28/12/11

25 anni dalla morte di Andrej Tarkovskij - "Avvenire" pubblica intervista inedita.



Ricorrono domani i 25 anni dalla scomparsa, che avvenne a Parigi, di Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi registi della storia del cinema, e grande anima.   In questa occasione il quotidiano Avvenire pubblica oggi una intervista inedita che ripercorre il pensiero e l'opera di questo grande artista. 

(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi

Andrej Tarkovskij: "Il mio stalker é Don Chisciotte." 

Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotogra­fi, cameramen, intellettuali disorgani­ci. L’afa era insopportabile, ma un bri­vido corse nella schiena di tutti quan­do apparve quell’omino nervoso, dal­la fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di vio­lino. Pensavo al suo primo cortome­traggio, noto solo ai cinefili più acca­niti: Il rullo compressore e il violino . Se ora il violino era lui, il rullo compres­sore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di lu­glio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostal­ghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelica­le con l’adorata Madre Russia, avreb­be scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tut­to il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Crem­lino. «Ma me ne vado soprattutto per­ché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insiste­va per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sar­casmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di u­na persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 an­ni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio .
Un film che, quel caldo giorno di lu­glio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la con­fessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupi­scono per la loro attualità. Le propo­niamo qui per la prima volta al lettore italiano. Roberto Copello 






Andrej Tarkovskij, non teme di occidentalizzarsi lontano dalla Russia? Di perdere la "russità" che intride i suoi film? 
«Non penso, non so lavorare in un modo diverso dal mio. Non sono ca­pace di cambiare. Alcuni la ritengo­no una qualità: forse non lo è, ma anche quando mi viene il desiderio di cambiare, non ci riesco proprio. Per un artista l’importante è rima­nere se stesso. Cosa che vale per tut­ti, in ogni circostanza della vita. E questa russità, se è dentro di te, non occorre tenerla in vita artificialmen­te ». «Forse ora mancheran­no l’acqua, o le dacie russe... «Mancheranno per forza molte cose, ma anche altre co­se dentro. Comunque molti russi hanno lavorato con successo all’e­stero. Ivan Bunin (Nobel per le lette­ratura nel 1933, ndr) mal sopportava l’esilio e provò la nostalgìa come nessun altro, eppure scrisse in Fran­cia i suoi libri migliori, come La vita di Arseniev. E prenda Gogol: le Ani­me morte sono state scritte a Roma. Essere emigrati è durissimo, ma la vita è la vita. La nostalgia nei russi è diversa da quella che nutrono gli al­tri emigrati: la nostra è irreversibile perché non possiamo tornare in pa­tria».

Si dice che i suoi film siano difficili. Questa «difficoltà» deriva da un’esi­genza personale o anche dal biso­gno di aggirare la censura sovie­tica? 
«Non ho mai avuto scontri di­retti con la censura. E non credo che i miei film siano diffìcili. In effetti, colleghi registi come Rjazanov e Bondarciuk sostengono che nessu­no li capisce e nessuno li guarda. Un giudizio che non corrisponde alla realtà. Quando uscì Lo specchio, a Mosca era impossibile trovare i bi­glietti e proiettavano il primo spet­tacolo alle 7 di mattina! Poi alla dire­zione statale per il cinema e la radio seppero del successo, e tolsero il film dalla programmazione. Quan­do è uscito Stalker, la “Komsomol­skaja Pravda”, giornale della gio­ventù comunista, lo ha citato fra i sei film di maggiore incasso nella stagione. Dunque, i miei film sono per un’élite? Sono incomprensibili? Poi, se il cinema è arte, è ridicolo di­stinguere fra arte facile e arte diffici­le. Chi è più facile e più diffìcile tra Leonardo e Michelangelo? O tra Dante e Pe­trarca?
Forse i sonetti di Pe­trarca sono più facili? Ri­dicolo. Certo, se il cinema è una merce, ti­po chewing­gum, allora non si può pa­ragonarlo ad altri tipi di ar­te. Ma a mio avviso il cinema è arte, ha un’altissima qualità poetica e si pone a livello delle altre muse, delle arti più antiche e nobili. Goethe so­steneva che scrivere un buon libro è altrettanto diffìcile che leggerlo. O piuttosto: leggere un buon libro è altrettanto difficile che scri­verlo. Il pubblico, dunque, è anche un principio creatore».

Al centro del suo cinema c’è sempre l’uomo. Ḕ tale interes­se che rende possibile l’opera d’arte? 
«Ma è così in qualunque arte, anche nella pittura astratta! Persino i film che sembrano trascurare l’uomo, mettendolo in secondo piano, in realtà lo hanno al centro».

I suoi film sono anche pieni di sim­boli… 
«A me pare il contrario: non ci sono simboli nei miei film. Ci sono im­magini, che vanno intese letteral­mente, non in senso figurato. Qual è la differenza? Che il simbolo può es­sere decifrato, un’immagine no, per­ché porta sempre in sé un riflesso del mondo, infinito, e non ha un si­gnificato definito. Alla fin fine, un’immagine racchiude un immen­so numero di interpretazioni. In questo, mi sento vicino a una visio­ne zen dell’arte».

Quanto è presente Dostoevskij nei suoi film? Lo Stalker per esempio sembra un puro di cuore come il principe Myshkin dell’ «Idiota».
«Può essere, ma allora perché non dire anche che somiglia a Don Chi­sciotte? Il fatto è che lo Stalker ap­partiene a una categoria di figure i­deali, come Myshkin o Don Chi­sciotte o certi personaggi di Dickens. Poco numerose nella lette­ratura mondiale, però ci sono. Quanto a Dostoevskij, ogni russo ha idea di che cosa significhi la do­stoevscina (il «dostoevskismo», co­me lo definì spregiativamente Gorkij, ndr). I critici però compiono tutti un errore: fanno paragoni tra i personaggi, notano le somiglianze.
Invece nell’arte (ma anche nella scienza) ha più senso chiarire la specificità di un fenomeno». 

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