25/07/11
"L'infinita idiozia del Male" - di Claudio Magris.
Propongo per i lettori del blog, la più lucida e condivisibile analisi che ho letto sui terribili fatti di Norvegia di questi giorni che ci costringono ancora una volta a interrogarci sulla natura del male umano. L'articolo di Claudio Magris è comparso oggi sul Corriere della Sera.
Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico.
Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti.
Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, «tutto è politico». Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità.
Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione.
Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime.
Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato.
Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando «tutto è possibile», come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi.
24/07/11
RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 5 - RESPONSABILITA'
04/07/11
RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 4 - AMORE
03/07/11
IN HOC VINCES a Radio 3 Scienza.
01/07/11
RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 3: NATURA.
29/06/11
RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 2: DOMANDE.
28/06/11
RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 1- UMILTA’.
19/06/11
Imparare a stare soli per prepararsi ad amare veramente.
Così scriveva Erich Fromm in quel fortunatissimo libro - quasi una sorta di Bibbia per una intera generazione - che è L'arte di amare (pag.119).
Osservando i tempi confusi, la confusione di pensiero (che genera confusioni di emozioni e di sentimenti) si resta colpiti dalla pre-veggenza di Fromm, del quale molte sentenze sembrano oggi chiarissimamente evidenti.
In quell'altro suo 'testo capitale' che è L'arte di vivere, Fromm partiva dall'analisi delle regole compulsive che regolano la società dei capitali, la società dei profitti.
Questa dis-abitudine alle emozioni alla quale abbiamo ridotto le nostre vite, è per Fromm la causa anche della nostra incapacità di amare, e di costruire relazioni stabili nel tempo, in un lungo tempo d'amore.
Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d'amare. Ma essere soli vuol dire imparare a conoscersi. Cioè fare i conti con le proprie disarmonie, con le ombre, con i lati peggiori, con le aperture e le risorse inaspettate, che costano fatica.
E' però l'unica strada, avverte Fromm.
Perché se si gioca tutto sul piano del possesso, del tutto e subito, del 'meno emozioni possibili', la strada non potrà che essere lastricata di delusioni. Perché tutte le forme di unione sessuale hanno tre caratteristiche: sono intense, e perfino violente; coinvolgono tutto l'essere, mente e corpo; sono periodiche e transitorie.
Perché L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo.
Ma chi, oggi, ha la forza e la pazienza, e l'educazione mentale di ascoltare se stesso, i propri desideri, ma soprattutto la capacità di essere e di dare ? Senza questo, non si va lontani. La girandola delle passioni ci lascia l'amore in bocca, stancamente ci lascia naufragare nel lago di un tempo insensato.
Eppure ogni bellezza è lì, nella conoscenza di sé, nel canto liberato della nostra psiche. Che solo si completa - quello che una volta si chiamava il gioco delle anime - nel prudente avvicinamento, nell'addomesticamento, nella conoscenza reale reciproca.
La psiche non ha mai detto che il sesso è la radice di tutto - scrive James Hillman ne il Linguaggio della Vita - è stato Freud a sostenerlo. La psiche dice di essere 'lei' la radice; 'lei' le sue immagini' .
Fabrizio Falconi
16/06/11
'Considerate ciò che c'è sulla terra !'
10/06/11
Ervin Laszlo: "Stiamo provocando il divorzio uomo-natura. Siamo a un bivio: o una svolta sostenibile o sarà autodistruzione."
Credo sia molto istruttivo ascoltare la voce di Ervin Laszlo, grande filosofo ungherese, fondatore della teoria dei sistemi.
Ormai, secondo il filosofo, siamo completamente interdipendenti a livello planetario - potremmo dire che si è realizzata la profezia di Lao-Tse secondo cui un battito d'ali qui può provocare un terremoto dall'altro lato del pianeta - ed è quindi necessaria la formazione di una coscienza planetaria che attui la svolta verso un'economia sostenibile. L'uomo va infatti verso l'autodistruzione, continuando ad introdurre elementi non naturali nel mondo, come il nucleare.
Stiamo provocando, insomma, una sorta di divorzio uomo-natura nonostante non vi siano mai state nella storia tante possibilità a livello economico, manageriale e tecnologico per cambiare veramente il modello di sviluppo. Per Laszlo, allora, la rivoluzione deve partire dalla società, dai cittadini, che anche singolarmente grazie al web, possono aiutare a creare questa nuova coscienza planetaria.
Qui l'originale dell'intervista a Laszlo realizzata dal sito Affari Italiani nel corso del convegno dell'8 giugno a Milano intitolato: "Nutrire il pianeta di immaterialità".
06/06/11
Baumann ieri a Trento: "Stiamo disimparando a riconoscere il dolore, il dolore morale."
03/06/11
Tree of Life - Una bellezza che sussurra.
Ho visto il nuovo film di Terence Malick preparato dai pareri degli amici o conoscenti che l’avevano già visto, e che erano sostanzialmente spaccati in due fazioni: - capolavoro per gli uni; - polpettone intollerabile a base di melassa per gli altri.
Mi sono dimenticato di questi pareri quando il film è cominciato. E, come sempre mi accade di fronte ad un’opera, ho cercato di spegnere i pre-giudizi e lasciare aperti cuore e mente, per vedere cosa mi arrivava.
Tree of life è secondo me un film coraggioso e interessante, pieno di ‘anima’ se così si può dire, anche se non immune da pecche. Le pecche, in un film come questo, sono importanti quasi quanto le cose riuscite.
Tree of life è coraggioso e ambizioso perché iscrive una vicenda privata ordinaria – una famiglia media americana, padre madre e tre figli maschi – nel tutto della creazione.
Non c’è privato, dice Malick, perché è solo la nostra prospettiva molto limitata che ci porta a pensare di essere distinti dal resto del mondo, dalla storia intera del mondo.
E’ qualcosa che mi tocca molto da vicino. Quando sono diventato padre ho capito che io sono semplicemente un punto della linea. Ma il punto della linea – come è evidente anche dai fondamenti euclidei – E’ la linea stessa.
E’ la linea stessa, il punto, anche se ne è infinitesima porzione. E’ importante il punto. Perché ogni punto fa sì che la linea non sia spezzata. E sia, per l’appunto, una linea.
Il discorso religioso, secondo me, in questo film di Malick, non è centrale. Non lo è, nel senso che Tree of Life è un film di domande, e non di risposte.
Sono le domande che vengono recitate come un mantra in sottofondo durante il film – e che si rivolgono ad un Tu che non risponde – a fornire forse la cornice di una risposta possibile. Lo scopriremo alla fine.
Le domande della vita sono quelle di ognuno di noi. Sono quelle che riguardano i protagonisti di questa vicenda, dei quali scopriamo la storia, nonostante non vi siano che tre o quattro dialoghi in tutto il film. Eppure, è chiarissimo: la madre, figura bellissima, si immola, crede e contiene, è depositaria di ogni segreto e di ogni lutto. Il padre è il solito padre. Vuol bene, ma a un certo punto della vicenda, rovina tutto. Non è capace di controllare le sue ferite. Deve farsi schermo dell’autorità per imporsi. Deve farsi odiare, per essere. E i figli e la stessa moglie lo odieranno, come è giusto che sia.
Poi c’è l’imponderabile: uno dei figli muore a 19 anni. Lo sappiamo all’inizio del film, ma non sappiamo nemmeno perché. Sappiamo solo che succede e questo è l’importante.
Il vuoto inaccettabile di un dolore che non si può gestire, a cui non si può trovare posto, è il fardello che il fratello superstite – che da grande ha il volto di Sean Penn – si porterà dietro per sempre.
Come inscrivere ciò che è dato – e ingiusto, inaccettabile, come la morte di un figlio – in un contesto che abbia un senso, che non porti semplicemente alla conclusione più ovvia: ‘tutto è follia ?’
In questo senso il film di Malick non mi sembra né condito di melassa – non c’è, mi pare, nessuna consolazione preconfezionata – né volontaristico.
La domanda resta: a Malick non interessa dare risposte, interessa dire: ciò che ti turba NON è il tuo fardello, non è il tuo inciampo. Ciò che ti turba è la natura stessa del grande gioco in cui sei calato, in cui il tuo essere è heideggerianemente gettato.
Se non si capisce questo, dice Malick, se non si comprende l’esistenza di una storia e di un tutto, NULLA ha senso.
Il senso deriva dalla domanda che si ripete e nella stessa eco che produce, una eco che accompagna non solo l’uomo, ma il sorgere dei soli, la nascita del tempo, ogni cosa visibile e invisibile.
E’ solo grazie a questa eco – se le si permette di diffondersi – che la nostra crescita o maturità può trovare altre vie rispetto alla deriva nullista che sembrerebbe allora inevitabile. Il percorso di una Sapienza che questa eco contiene serve ad orizzontarsi. L’uomo non è mai stato del tutto solo con i suoi fantasmi. L’uomo è una storia. E nella storia ci sono gli uomini da cui ha imparato e quelli a cui imparerà. La vita è una meravigliosa e terribile prova che nessuno può vivere al posto nostro. La forza di una vibrazione finale ci impone di com-patire insieme agli altri. In questo – nei minuti finali del film è evidente, non è sogno, è cuore è realtà – nasce una nuova bellezza. Una bellezza che tutto contiene – anche il dolore, la perdita e la malinconia – una bellezza che sussurra: ‘nulla è perduto per sempre.’
Fabrizio Falconi
01/06/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 5
31/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 4
30/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 3
29/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 2
28/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 1
LE PAROLE DELLA SOGLIA
Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.
Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.
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27/05/11
Requiem del corpo bambino.
Si perderà quel corpo bambino
vagherà senza pace nei pascoli delle colline eterne
desidererà
essere ascoltato, in piedi col suo volto bianco
laverà ogni lacrima
resisterà
per non essere un’altra volta dimenticato.
Ottenebrati e miserevole
i gesti e le parole
di chi non sa vegliare e cova
la disperazione come un frutto germinoso
che produce invece vermi
la vita non è un indizio
non è accidente e non è svista
è misura, distanza
vera attesa quieto rimpianto
il corpo bambino è ora un passaggio,
è me che invecchio, è il tempo incerto
del suo ritorno.
Fabrizio Falconi - maggio 2011 (proprietà riservata).