricordo sul Corriere della sera) si sposi molto male con il cristianesimo. 

Il cristianesimo e l'ambizione personale sono - dovrebbero essere e restare - realtà separate.

Il cristianesimo anzi, riferito agli insegnamenti del suo Fondatore, nei Vangeli, è edificato proprio sul valore costitutivo della rimozione di ogni ambizione personale, sul "farsi" humilis (da humus), sulla rinuncia agli onori, al riconoscimento degli altri, alla vanagloria terrena.

In questo senso, anche se il giudizio ultimo per un cristiano è sempre quello ultra-terreno, si potrebbe dire che Don Verzè è stato tradito proprio dalla più banale delle debolezze umane: l'ambizione s-misurata.

E se il giudizio divino  non ci riguarda e non ci può riguardare, un giudizio umano va pur dato.

Perché non è affatto vero che essere cristiani vuol dire disinteressarsi delle umane vicende.

Sono anzi, le umane vicende - cioè le opere, nel bene e nel male, e non le fatue parole - che contraddistinguono chi o cosa è cristiano.

Lo ha in qualche modo ribadito pochi minuti fa la stessa CEI per bocca del suo Segretario Generale, mons. Crociata, che in visita a Palermo, ha detto: ''Fino a quando non riusciremo a trasmettere che essere buoni cittadini e' dimensione integrante dell'essere buoni cristiani, difficilmente riusciremo a far crescere dei cristiani veri''. 

"Nemmeno la crisi," aggiunge Mons. Crociata, "può motivare indulgenza verso l'illegalità diffusa."

Essere buoni cittadini (il che vuol dire, credo, non trasgredire le leggi).  Non praticare l'illegalità.   Sono i presupposti per essere anche buoni cristiani.

Basterebbe già mettere a tacere il dèmone della propria ambizione, per evitare di comportarsi in flagrante contraddizione con quello in cui si professa di credere.


01/01/12

Il relativismo inevitabile ? Risposta a Dario Antiseri.


Ogni tanto c’è qualcuno che si sveglia e pontifica per convincerci tutti che il relativismo è l'unica cosa sensata che ci resta, proprio perché inevitabile. E sarebbe prova di buon senso e ragionevolezza convenire che nessuna verità - specie in campo etico - è affermabile, e/o credibile.

Ora è la volta di Dario Antiseri, che il 30 dicembre sulle pagine del Corriere della Sera, di spalla all'articolo di Gillo Dorfles sul 'nuovo illuminismo', bacchetta severamente: "il relativismo è inevitabile" (riporto l'articolo integralmente a fine di questo post). 

Ogni opinione è rispettabile, se ben argomentata, e Antiseri è ormai con una vasta schiera di pensiero, in buona e numerosa compagnia. 

Il problema però è che i suoi argomenti risultano molto discutibili.


L'uso di Pascal, innanzitutto, per sostenere l'inevitabilità del relativismo, mi appare davvero singolare.  E' ben strano riportare il celebre passo dei Pensieri sulla singolare giustizia che ha come confine un fiume, dimenticando di sottolineare che Blaise Pascal non è ovviamente solo il filosofo dell'uomo in bilico eterno tra infinito e nulla, ma è quel filosofo capace di rovesciare la condizione di totale incertezza umana (dovuta poi perlopiù secondo il pensatore di Clermont-Ferrand proprio alla 'mancanza umana', alla incompletezza e alla cecità propria della condizione terrestre, spiegabile in termini mitico-teologici con il peccato originale) con l'affidamento alla fede, e non ad una fede qualunque, ma alla fede cristiana, riconosciuta come vera.

Sappiamo di non sognare; per quanto siamo impotenti a darne le prove con la ragione - scrive Pascal  nel Pensiero 282 - questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza della nostra ragione, ma non per l'incertezza di tutte le nostre conoscenze [...]. Infatti la conoscenza dei principi primi [...] è più salda di qualunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore e dell'istinto la ragione deve appoggiarsi, e su di esse fondare tutto il suo ragionamento. [...] Questa impotenza non deve dunque servire che ad altro che ad umiliare la ragione -la quale vorrebbe giudicare di tutto-, ma non già a combatter la nostra certezza [...].

Antiseri, poi, per contestare l'esistenza - e la possibilità di discernimento - di un qualsiasi fundamentum inconcussum rationale, cita la famosa massima: la scienza sa, l'etica valuta.  Anche su questo ci sarebbe così tanto da discutere, ed è un po' curioso che Antiseri lo ponga come assioma.

Per esempio: cosa sa, esattamente, la scienza ??

Ogni giorno le acquisizioni in campo scientifico - l'ultima quella sui neutrini super veloci - ci dimostrano che la scienza sa soltanto quello che verrà smentito domani. E' stato così fin dalla notte dei tempi e sarà sempre così.   Non esiste niente più veloce della luce. E' vero finché non viene dimostrato il contrario. Come sta avvenendo ora.

A parte le conoscenze puramente scientifiche provvisorie, poi, la scienza non sa e non può dire nulla, soprattutto, sulle cosiddette questioni ultime.  Chi siamo, dove siamo, perché siamo qui, che succede dopo la morte.   Come ha scritto recentemente George Steiner, in 2000 anni di progresso scientifico, le nostre conoscenze in questi campi non hanno fatto un solo passo in avanti.  

Ma la cosa davvero più singolare dell'articolo di Antiseri è la chiosa finale, nella quale, rivolgendosi ai cattolici antirelativisti, egli scrive: "vi pare facile replicare a Karl Heim quando scrive che i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo ?"

Davvero ciò che chiede Heim e che auspica Antiseri è una specie di ossimoro, di contraddizione in termini. Finché si parla in termini di conoscenza scientifica, o pensiero razionale,  ogni punto di vista è contestabile.  Ed è giusto che lo sia.

Ma come è perfino troppo ovvio per chi si muove in un ambito di fede - cioè affidamento - che pure per questo non vuole e non pretende di escludere la ragione (ma si muove nelle possibilità che la ragione offre),  un cristiano (non necessariamente un cattolico) non può in alcun modo offrire - e non offrirà mai - il sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo.

Per la semplice ragione che i cristiani credono non in una serie di dogmi, o princìpi comuni, ma in una persona.  Cioè nel Cristo.  Colui che - secondo il racconto dei Vangeli - affermò senza possibilità di fraintendimenti:   Io sono la verità, la via, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv.14.6).

Per un cristiano dunque non soltanto il relativismo non può esistere, per quanto riguarda l'uomo e il mondo. Ma esiste, all'opposto la Verità.   E la Verità - per un cristiano - è una soltanto, quella che si incarna nella persona di quell'uomo, che è Dio.

Fabrizio Falconi

29/12/11

'Cercare Dio' - 25 anni dalla morte di Tarkovskij.



In occasione del 25mo anniversario della morte di Andrej Tarkovskij, pubblico l'incipit del capitolo a lui dedicato di un libro di prossima pubblicazione, intitolato Cercare Dio. E' la rivisitazione della vicenda umana e artistica del grande regista attraverso le memorie contenute nei suoi Diari. 

Per una di quelle circostanze che decidono i destini degli uomini – in questo caso l’essere nato in un periodo storico di feroci opposizioni e blocchi contrapposti – il corpo del grande Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi autori della storia del cinema, riposa lontano dal suo paese, il paese dove è nato, e dove hanno vissuto i suoi predecessori.

La tomba di Tarkovskij non è infatti a Zavraz’e, il piccolo villaggio sulle rive del Volga dove il regista nacque il 4 aprile del 1932, e nemmeno in nessun altro cimitero della sconfinata Russia, ma al cimitero ortodosso di Saint-Géneviève-des-Bois, nei pressi di Parigi. Se Tarkovskij fu seppellito in Francia, e non nel suo paese, fu dovuto alla decisione della moglie Larisa, che rifiutò l’offerta da parte delle autorità sovietiche di far rimpatriare il corpo del grande regista perché fosse sepolto a Mosca. 


La decisione era del tutto conseguente a una estenuante guerra, cominciata molti anni prima, con le autorità sovietiche che – da sempre, dall’inizio, da L’infanzia di Ivan, girato nel 1962 – avevano mal sopportato i contenuti dei film di Tarkovskij, l’ermetismo e il forte simbolismo delle immagini, e soprattutto i riconoscimenti tributati all’estero ad un autore considerato genialmente innovativo. 

Il conflitto con le autorità di controllo dello spettacolo sale, pellicola dopo pellicola, fino alla decisione di Tarkovskij, inevitabile, di usufruire nel luglio del 1979 di un permesso di espatrio, per raggiungere l’Italia e lavorare finalmente liberamente ad un nuovo progetto. Decisione alla quale il regime sovietico darà una risposta durissima, impedendo alla moglie del regista Larisa, e al figlio Andrej – che all’epoca aveva solo nove anni – di raggiungere Tarkovskij. I tre – marito da una parte, moglie e figlio dall’altra – resteranno separati per sette lunghi anni, fino a pochi mesi prima della morte del regista, avvenuta appunto nel dicembre del 1986 a Parigi.

(segue) 

28/12/11

25 anni dalla morte di Andrej Tarkovskij - "Avvenire" pubblica intervista inedita.



Ricorrono domani i 25 anni dalla scomparsa, che avvenne a Parigi, di Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi registi della storia del cinema, e grande anima.   In questa occasione il quotidiano Avvenire pubblica oggi una intervista inedita che ripercorre il pensiero e l'opera di questo grande artista. 

(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi

Andrej Tarkovskij: "Il mio stalker é Don Chisciotte." 

Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotogra­fi, cameramen, intellettuali disorgani­ci. L’afa era insopportabile, ma un bri­vido corse nella schiena di tutti quan­do apparve quell’omino nervoso, dal­la fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di vio­lino. Pensavo al suo primo cortome­traggio, noto solo ai cinefili più acca­niti: Il rullo compressore e il violino . Se ora il violino era lui, il rullo compres­sore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di lu­glio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostal­ghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelica­le con l’adorata Madre Russia, avreb­be scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tut­to il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Crem­lino. «Ma me ne vado soprattutto per­ché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insiste­va per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sar­casmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di u­na persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 an­ni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio .
Un film che, quel caldo giorno di lu­glio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la con­fessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupi­scono per la loro attualità. Le propo­niamo qui per la prima volta al lettore italiano. Roberto Copello 


27/12/11

Over that unique, lost (Su quell'unico, perduto) - di Fabrizio Falconi .


Over that unique, lost
trimmed
indelible balcony geranium,
slipped all of life,
detached,
eaten by the earth.

I was a shingle
out of place, balanced
between swallows and the reek of compost.
Nearby cracks come into focus,
it was not enough to live,
it was of no use to die.

The geranium
consumed by the years
attempts new colors
in the same dead earth.


Su quell'unico, perduto 
reciso,
indelebile geranio da balcone,
scivolata tutta la vita,
staccata,
mangiata dalla terra.

Io ero un'assicella
mal disposta, in equilibrio,
tra rondini e puzza di torba.
Vicine crepe distinte,
a nessuno bastò vivere,
a nessuno servì morire.

Il geranio
consunto dagli anni
tenta nuovi colori,
nella stessa morta terra.


traslated by David Lummus
Fabrizio Falconi, in Tri-Quarterly 127/2007.

24/12/11

Rainer Maria Rilke - Lettera di Natale alla madre.



Accetta dunque, mia cara mamma, un bacio con tutto il cuore nella solenne ora di Natale, la più pacata dell'anno, la più misteriosa, in cui i desideri ancora ignari si tendono fino all'estremo e vengono per prodigio esauditi: trascorrila nel profondo, grande raccoglimento del tuo cuore, abbandona ogni dubbio e incomprensione: in quest'ora abbiamo un posticino dentro di noi dove siamo semplicemente bambini, che attende e sta là, fiducioso e mai confuso, nel suo diritto ad una grande gioia: questo è il Natale, avvertire dentro di sè, una volta l'anno, questa aspettativa questo fermo diritto che niente può deludere...

sentire che l'adulto che ora è sopra di noi non con meno, anzi, con molto di più, con l'infinito vuole sorprenderci,    che in fondo i nostri più grandi desideri, se solo apriamo loro il nostro cuore, non possono non essere esauditi, che mai quel che abbiamo dentro di noi è un desiderare allo stato puro ma in parte è già un essere esaudito che dobbiamo lasciare nelle mani di Dio, che coltiverà il nostro terreno, e gli darà credito.

Rainer Maria Rilke, Lettera alla Madre da Tunisi, Tunesia Palace Hotel, il 19 dicembre del 1910.

 nella foto: Lev Tolstoj con la nipote Tania Sukhotina a Iasnaia Poliana. 

22/12/11

La presentazione di 'In Hoc Vinces' a "Più libri, più liberi."




Roma, Palazzo dei Congressi, Più libri, Più liberi, 8 dicembre 2011.

Presentazione del libro In Hoc Vinces. La notte che cambiò la storia dell’Occidente di Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi.
A cura di Edizioni Mediterranee – Sala Smeraldo





21/12/11

L'incredibile Leigh Fermor, il "viaggiatore seriale".




Sara' pubblicato nel 2013 il terzo ed ultimo capitolo dell"'odissea europea" di Sir Patrick Leigh Fermor, il leggendario scrittore e viaggiatore britannico morto lo scorso 10 giugno all'eta' di 96 anni. Lo ha annunciato il suo editore inglese John Murray, precisando che Leigh Fermor inizio' a scrivere questo libro di memorie autobiografiche negli anni Sessanta sulla base di una serie di quaderni annotati durante i suoi interminabili viaggi a piedi.

La pubblicazione di questo terzo libro autobiografico, che concludeva la narrazione del suo mitico viaggio a piedi dall'Olanda a Istanbul compiuto all'eta' di 18 anni, era stata annunciata come imminente dallo stesso Leigh Fermor nel 2007. Nel 1977 Leigh Fermor pubblico' A Time of Gifts (tradotto initaliano da Adelphi con il titolo Tempo di regali) e nel 1986 Between the Woods and the Water, i primi due libri che parlano in dettaglio della sua straordinaria esperienza di viaggiatore: scritti decadi dopo, poterono beneficiare in questo modo della sua formazione accademica, arricchendo il procedere della narrazione con una miniera di spunti storici, geografici, linguistici e antropologici.

Il previsto terzo volume, che completa la descrizione del viaggio a piedi dalla Bulgaria fino al suo epilogo a Istanbul, vedra' dunque la luce postumo. La redazione finale del terzo volume si avvarra' della cura di Artemis Cooper, biografo ed amico del grande scrittore di viaggi. Perfezionista fino all'estremo, Leigh Fermor, pur lavorando fino alla fine, non considerava del tutto completato il terzo volume delle sue memorie. Cooper ha annunciato anche per il settembre 2012 una biografia di Leigh Fermor basata su numerosi documenti inediti del suo archivio.

19/12/11

Mildred Pierce - l'ambizione che diventa inferno.



Mildred Pierce è un romanzo scritto da James M.Cain - lo stesso del Postino suona sempre due volte - nel 1941.

La miniserie televisiva HBO (andata in onda su Sky) che ho visto di recente, è molto interessante e anche piuttosto innovativa rispetto al famoso film che dal romanzo trasse nel 1945 Michael Curtiz con Joan Crawford protagonista. 


La storia del libro è nota. E' ambientata a Los Angeles negli anni '30, in piena Grande depressione. 

Mildred Pierce è una donna che divorzia dal marito disoccupato e inefficiente e lotta per mantenere se stessa e le sue due figlie. L’eccessivo attaccamento nei confronti della figlia maggiore Veda la spinge a una scalata verso il successo, che da cameriera la vede diventare proprietaria di ristoranti; ma anche a scelte sbagliate sul piano professionale e privato che condurranno a conseguenze molto disastrose.

La serie televisiva è molto interessante ed è anche ovvio immaginare il motivo per cui la HBO abbia deciso di produrla proprio oggi: i tempi si assomigliano, in America come nel resto del mondo occidentale.

La crisi distrugge ogni certezza e spinge - o spingerebbe - le persone a dare il meglio per cercare di venirne fuori.

Mildred è un tipo tosto. Reagisce con forza che appare sovrumana perfino alla morte della figlia piccola, che si ammala a 6 anni.

Ricomincia sempre daccapo. Non rinuncia, non si piange addosso.  Si prende e pretende il meglio, spinge sul tasto della propria incrollabile ambizione personale. Non si rassegna. Non solo non vuole soccombere, ma vuole anche invece affermarsi.      Dimostrare a tutti ciò che vale.

Il problema, però, è che Mildred, anche Mildred, deve fare i conti con il proprio fattore umano.

In termini psico-analitici si potrebbe dire, con la propria ombra.    L'ambizione, che per Mildred è uno straordinario mezzo di emancipazione sociale, è anche la sua condanna, il suo personale inferno.

Ciò che Mildred non percepisce, non vuole capire, non vuol sentire, è che l'ambizione la guida, e non è lei a guidare la sua personale ambizione.

In questo Mildred è una specie di Bovary del Novecento: perennemente in-soddisfatta di quel che ha (il marito, la posizione sociale, il lavoro), cerca quel che non ha, anche se non è alla sua altezza. O forse proprio per questo.

A differenza della creatura flaubertiana però, Mildred sa dare concretezza e continuità ai suoi sogni di grandezza.   Non sono semplici chimere.  Per buona parte della sua storia, Mildred sembra capace di poter controllare l'esaudimento dei propri desideri.

E però, la vita - in questo caso l'ombra che la vita di Mildred contiene - presenta il suo conto.

Sotto forma di una figlia diabolica che ritorce contro la madre quegli stessi sogni di grandezza, uccidendone allo sbocciare ogni evidenza, rovinandone ogni godimento, contro-figurando ogni possibile soddisfazione emotiva, nel peggiore dei modi.

E' una buona lezione, Mildred Pierce - nella splendida interpretazione di Kate Winslet, oramai una delle migliori attrici del panorama contemporaneo.

E' una buona lezione, anche se arriva da una prospettiva puritana, tipicamente americana.

Ci spinge a chiederci, anche a noi, in giorni che appaiono sotto molti aspetti non lontani dalla realtà che vive Mildred nella sua piccola epopea di Glensville,  cosa sia veramente necessario, e cosa non lo sia.

Cosa serva realmente alla nostra vita - emanciparci socialmente, dimostrare a tutti chi siamo, far soldi - e cosa non lo sia.

Cosa resti in mano alla fine di tutto, quando l'età del corpo sfiorisce, insieme alle illusioni di cui ci piace costellare il nostro transito terrestre.



15/12/11

George Steiner: sulle "questioni ultime" in 2000 anni non abbiamo fatto un solo passo avanti, nella conoscenza.



Quando leggo quasi ogni giorno sui giornali delle grandi scoperte della scienza che sembra spieghino tutto della nostra vita biologica (il dominio della genetica) mi tornano in mente le parole di George Steiner, il grande scrittore e saggista francese, che qualche tempo fa ammoniva sugli scarsi risultati raggiunti, complessivamente, dalla storia umana, riguardo alle cosiddette 'questioni ultime': chi siamo, da dove veniamo, se c'è un motivo per cui siamo qui, cosa è la morte. E' molto interessante rileggerle. 

Ma resta un fatto schiacciante: ..Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell'enigma della natura - o dello scopo, se ce n'è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio. 

Potremmo anche essercene allontanati. I tentativi di "pensare fino in fondo" questi problemi ... hanno prodotto la nostra storia religiosa, filosofica, letteraria, artistica e scientifica. 

Questi tentativi hanno impegnato i migliori intelletti e le migliori sensibilità creative del genere umano - un Platone, un sant'Agostino, un Dante, uno Spinoza, un Galileo, un Marx, un Nietzsche o un Freud. Hanno generato sistemi teologici e metafisici affascinanti per la loro sottigliezza e suggestivi per la loro forza propositiva. In ultima analisi, comunque, non andiamo da nessuna parte. 

Per quanto riguarda il loro risultato concreto, la danza aborigena intorno al totem e la summa di Tommaso, il voodoo e Plotino sulle emanazioni, mettono in atto, comunicano miti che condividono analogie più che accidentali. Non producono alcuna prova. 

A dire il vero la storia degli sforzi che si sono succeduti per provare l'immortalità e l'esistenza di Dio costituiscono una cronaca imbarazzante della condizione umana. Nessuna confutazione è assiomaticamente possibile. 

La verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante costituiscono il prestigio e il crescente dominio che esercitano nella nostra cultura, ma la scienza non può dare nessuna risposta alle questioni quintessenziali che ossessionano lo spirito umano. Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza: La scienza può soltanto negarne la legittimità. 

Tuttavia siamo creati in modo tale che indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura di Sant'Agostino che quella della teoria delle stringhe. La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l'uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. 

Ma lo lascia straniero a sè stesso e all'enormità del mondo. 

In effetti, Steiner, mi sembra, non ha torto: la capacità cognitiva del mondo, delle grandi questioni legate all'esistenza - al di fuori di un'ottica di fede - non ha fatto un solo passo avanti, in millenni di storia. Le domande sono sempre le stesse, ma le risposte sono sempre un mistero.