Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera.
«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.
Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.
Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.
Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».
Perché?
«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».
Quando? E la salvò da che cosa?
«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».
Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…
«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».
Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.
«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».
Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...
«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».
E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.
«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».
E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità».
«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».
I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali…
«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».
Come trascorre le sue giornate da solo qui?
«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».
intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera.
La casa di Peter Handke a Chaville
Dall’inizio della sua attività letteraria, dagli «Insulti al pubblico» lei esercita una retorica dell’invettiva. «Maledizione, dannazione, maledizione, dannazione» dice il narratore del «Saggio sulla giornata riuscita» per esprimere la propria indignazione dapprima, in gioventù, contro il cielo, poi contro la società, infine contro se stesso. Com’è che tante sue figure sono intonate sulla chiave dell’ira, dello sdegno, del furore?
«Me lo chiedo anch’io a volte. Un buon giornalista televisivo, anni fa, con il quale ho anche girato un film, disse che dentro di me c’è una miniera di furore. Chissà, l’avrò ereditata da mio nonno. Non sono un ribelle però: ho solo il furore. Goethe, nel Torquato Tasso, dice: “Nel mio cuore gira una ruota di gioia e dolore”. Io potrei dire che la ruota che gira del mio cuore alterni la mitezza al furore. La mia furia è innocua però, non è odio, è solo furore».
Contro chi?
«Non lo so! Sarà una malattia. Mi avrà morso un cane da piccolo, o una lumaca. O mi avrà punto un calabrone…».
Qualcuno in Germania l’ha definita il «Waldgänger» della letteratura contemporanea. È l’eroe romantico che nella solitudine del bosco cerca un rifugio dalla società in cui soffre. Quella parola evoca anche il «Waldgang» di Ernst Jünger, il «Trattato del ribelle» che nel bosco cerca l’Altro dal proprio tempo. Lei nel bosco che cosa cerca?
«Di Jünger ho amato moltissimo Il cuore avventuroso, mi ha dischiuso il vaso di pandora della fantasia. Quanto al bosco, che cosa cerco… È come nella poesia di Goethe: “Ich ging im Walde so für mich hin/ Und nichts zu suchen, Das war mein Sinn” (Andavo per il bosco nei miei pensieri intento,/ senza cercare nulla, tale era il mio sentimento). Non è necessario cercare qualcosa. È eccitante, certo. Ma quando non trovo nulla mi sento sollevato, all’inizio sono deluso, ma poi mi sento libero. L’altro giorno nel bosco ho trovato una palla da rugby… La gente mi ha visto rientrare in paese e avrà pensato a una boccia, la petanque, o a un grosso fungo! La verità è che raccolgo di tutto. Pietre, piume di uccelli. È come una smania, una malattia: il Suchen, il cercare, si trasforma in una Sucht, una dipendenza. Ma nel bosco c’è altro. Ci sono questi slarghi dove filtra la luce: Claros del bosque li chiama una poetessa e filosofa spagnola, María Zambrano. E nella natura, scriveva Hölderlin, “l’intera mia essenza ammutolisce e ascolta”».
E i funghi che cosa rappresentano? L’ultima avventura, l’ultima frontiera, la fiaba?
«Sono diavoli! Se non stai attento ti crescono in casa, marciscono, e i vermi strisciano attorno… E ci diventi matto. L’ho scritto. E mi hanno raccontato di gente che per la mania dei funghi ha perso la testa davvero. A me non è successo (ride). Però il primo porcino che trovai nel bosco me lo ricordo ancora. Era uno spettacolo per gli occhi, e in più potevo gustarlo, poteva essere un piacere universale per il corpo. Questo è un valore. È sempre così per le cose rare che si trovano in natura. Nella foresta qui attorno ci sono posti dove cresce l’aglio orsino, un condimento gustosissimo. O l’erba cipollina selvatica, la si riconosce dal colore: non c’è un altro verde così scuro e brillante come quello dell’erba cipollina. E la rucola. Arrivando in treno da Parigi la si vede vicino alla stazione di Javel. Una volta sono sceso lungo i binari per raccoglierla. L’impiegato delle ferrovie cercava di fermarmi, credeva che volessi suicidarmi. Si dice che a fondare le religioni siano stati i cacciatori. I raccoglitori — io sono uno di loro — non hanno fondato nulla. Hanno solo dato origine a quella smania collezionistica che forse è imparentata con il mio furore. Però io non ho mai collezionato libri, francobolli: mi piace raccogliere solo certi piccoli tesori. Ma lo sa che qui vicino crescono anche i finferli? Non sono come quelli giganteschi e succosi che vengono dalle mie parti, in Carinzia. Sono piccoli, saporitissimi, hanno un bel giallo luminoso che brilla sotto il fogliame. Nei 25 anni trascorsi fra questi boschi ho individuato sette, otto, dieci posti dove crescono quasi ogni anno. E so che tra una decina di giorni potrò uscire a vedere se sono già spuntati i primi finferli…».
Nel suo libro i funghi, diabolici e magici, provocano due trasformazioni nel loro cercatore. Dapprima il bosco si trasforma in un rischio per lui (nelle favole è sempre così…): la sua passione diviene un’ossessione. Poi però viene salvato, redento, liberato. Chi provoca la catarsi o l’incantesimo?
«La salvezza viene sempre dalla sciagura. Dalla paura. È quanto accade in tutti i casi di possessione, e qui di questo si tratta. Certo la scrittura ti salva. Lo stesso si potrebbe dire di Nabokov e della sua mania per le farfalle. O di Tomas Tranströmer, un grande poeta, che per tutta la vita, come Jünger, fu un appassionato collezionista di coleotteri. Io non saprei raccontare nulla di una farfalla, non dopo averla spillata in una teca. Mi fa orrore. Preferisco i miei funghi! Di qui il sospetto che da sempre nutro verso i libri di Nabokov: è sempre tutto esposto così bene in luce, tutto così precisamente elucubrato… Non c’è segreto. Il fungo invece è un mistero».
Alessandra Iadicicco
intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera.
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