15/05/22
Qual è il romanzo italiano più grande del Novecento? Una risposta, io l'avrei
11/05/22
La vera travolgente storia d'amore de "La mia Africa" - Karen Blixen e Denys Finch Hatton
E' un film memorabile, La mia Africa, girato da Sidney Pollack, nel 1985 e rimasto nel cuore di molti, insieme al romanzo da cui è tratto, della grande Karen Blixen.
10/05/22
Che dolore (e delusione) le frasi di Nikita Mikhalkov su Putin
09/05/22
Krishnamurti e la Guerra. Che fare?
In questi tempi così complessi, è utile rileggere le parole di Krishnamurti (1895-1986) sulla guerra, le cause e ciò che l'uomo, ogni singolo uomo può fare. In particolare, queste furono pronunciate a Ojai, California, il 27 maggio 1945, nella imminenza della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Domanda: Sicuramente la maggior parte di noi ha visto al cinema o sui giornali le immagini degli orrori e delle barbarie dei campi di concentramento. Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, a coloro che hanno perpetrato tali mostruose atrocità? Non dovrebbero venire puniti?
Krishnamurti: Chi li punirà? Il giudice non è spesso colpevole come l’accusato? Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno.
Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare.
Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili degli orrori della guerra.
La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità.
Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione.
Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre.
Dovete sradicare le cause della guerra, della violenza, dentro di voi, il che richiede pazienza e gentilezza, non questa maledetta condanna degli altri. L’umanità non ha bisogno di altra sofferenza per poter capire, ma ciò che occorre è che voi siate consapevoli delle vostre azioni, che vi risvegliate alla vostra ignoranza e al vostro dolore, per far nascere in voi stessi la compassione e la tolleranza. Non dovete preoccuparvi di punizioni e ricompense, ma di sradicare in voi stessi quelle cause che si manifestano nella violenza e nell’odio, nella rivalità e nell’ostilità. Uccidendo l’uccisore diventate come lui, diventate voi i criminali. Ciò che è sbagliato non viene raddrizzato con mezzi sbagliati, solo con giusti mezzi si può raggiungere un giusto fine.
Se volete la pace, dovete usare mezzi pacifici; mentre lo sterminio di massa e la guerra conducono solo a ulteriore sterminio, ulteriore sofferenza. Non si raggiunge l’amore con lo spargimento di sangue, un esercito non è uno strumento di pace. Solo la benevolenza e la compassione possono portare pace nel mondo, non la forza, l’inganno, e neppure le leggi. Voi siete i responsabili per l’infelicità e i disastri, voi che nella vostra vita quotidiana siete crudeli, avidi, ambiziosi, oppressori. La sofferenza continuerà finché non avrete sradicato dentro di voi le cause che generano la passione, l’avidità, la crudeltà. Abbia pace e compassione nel cuore, e troverà la giusta risposta alla sua domanda.
06/05/22
E' vero che Mussolini si fece costruire un Bunker sul Monte Soratte?
05/05/22
Quella volta che Bruce Chatwin fece ridere Jorge Luis Borges
03/05/22
A Roma esisteva una "Via Tiradiavoli" - una storia di apparizioni e bizzarrie
Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.
Del resto questa consolare fu una
delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e
come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo
scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura
al XII secolo a.C.
L’Aurelia Vetus – questo
primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del
Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava
sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno,
che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna,
Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine
con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone
paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano
durante la costruzione (come i temibili Apuani).
Una costruzione che durò per tre
secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta
che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle
popolazioni alpine.
Ma a noi interessa qui il circuito
cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio,
anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le
altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene
anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui
resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera
del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via
Aurelia, intorno al 241 a.C.
La Via Aurelia poi, si inerpicava
sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa
Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di
Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare
dal litorale.
Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato,
rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere
Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.
E proprio lungo questo itinerario
c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata
da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la
celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla
villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia
Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a
sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via
Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica
romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa
nell’Aurelia Antica.
Come nacque la leggenda è opportuno
brevemente narrare.
A Donna Olimpia Maldaichini, che il
popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta
dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a
Roma una importante via e una piazza.
La gente di Roma la chiamava anche Papessa, per le sue frequentazioni importanti
oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il
Cardinal padrone.
Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta
che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa
sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia », che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta) pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).
Nata a Viterbo nel 1592 da una
famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista
Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di
Innocenzo X.
Grazie alla sua sottile
intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed
in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua
morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro,
contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj.
Innocenzo X, avvalendosi dell’opera
dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando
Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano, edificando la sontuosa Villa Pamphilj,
organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali,
dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.
Dopo la morte di Panfilio, il
fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più
vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera dall’assolvere i doveri
coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato,
alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio
dalle pasquinate) secondo le quali i due erano stati amanti, ed
era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli
nel sonno un potente veleno.
Cinque anni dopo, l’ascesa di
Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il
trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il
cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare
importante che a Roma potesse essere
deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere
ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo
avallo. Al figlio della nobildonna,
Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e
delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale,
ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio
paterno.
Questo potere smisurato attirò però
su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la
proliferazione di rumorosi scandali, che
ne aumentarono la fama controversa.
Un ultimo
episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di
Innocenzo X, che morì il 7 gennaio del
1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora
caldo del Pontefice, Olimpia non si
fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli
fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper
nulla, né di esequie, né di sepoltura o
dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice
morto: con il risultato che la salma di
Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne
vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il
cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima
bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era
stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale
dell’austera Olimpia.
Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al
Cimino, nel viterbese, Olimpia
sopravvisse due anni, prima di morire.
Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per
molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu
cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale
la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre
fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano
portare con loro l’anima avida della signora.
Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha
cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto,
esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013
01/05/22
Chi era Michael Abram, l'uomo che nel 1999 colpì George Harrison con 44 coltellate
Michael Abram, l'autore dell'aggressione a George Harrison nel 1999 |
30/04/22
Libro del Giorno: "La Roma di Pasolini" (Dizionario urbano) di Dario Pontuale
29/04/22
Libro del Giorno: "Troviamo le Parole" - Lettere (1948-1973) di Paul Celan e Ingeborg Bachmann
26/04/22
Apre al pubblico "La solitudine dell'ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio"
25/04/22
"L'uomo dimentica l'unica cosa che lo distingue dall'animale". Una pagina meravigliosa e terribile di Cechov
La casa col mezzanino, che ha il sottotitolo Racconto di un artista, scritto nel 1896, è uno dei racconti più famosi di Anton Cechov.
L'importante non è che Anna sia morta di parto, ma che tutte queste Anne, Mavre, Pelageje, debbano curvare la schiena dalla mattina alla sera, ammazzarsi di fatica, tremare per i loro bambini affamati e ammalati, vivere nel terrore delle malattie e della morte, che imbruttiscano e invecchino presto, che muoiano nella sporcizia e nel fetore; e i loro figli, crescendo, ricominciano la stessa musica, e così per centinaia di anni: miliardi di uomini vivono nel terrore, peggio delle bestie, solo per conquistarsi un pezzo di pane.
La cosa più spaventosa della loro situazione è che non hanno un minuto per ricordarsi che hanno un'anima, che sono esseri umani fatti a immagine e somiglianza di Dio; la fame, il freddo, il terrore animale, la fatica, come valanghe di neve, hanno chiuso loro tutte le strade verso qualsiasi forma di vita spirituale, ossia verso l'unica cosa che distingue l'uomo dall'animale e per cui vale la pena vivere.
Voi credete di aiutarli con scuole e ambulatori, ma non li liberate dalle catene, anzi, peggiorate la loro condizione di schiavitù, introducendo nuovi pregiudizi e di conseguenza nuovi bisogni, senza parlare poi del fatto che per medicine e libri devono pagare e quindi curvare la schiena ancora di più.
Tratto da Anton Cechov, Racconti, 2004 Gruppo Editoriale L'Espresso, p.243
21/04/22
"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot
19/04/22
La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943
San
Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.
Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.
La pioggia di bombe del 19 luglio
smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e
ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le
braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo,
scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura,
gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.
Oltre ad
aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva
anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San
Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino
Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la
supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri
cristiani.
E anche
se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma,
martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa
custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa
cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il
26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano,
tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di
Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al
36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione
sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.
A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni
anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato
che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme, assiste anche Paolo, che ancora non si è
convertito (dunque prima del 40 d.C.).
.
In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.
Essendo
poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che
riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in
disparati angoli d'Europa.
L'episodio
più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda
Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono
solennemente portate dal vescovo Giovanni II.
Qualche
anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide,
dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il
pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da
Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei
Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le
Mura.
La
reliquia della testa di Santo Stefano, invece, si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le
mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III
(1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a
S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del
cardinale Scipione Cobelluzi.