Ricorrono domani i 25 anni dalla scomparsa, che avvenne a Parigi, di Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi registi della storia del cinema, e grande anima. In questa occasione il quotidiano Avvenire pubblica oggi una intervista inedita che ripercorre il pensiero e l'opera di questo grande artista.
(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia. Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi
(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia. Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi
Andrej Tarkovskij: "Il mio stalker é Don Chisciotte."
Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotografi, cameramen, intellettuali disorganici. L’afa era insopportabile, ma un brivido corse nella schiena di tutti quando apparve quell’omino nervoso, dalla fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di violino. Pensavo al suo primo cortometraggio, noto solo ai cinefili più accaniti: Il rullo compressore e il violino . Se ora il violino era lui, il rullo compressore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di luglio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostalghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelicale con l’adorata Madre Russia, avrebbe scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tutto il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Cremlino. «Ma me ne vado soprattutto perché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insisteva per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sarcasmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di una persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 anni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio .
Un film che, quel caldo giorno di luglio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la confessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupiscono per la loro attualità. Le proponiamo qui per la prima volta al lettore italiano. Roberto Copello
Andrej Tarkovskij, non teme di occidentalizzarsi lontano dalla Russia? Di perdere la "russità" che intride i suoi film?
«Non penso, non so lavorare in un modo diverso dal mio. Non sono capace di cambiare. Alcuni la ritengono una qualità: forse non lo è, ma anche quando mi viene il desiderio di cambiare, non ci riesco proprio. Per un artista l’importante è rimanere se stesso. Cosa che vale per tutti, in ogni circostanza della vita. E questa russità, se è dentro di te, non occorre tenerla in vita artificialmente ». «Forse ora mancheranno l’acqua, o le dacie russe... «Mancheranno per forza molte cose, ma anche altre cose dentro. Comunque molti russi hanno lavorato con successo all’estero. Ivan Bunin (Nobel per le letteratura nel 1933, ndr) mal sopportava l’esilio e provò la nostalgìa come nessun altro, eppure scrisse in Francia i suoi libri migliori, come La vita di Arseniev. E prenda Gogol: le Anime morte sono state scritte a Roma. Essere emigrati è durissimo, ma la vita è la vita. La nostalgia nei russi è diversa da quella che nutrono gli altri emigrati: la nostra è irreversibile perché non possiamo tornare in patria».
Si dice che i suoi film siano difficili. Questa «difficoltà» deriva da un’esigenza personale o anche dal bisogno di aggirare la censura sovietica?
«Non ho mai avuto scontri diretti con la censura. E non credo che i miei film siano diffìcili. In effetti, colleghi registi come Rjazanov e Bondarciuk sostengono che nessuno li capisce e nessuno li guarda. Un giudizio che non corrisponde alla realtà. Quando uscì Lo specchio, a Mosca era impossibile trovare i biglietti e proiettavano il primo spettacolo alle 7 di mattina! Poi alla direzione statale per il cinema e la radio seppero del successo, e tolsero il film dalla programmazione. Quando è uscito Stalker, la “Komsomolskaja Pravda”, giornale della gioventù comunista, lo ha citato fra i sei film di maggiore incasso nella stagione. Dunque, i miei film sono per un’élite? Sono incomprensibili? Poi, se il cinema è arte, è ridicolo distinguere fra arte facile e arte difficile. Chi è più facile e più diffìcile tra Leonardo e Michelangelo? O tra Dante e Petrarca?
Forse i sonetti di Petrarca sono più facili? Ridicolo. Certo, se il cinema è una merce, tipo chewinggum, allora non si può paragonarlo ad altri tipi di arte. Ma a mio avviso il cinema è arte, ha un’altissima qualità poetica e si pone a livello delle altre muse, delle arti più antiche e nobili. Goethe sosteneva che scrivere un buon libro è altrettanto diffìcile che leggerlo. O piuttosto: leggere un buon libro è altrettanto difficile che scriverlo. Il pubblico, dunque, è anche un principio creatore».
Al centro del suo cinema c’è sempre l’uomo. Ḕ tale interesse che rende possibile l’opera d’arte?
«Ma è così in qualunque arte, anche nella pittura astratta! Persino i film che sembrano trascurare l’uomo, mettendolo in secondo piano, in realtà lo hanno al centro».
I suoi film sono anche pieni di simboli…
«A me pare il contrario: non ci sono simboli nei miei film. Ci sono immagini, che vanno intese letteralmente, non in senso figurato. Qual è la differenza? Che il simbolo può essere decifrato, un’immagine no, perché porta sempre in sé un riflesso del mondo, infinito, e non ha un significato definito. Alla fin fine, un’immagine racchiude un immenso numero di interpretazioni. In questo, mi sento vicino a una visione zen dell’arte».
Quanto è presente Dostoevskij nei suoi film? Lo Stalker per esempio sembra un puro di cuore come il principe Myshkin dell’ «Idiota».
«Può essere, ma allora perché non dire anche che somiglia a Don Chisciotte? Il fatto è che lo Stalker appartiene a una categoria di figure ideali, come Myshkin o Don Chisciotte o certi personaggi di Dickens. Poco numerose nella letteratura mondiale, però ci sono. Quanto a Dostoevskij, ogni russo ha idea di che cosa significhi la dostoevscina (il «dostoevskismo», come lo definì spregiativamente Gorkij, ndr). I critici però compiono tutti un errore: fanno paragoni tra i personaggi, notano le somiglianze.
Invece nell’arte (ma anche nella scienza) ha più senso chiarire la specificità di un fenomeno».
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