E' davvero una gran bella sorpresa la pubblicazione italiana di Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard, da Fazi Editore che con questo romanzo può ripetere il grande e imprevisto successo di Stoner, diventato per propagazione via passaparola, un caso editoriale.
Elizabeth Jane Howard è infatti, come l'americano John Williams, un autore quasi del tutto sconosciuto in Italia, anche se a lei si debbono quindici romanzi di successo, offuscati da un profilo biografico seducente (era una donna molto bella) e disastroso.
Nata a Londra 1923 e morta da pochi mesi a Bungay, la Howard veniva da una famiglia benestante (suo padre era un mercante di legname e sua madre una ballerina russa) e da una infanzia infelicitata da molestie sessuali subite dal padre e da una depressione cronica della madre.
Prima di sposarsi giovanissima - a diciannove anni, una via di fuga dalla famiglia - studiò recitazione e fece anche l’indossatrice.
Ma anche il resto della vita della Howard non fu semplice: una figlia, due matrimoni, una terza unione ventennale con lo scrittore Kingsley Amis, il padre di Martin, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei.
Alla infelicità personale la Howard tentò di porre rimedio con una incessante attività di scrittore, culminata nella saga familiare The Cazalet Chronicles, che le guadagnò un enorme successo (oltre un milione di copie).
L'eco della vita della Howard risuona fin troppo incessantemente in questo che viene considerato il suo capolavoro. Il lungo sguardo (traduzione non proprio felice dell'originale The Long View), pubblicato nel 1956 è la cronaca di una infelicità: quella di coppia, dei coniugi Antonia e Conrad, Mrs. e Mr. Fleming, e quella personale di Antonia, alle cui radici si risale attraverso una narrazione - a ritroso - che comincia negli anni '50 e torna indietro fino al 1924.
Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità. Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano.
Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità. Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano.
I personaggi maschili del romanzo della Howard sono tutti orribili. Cinici come Mr. Fleming, perso nella sua presunzione di dirigere il mondo delle cose, distaccato ed efferato; patetici come il marinaio che viene a riscaldare brevemente la dispersione di vita di Antonia; terrificante come il Geoffrey che abusa della ingenuità e dell'incanto della diciannovenne (come all'epoca in cui si è sposata l'autrice) Antonia.
Ma è il personaggio di Antonia quello che resta sempre al centro, in una sorta di sofferta e consapevole auto-biografia.
Una biografia costruita intorno ad un vuoto che niente e nessuno sembra capace di riempire veramente. Perché è la vita, la vita vera - e in definitiva l'amore, che della vita è la massima e la più efficace espressione - che manca, anche in una vita esteriormente, apparentemente, superficialmente, inutilmente scintillante come quella di Antonia. ...O di Elizabeth ?
Elizabeth Jane Howard negli anni '50.
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