Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.
Del resto questa consolare fu una
delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e
come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo
scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura
al XII secolo a.C.
L’Aurelia Vetus – questo
primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del
Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava
sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno,
che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna,
Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine
con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone
paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano
durante la costruzione (come i temibili Apuani).
Una costruzione che durò per tre
secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta
che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle
popolazioni alpine.
Ma a noi interessa qui il circuito
cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio,
anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le
altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene
anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui
resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera
del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via
Aurelia, intorno al 241 a.C.
La Via Aurelia poi, si inerpicava
sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa
Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di
Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare
dal litorale.
Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato,
rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere
Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.
E proprio lungo questo itinerario
c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata
da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la
celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla
villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia
Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a
sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via
Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica
romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa
nell’Aurelia Antica.
Come nacque la leggenda è opportuno
brevemente narrare.
A Donna Olimpia Maldaichini, che il
popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta
dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a
Roma una importante via e una piazza.
La gente di Roma la chiamava anche Papessa, per le sue frequentazioni importanti
oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il
Cardinal padrone.
Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta
che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa
sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia », che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta) pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).
Nata a Viterbo nel 1592 da una
famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista
Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di
Innocenzo X.
Grazie alla sua sottile
intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed
in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua
morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro,
contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj.
Innocenzo X, avvalendosi dell’opera
dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando
Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano, edificando la sontuosa Villa Pamphilj,
organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali,
dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.
Dopo la morte di Panfilio, il
fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più
vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera dall’assolvere i doveri
coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato,
alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio
dalle pasquinate) secondo le quali i due erano stati amanti, ed
era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli
nel sonno un potente veleno.
Cinque anni dopo, l’ascesa di
Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il
trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il
cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare
importante che a Roma potesse essere
deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere
ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo
avallo. Al figlio della nobildonna,
Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e
delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale,
ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio
paterno.
Questo potere smisurato attirò però
su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la
proliferazione di rumorosi scandali, che
ne aumentarono la fama controversa.
Un ultimo
episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di
Innocenzo X, che morì il 7 gennaio del
1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora
caldo del Pontefice, Olimpia non si
fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli
fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper
nulla, né di esequie, né di sepoltura o
dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice
morto: con il risultato che la salma di
Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne
vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il
cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima
bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era
stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale
dell’austera Olimpia.
Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al
Cimino, nel viterbese, Olimpia
sopravvisse due anni, prima di morire.
Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per
molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu
cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale
la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre
fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano
portare con loro l’anima avida della signora.
Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha
cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto,
esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013
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