Se mi chiedessero qual è il più grande romanzo italiano del Novecento, io una risposta l'avrei.
Come premessa, probabilmente indicherei una cinquina di finalisti, di cui farebbero parte anche L'Isola di Arturo di Elsa Morante, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino e Il Nome della Rosa di Umberto Eco.
Ma alla fine, dovendo scegliere un solo titolo e un solo nome - e prevalendo in questo caso motivi razionali e di affezione personale, direi senza dubbio, Il Male Oscuro, scritto da Giuseppe Berto nel 1964.
Personaggio piuttosto controverso nell'ambiente letterario del Novecento, e piuttosto isolato, durante il suo percorso, dal contesto dei suoi colleghi scrittori e da una buona parte della critica militante, Berto con quel romanzo conobbe un successo inaspettato e clamoroso vincendo nel giro di una settimana il premio Viareggio e il premio Campiello dello stesso anno, il 1964.
Berto, nel dopoguerra, pagò caramente - con l'isolamento di cui parlavamo prima - l'adesione giovanile al fascismo.
Nato a Mogliano Veneto allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, Berto, già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri.
Tornato in Italia nel ’46, a trentadue anni aveva con sé i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi pubblicherà di lì a poco.
Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi.
Nel 1963 rimase famoso nelle cronache lo scontro, a cui seguì una vertenza giudiziaria, con Alberto Moravia, che non apprezzava l'opera di Berto: i due non si stimavano, soprattutto Moravia era drastico, in senso negativo, nei giudizi sulla prosa dell’altro. Ma la vera ragione dello scontro fra i due fu l’appoggio dato dallo scrittore romano a Dacia Maraini e al suo romanzo “L’età del malessere” in vista del premio Formentor (che poi le fu dato).
Fra Dacia Maraini e Moravia esisteva un legame amoroso e solo per questo, secondo Berto (e secondo molti altri), Moravia premeva per l’assegnazione del premio alla sua protetta, a prescindere dai valori letterari.
Che Giuseppe Berto fosse rimasto male dell’atteggiamento di Moravia, allora molto potente, non è provato ma è coerente con il personaggio, lontano dai riflettori, tutto concentrato su se stesso, tormentato e perennemente lacerato dai fantasmi del passato e dalle sue vicende personali e familiari.
Ma quando e come fu scritto Il Male Oscuro, romanzo fluviale e sperimentale che si presenta come un unico ininterrotto flusso di memoria organizzato nella forma di un monologo interiore?
La svolta per Berto maturò, a Capo Vaticano, luogo di bellezza straordinaria, sulla costa tirrenica della Calabria.
Lo scrittore capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”.
Al di là quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”.
Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo. “Appena la vidi seppi che quella dalla quale si scorgevano quelle magiche isole, era la mia seconda patria. E qui sono venuto a vivere”.
Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano.
Qui pose le tende, qui – dice – “buttai la storia che avevo più a portata di mano, cioè la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”.
“Stese effettivamente questo suo libro – scrive Agostino Pantano, amico e conoscitore di Berto – restando chiuso per due mesi in una specie di bunker ricavato nel corpo di una fondazione di cemento”.
Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì, se non con il tempo, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”. Si mise in polemica con tutti e con tutto, tuonando contro i nascenti scempi edilizi. Per lui quel posto sarebbe dovuto diventare un luogo per un tipo di turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero per la gente estenuata dalla nevrosi.
“Turismo non è solo viaggiare – diceva – è anche venire a contatto con civiltà diverse, capirsi, amarsi. I calabresi non sono gente facile. Potrebbe nascerne incomprensione, o addirittura odio, invece di amore”.
Ma intanto con il passare degli anni, un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato. “
Chiese di essere seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente, per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie.
E questi luoghi rimasero nel suo grande capolavoro, che a distanza di sessant'anni non ha perso nulla della sua forza dirompente e della sua qualità irripetibile.
Fabrizio Falconi
notizie da: Le parole e le cose
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