In epoca romana le iscrizioni erano privilegio delle classi patrizie, certo. I poveri, gli schiavi, morivano ‘senza nome’ e ‘senza parole ‘. Anche in questo vi era una pretesa di determinazione di classe tra chi lo spirito lo aveva, e poteva trasmetterlo, potendo continuare a vivere nella comunità dei vivi, attraverso le parole, e chi aveva negata questa possibilità, essendo ritenuto di classe – e di spirito – inferiore.
Queste iscrizioni, quelle numerosissime un tempo che si leggevano per esempio lungo la via Appia, continuano a riportarci ancora oggi, quando noi passanti di duemila anni dopo ci imbattiamo, il dolore, il rimpianto, lo stile di vita, lo scherzo persino nella morte, qualcosa di ineffabile, e allo stesso tempo di molto concreto, che riguarda quel luogo della morte.
Gli esempi sono tanti, e bellissimi.
Ne citiamo qualcuno:
• L’iscrizione a un tale Sesto Perpenna Fermo:
ho vissuto come ho voluto: per quale ragione sia morto, lo ignoro.
( vixi quaedammodum voluit; quare mortuus sum, nescio )
Questa potremmo dire una iscrizione nella quale il morto parla, o si fa parlare, solo di sé. Un messaggio chiuso. Enigmatico, un po’ criptico.
Ma sentite quest’altra, incisa in un colombario:
• Chiunque legga questa iscrizione, se è un giovane che ama la sua donna, si astenga dall’avvolgerle d’oro le braccia, anche se ella ti cinge il collo con le sue braccia adorne e ti supplica di poter indossare doni all’altezza dei suoi meriti, accontentala nelle vesti, ma lascia stare i gioielli: si terranno alla larga ladri e seduttori. Fu infatti un serpente vistoso sulle sue braccia a provocare la morte della mia signora, e a me il marito, ha colpito il cuore, e la ferita la porterò per sempre.
Questa è dunque una iscrizione che assomiglia più ad una orazione, ma anziché parlare del morto – della morta – questa orazione si rivolge solo ai vivi, come ammonimento.
E quest’altra, ancora diversa, trovata a Lione:
• Trascorsa un’onorata vecchiaia, carico d’anni, sono chiamato presso gli dei: figli che avete da piangere ?
( functus honorato senio plenusque dierum evocor ad superos: pignora, quid gemitis ?)
O quest’altra, a Tarragona, in Spagna, riferito ad un auriga di nome Euticheto:
• In questo sepolcro riposano le ossa di un semplice auriga, abile, però nel reggere le redini. Spargi fiori, ti prego, sulla mia tomba, o viandante: forse un giorno tu pure facesti il tifo per me.
E questa, a Brindisi:
• se non ti dispiace, passante, fermati e leggi. Tu che passi, vivi sano; resti sempre a tuo credito il non aver commesso atti in ispregio di questa lapide e aver fatto un’offerta con devozione .
Tutti questi epitaffi appartengono alla categoria di quelli che ‘parlano’ a chi passa, a chi si ferma di fronte alla lapide, cioè alla comunità dei vivi. E in qualche modo, richiedono qualcosa. Un ricordo, un ammonimento, una preghiera.
Esempi di questo tipo di epitaffio sono comuni anche ai giorni nostri. Io solo qualche tempo fa ho scoperto per esempio il curioso epitaffio di un mio antenato, il nonno di mia nonna, che nel cimitero del paese d’origine della mia famiglia, a Leonessa, a mille metri, tra le montagne degli Appennini, scrisse alla fine del secolo scorso.
Raffaele Tocchi, pittore, da sé compose questa edicola per invocare dai suoi cittadini una prece.
In effetti quel mio antenato era un pittore. Un vecchio affresco sbiadito raffigurante la Trinità è quel resta di lui in una minuscola chiesa del paese, chiamata ‘ Chiesa dell’Immagine’ . Molto più di quell’affresco, forse parla oggi, e ha parlato per più di cento anni, quella edicola dipinta con tanta cura e che sigilla la sua tomba.
Questo tipo di epitaffi rappresentano secondo me un incontro, un ‘concreto’ incontro, non solo con il luogo della sepoltura, ma con lo spirito del morto. E quando parlo di ‘incontro’, intendo questa parola nel senso evocato per esempio da Roberta de Monticelli nel suo saggio ‘ La conoscenza personale ‘ di qualche anno fa. Secondo la De Monticelli l’incontro è un viaggio, o meglio, l’inizio di un viaggio. “ Incontro, “ scrive, “è quando una presenza si fa soglia, varco a un mondo ancora nascosto, è l’improvviso mediatore fra l’aspetto e l’essenza ancora ignota."
Ecco, le parole dell’epitaffio sono, secondo me, rappresentano quella soglia, quella porta di accesso, quel piccolo, oscuro varco, verso un mondo ignoto, il mondo della presenza che si è fatta assenza.
Fabrizio Falconi © riproduzione riservata
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