Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta… Lo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice. (Lev Tolstoj)
Sono parole che potrebbero essere tranquillamente attribuite al Cardinale
Carlo Maria Martini, perché riassumerebbero come forse meglio non si potrebbe il sentire dell’uomo che dopo aver condotto per 33 anni l’arcidiocesi Milanese, è divenuto un punto di riferimento della spiritualità non solo cattolica, nel mondo.
E in effetti le parole di Tolstoj, riferite all’inizio, furono scritte in una sorta di testamento spirituale – poco conosciuto – Amatevi gli uni e gli altri, poco prima della morte, dal grande scrittore.
Carlo Maria Martini era ‘tolstojanamente’ convinto che l’amore fosse la via rivelatrice e conoscitrice di cui gli uomini dispongono, nell’attraversamento di questa vita.
Il cristianesimo – scriveva nella risposta alla missiva di uno dei tanti lettori che si rivolsero a lui nella rubrica del Corriere della Sera che curò negli ultimi anni della sua vita – è molto di più di una religione; esso nasce dall’iniziativa divina di entrare in contatto con l’uomo e di rivelargli se stesso.
E non è un caso se, a partire dal momento esatto della sua morte, la sera del 31 agosto scorso, la parola più usata in relazione a Martini sia stata proprio ‘dialogo’. Dia-logo: Martini era l’uomo del dialogo.
E cioè l’uomo del logos (cioè della parola) e del dia (cioè del ‘fra’: parole fra soggetti diversi, questo è dia-logo): solo una forma di com-prensione e di amore infatti permette il reale dialogo tra le persone; solo l’amore permette il vero dialogo, solo il dialogo mi permette di uscire da me stesso e di farmi altro, farmi-con-l’altro. Che nel caso di Martini era un Altro.
Un Altro-alto, che attraverso di me trova il suo posto nel mondo, in questo mondo.
Tutta la vicenda umana di Martini, dunque, dai primi passi compiuti, appena adolescente, nella casa dei Gesuiti di Cuneo, fino alla mirabile carriera universitaria che lo portò fino a ricoprire il ruolo di rettore della Pontificia Università Gregoriana, fino al prestigioso incarico di Arcivescovo di Milano, nel ruolo che fu di Sant’Ambrogio prima e di San Carlo Borromeo poi, e fino ancora ad una forte candidatura a divenire Papa, è improntata, ha come sigillo questa ricerca continua di spiritualità autentica, fondata cioè non tanto e non solo sulla elaborazione dei dogmi e delle liturgie, quanto soprattutto sul dialogo umano e vivente con i diversi, con gli atei, con l’altro, con la comunità intera dei fedeli, oltre che sulla preghiera.
E a proposito del Soglio sfiorato, chi scrive era, insieme ad altri, sul tetto del Collegio dei Padri Agostiniani, quella sera del 18 aprile 2005. Si stava tenendo il Conclave per la elezione del 265mo successore di Pietro. C’erano diversi motivi di disorientamento tra coloro che seguivano i lavori, in quei giorni.
Il primo motivo era la morte di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, avvenuta 16 giorni prima, il tardo pomeriggio del 2 aprile, dopo una lunga e lenta agonia. Un pontefice che aveva segnato così profondamente la storia degli ultimi anni.
Il secondo motivo era il tempo passato dalla elezione precedente: 27 anni. Essendo stato eletto il polacco, il 28 ottobre del 1978.
Un tempo così lungo che perfino per i più esperti segnava una barriera temporale ostica: chi ricordava, tra i presenti, esattamente i riti del Conclave ? Chi poteva dirsi preparato ad affrontarli per descriverli minuziosamente, quei riti così complessi, sedimentati nei venti secoli precedenti, frutto di infinite variazioni e correzioni del cerimoniale canonico ? Una sola certezza sembrava esservi, all’inizio di quello che fu poi uno dei Conclave più veloci della storia (e su questa velocità pesò sicuramente anche proprio quella necessità di riempire il più presto possibile il vuoto lasciato da un predecessore così “ingombrante”): i due pretendenti più accreditati e più autorevoli erano Joseph Ratzinger da un lato e Carlo Maria Martini dall’altro.
A molti - e la stampa ovviamente giocò molto su questa dicotomia - sembrava il confronto perfetto: la dogmatica contro il colloquio, la dottrina della fede contro l’umanità del confronto cristiano. Vinse Ratzinger.
Le cronache dei retroscena del Conclave riferirono che Martini, riluttante sin dal principio, a ricoprire un compito così gravoso, sin dopo il primo scrutinio - avvenuto appunto la sera del 18 aprile - scelse esplicitamente di rinunciare, convinto dal numero non sufficiente di voti ricevuti (il vero antagonista divenne così Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, anche lui Gesuita; ma soltanto per altre due votazioni: al quarto scrutinio Ratzinger ottenne il quorum necessario) nel primo scrutinio e dalla eventuale possibilità di frammentare in due il Collegio dei Cardinali, con la prospettiva di un lungo Conclave che avrebbe potuto avere conseguenze pesanti.
Sulla decisione pesò anche sicuramente la consapevolezza di una malattia che non perdona - Martini aveva già da sette anni quel Parkinson che quest’anno l’ha portato alla morte, consumandolo lentamente.
Che speranza poteva darsi alla Comunità dei credenti eleggendo un nuovo Papa afflitto, per ironia del destino, dalla stessa malattia che aveva segnato e portato via l’illustre Predecessore? Martini decise, prima ancora che vi fosse il rischio di una elezione, di defilarsi. Mi sono chiesto più volte (me lo chiesi anche in quei giorni) – e in tanti sono tornati a chiederselo in questi giorni, dopo la sua scomparsa - cosa sarebbe accaduto se Martini fosse divenuto Papa, se fosse stato lui l’erede di Wojtyla, e non Ratzinger.
Oggi che la grande anima di Carlo Maria Martini ci ha lasciato su questa terra, è inevitabile - ma forse anche profondamente inutile – domandarselo, speculare su cosa sarebbe potuto essere e non è stato. Per un cristiano, oltretutto, queste sono questioni veramente superflue, che non dovrebbero essere mai poste, perché il primo credo è quello della fiducia e dell’affidamento ad una Volontà superiore, che ne sa sicuramente più di noi.
Anche perché probabilmente il progressivo, lento isolamento a cui la malattia ha costretto Martini - isolamento dovuto negli ultimi tempi anche alla impossibilità di parlare - ci ha regalato qualcosa di molto grande, indipendentemente dall’essere divenuto o meno il capo effettivo della Chiesa cattolica.
Lo spirito infatti ha parlato in ogni momento, in ogni giorno, attraverso le parole di Martini pronunciate magari sottovoce, ai più stretti confratelli e negli ultimi tempi solo grazie ad un apparecchio acustico in grado di amplificare e rendere comprensibili i flebilissimi suoni della sua voce; attraverso le parole scritte per coloro - sempre più numerosi - che hanno voluto leggerle nei suoi molti libri, nei suoi Esercizi Spirituali, nelle lettere dalla Terra Santa, dove per diversi anni si era ritirato, nelle lettere ai giornali. E ha parlato anche - fortissimo - attraverso il suo silenzio sofferente.
Forse, anzi, lì più che altrove. Non c’era modo più esplicito e più concreto, per tutta quella che è stata la sua parabola terrestre, per lasciare un segno tangibile della sua presenza che durerà a lungo, che sarà per molti incancellabile e che si racchiude forse in una sola parola: speranza. “Occorre avere una forte fiducia in Dio Padre”, scriveva negli ultimi tempi Martini, “che conosce tutta la nostra eternità e vuole il meglio per noi, e un grande amore per Gesù. Per questo non si tratta mai di una operazione astratta, ma di un dramma in cui si scopre l’amore di Dio e la nostra capacità di dono e di perdono”.
Fabrizio Falconi