Con questo romanzo, scritto nel lontano 1969, Philip Roth, che all'epoca aveva 36 anni, trovò la sua definitiva consacrazione, dopo due romanzi (Lasciar andare, 1962 e Quando lei era buona, 1967 -unico romanzo dell'intera bibliografia di Roth con una protagonista femminile) che avevano ricevuto l'attenzione della critica, ma non del grande pubblico.
Anno cruciale, il 1969. E forse Lamento di Portnoy, proprio per questo oggi si rilegge con una certa dose di tenerezza.
Anche se, come è ovvio, quando uscì, nell'America perbenista di quegli anni, appena contaminata dalla contestazione giovanile, dal femminismo, dai grandi raduni rock, dalla protesta contro la guerra nel Vietnam, dalle rivolte nei ghetti dei neri, il romanzo incendiò le polemiche per i suoi contenuti trasgressivi e soprattutto per la spietata messa alla berlina della tradizione ebraica, con tutte le sue componenti più ossessive e conservatrici.
Per Roth era il modo per venire allo scoperto, per demolire la costruzione socio-teologica nella quale anche lui e la sua famiglia erano cresciuti, seppure trapiantati come molti altri, nella cultura americana.
Il romanzo, costruito come un unico flusso di coscienza, una cascata ininterrotta di confessioni e invettive riferita sul lettino di uno psicanalista, chiamato Spielvogel (che si può tradurre dal tedesco come: uccello del gioco), che non parla mai e non entra mai sulla scena del racconto.
Passano così davanti agli occhi del lettore l'infanzia e l'adolescenza di Alexander Portnoy, la sua famiglia ebraica (dominata dalla figura della madre Sophia, il padre e la sorella Hannah), i primi lavori, ma soprattutto tutto il catalogo delle esperienze erotiche, dai solipsismi masturbatori, fino alle acrobazie a tre, con la fidanzata - chiamata Scimmia - e una puttana rimorchiata per le strade di Roma, fino all'ultimo capitolo - Esilio, il più bello del romanzo - in cui Alexander descrive, il suo viaggio-ritorno in Israele.
Una scrittura meravigliosamente pirotecnica, in un romanzo che fa ridere - fino alle lacrime - e pensare, sempre. Alexander - primo alter ego di Roth, molto prima di Nathan Zuckerman - racconta con un diluvio di trovate e di paradossi (si scoprono anche battute alle quali ha attinto anche il primo Woody Allen), il dilemma in cui si dibatte, quello di liberarsi della sua oppressiva tradizione sostanzialmente attraverso la sessualità e la pornografia; ricadendo però ad ogni passo verso l'apparente e agognata liberazione, nei divoranti sensi di colpa/lamentazioni/empasses, come dentro una ragnatela inestricabile.
Politicamente scorretto, sgradevolmente esibizionista, misogino, "razzista" (soprattutto verso la sua stessa "razza"), anticlericale, furiosamente anticattolico, ateo e comunista: questo Roth (al contrario di Bellow) mette in piazza tutto, e dopo tanti anni, suscita perfino nostalgia - per quell'esubero di passioni sbagliate - in una epoca, la nostra, di passioni fredde, glaciali, anestetizzate.
Un grande romanzo.
Fabrizio Falconi
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