A cent'anni dalla nascita, è tempo di tornare alla lezione di Ingmar Bergman: un invito costante alla curiosità, al porsi anche quesiti profondi e assillanti.
È tutto questo ciò che evita alla vita di non essere altro che un vuoto senza fine.
Durante un’intervista, quando gli domandarono quali fossero le qualità di un buon disegnatore di fumetti, Charles M. Schulz rispose che bisognava essere bravi a scrivere ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati degli scrittori; bravi a disegnare ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati dei pittori, e che insomma la prima virtù era una specie di aurea mediocrità in tutte le discipline contigue.
Mi è tornata in mente, questa definizione, leggendo quello che scriveva da parte sua Ingmar Bergman in un discorso destinato alla cerimonia dell’Erasmus Award nella primavera del 1965, cerimonia cui poi non poté partecipare perché malato.
In questo testo autobiografico, Bergman sosteneva che per lui la scelta di fare cinema era stata quasi obbligata, poiché era taciturno e non aveva mai avuto troppe parole a disposizione, era incapace di fare musica e insensibile all’arte.
Il cinema, che queste abilità non richiedeva, o almeno non in misura eccessiva, lo aveva salvato: gli aveva permesso di esprimersi anche in loro assenza e di comunicare con l’universo che lo circondava.
Nello stesso discorso, Bergman sottolineava però anche di essersi ormai reso conto, man mano che gli anni avanzavano, di quanto l’arte in genere, e non solo il cinema, stesse perdendo sempre più d’importanza, importanza inversamente proporzionale all’investimento emotivo e pratico che gli artisti e chi li circonda continuano a farvi confluire, e di come alla fin fine la sola giustificazione della sua continua sperimentazione si riducesse a un’inesauribile e salvifica curiosità.
Di Bergman ho voluto rivedere di recente alcuni film considerati unanimemente dei capolavori, e la prima reazione è stata di stupore per la loro tenuta nel tempo.
Certo, dagli anni Cinquanta e Sessanta a oggi le tecniche cinematografiche si sono completamente trasformate, e quelli che a quei tempi erano colpi di genio oggi potrebbero sembrarci delle ingenuità, ma questo in fondo è un dettaglio.
La verità è un’altra, e molto più sorprendente: anche se questi film non venissero visionati, per ipotesi, col senno del poi, inquadrandoli cioè nel loro contesto storico e temporale, ma come se fossero stati invece girati ieri, ebbene, ci apparirebbero comunque di una freschezza e di un’attualità che hanno del miracoloso.
Lo stesso vale, e anche questo ha del portentoso, per le tematiche che Bergman affronta e che sembrano davvero universali.
Prendiamo un tema per tutti: quello della fede e dei suoi limiti.
Nei suoi due ultimi libri, Le rovine e l’ombra e Cercare Dio, entrambi editi da Castelvecchi, Fabrizio Falconi dedica numerose pagine alla figura di Bergman, rimarcando fra le altre cose come fosse stato definito con un ossimoro un «ateo cristiano»: di sicuro, la sua vicenda biografica comincia con una contrapposizione radicale al padre, un rigido predicatore luterano che infliggeva punizioni a tutta la famiglia; era coadiuvato in questo dalla cuoca, leggo, che soleva rinchiuderne i figli in un ripostiglio dove a suo dire un mostriciattolo si nutriva delle dita dei bambini cattivi.
Non stupisce che uno dei principali messaggi dell’opera di Bergman sia il disprezzo per una religione ridotta a pura apparenza, al cui riparo si possono compiere azioni vergognose.
Al di là di quest’aspetto, che stigmatizza più le istituzioni religiose – il padre diventerà cappellano alla Corte reale di Svezia – che la fede in quanto tale, le difficoltà insite nella ricerca religiosa, nella ricerca di Dio, compaiono in quasi tutti i film, e in molti sono in primo piano: si pensi solo a Luci d’inverno, secondo film della trilogia dedicata appunto ai dilemmi religiosi, che mostra i dubbi e le perplessità in cui si dibatte un pastore protestante cui Dio sembra sempre più lontano.
Ma prima ancora, ci si ricordi del cavaliere del Settimo sigillo e della sua accorata invocazione: «Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli?». E soprattutto dell’emblematica conclusione: «Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?».
Se è vero che dell’opera di Bergman sono state avallate le interpretazioni ideologicamente più diverse, e che quindi bisogna procedere sempre con i piedi di piombo, trattandosi oltretutto di una traiettoria lunghissima, è anche assodato che la ricerca di una via verso la spiritualità, che consenta di trascendere e superare l’immedicabile tristezza della vita, è e resta uno dei temi dominanti della sua poetica.
Quando, sempre nel Settimo sigillo, ha luogo la famosa conversazione fra il protagonista e la morte, e questa allude alla possibilità che Dio non esista – perché anche il silenzio che Dio oppone agli uomini può essere eloquente –, il cavaliere sbotta: «Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine: nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel Nulla, senza speranza». (Eppure, chiosa la morte, «molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose»).
Molti film successivi, dal Posto delle fragole a Sussurri e grida, inducono a pensare che per Bergman quest’aporia non sia risolvibile, ma che al massimo il dolore del vivere possa essere lenito dalla vicinanza di altri esseri, dalla loro intima solidarietà.
Se Dio tace o non c’è, solo l’uomo è in grado di aiutare i propri simili a sopportare la vita. In questo senso può essere letto anche un altro momento cruciale, uno dei mirabolanti sogni (o meglio incubi) del Posto delle fragole: quando l’anziano professor Borg, un illustre medico, sogna di dover superare un esame, il quesito cui non sa rispondere viene risolto in modo inaspettato. Per lunghi anni Borg ha infatti esercitato la professione senza apparentemente sapere quale sia, del medico, il primo dovere; e questo dovere, scopriamo, è di chiedere scusa.
Nel contesto del film, e poi di tutta l’opera bergmanniana, la frase deve essere interpretata come una messa in discussione del ruolo dell’intellettuale, che allontanandosi dalla gente semplice mostra superbia e arroganza; mentre l’unico farmaco vero che il medico può dispensare non è un composto chimico, ma umano, e ha una duplice valenza, essendo costituito da un lato dalla consapevolezza dei propri limiti e dall’altro dalla vicinanza al malato, e dunque, ancora una volta, dalla solidarietà umana.
Neanche la morte, cui il medico è chiamato più di altri ad assistere, corrisponde mai a una soluzione, o permette un chiarimento; né per l’essere che se ne va (ma dove?), né per coloro che restano e devono fare i conti con l’assenza.
Semmai, essa aumenta il peso specifico dell’Unheimlich che ci circonda e di cui non sappiamo liberarci.
Non a caso, alla fine del film e del suo viaggio o percorso iniziatico la sola cosa che il protagonista potrà fare, dopo una vita sprecata perché immolata sull’altare dell’egoismo, sarà convincere il figlio (anche lui medico) a non ripercorrerne i passi.
All’approfondimento dei grandi temi esistenziali corrisponde in Bergman – di cui ricorrono oggi i cent’anni dalla nascita – una semplificazione sempre più evidente degli elementi che giungono a creare la composizione filmica.
Il commento musicale è ridotto al minimo e si ispira spesso al modello d’austerità di Bach, le scenografie diventano – si pensi a Sussurri e grida o ancora di più a Persona – quasi solo macchie di colore.
Acquistano sempre più visibilità e spessore i volti, soprattutto quelli femminili, percorsi da Bergman con un’insistenza quasi feticistica, con una dolorosa passione.
Volti di donne (da Ingrid Thulin a Bibi Andersson, da Liv Ullmann all’ultima moglie, Ingrid von Rosen) che sovente sono state sue compagne, con alterne vicende, anche nella vita.
Questa semplificazione progressiva, di un rigore luterano, la si ritrova – volendo tentare una definizione lapidaria – anche nella trattazione dei soggetti: parallelamente, si passa infatti dalla ricerca di risposte alle proprie angosce e al senso d’inutilità dell’artista (anni ’50) alla disperazione e allo sconforto metafisico (primi anni ’60), all’isolamento anche fisico dell’artista (seconda metà degli anni ’60) che corrisponde al volontario ritiro di Bergman, fin dal 1966, sull’isola di Fårö, fino alla sofferta partecipazione alla solitudine e al dolore di ciascun individuo (anni ’70).
Alla berlina vengono messi costantemente l’apparente benessere e l’illusione della felicità personale, egoistica appunto, che la società dei consumi avrebbe offerto all’individuo, ma le cui facili lusinghe sono invece regolarmente smentite dalla profonda incomunicabilità fra gli esseri umani.
Bergman ci ha lasciato un autentico patrimonio d’immagini, storie e momenti indimenticabili, un distillato delle grandi e irrisolte questioni che continuano ad agitarci. Il tentativo di una risposta, ispirata, come lui stesso suggeriva, alla curiosità, è forse ancora oggi l’unica giustificazione possibile del fare arte, in un mondo che a parere del regista la considera marginale e crede di potervi rinunciare. A suo parere? Ma rispetto a cinquant’anni fa gli spazi della creatività non si sono forse ridotti, se possibile, ancora di più?
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