Ho conosciuto Pierfrancesco Paolini parecchi anni fa.
E soltanto casualmente ho saputo da Carlo Bordini - durante la commemorazione per Luigi Attardi tenuta alla casa editrice Empiria - che Paolini che era morto pochi giorni prima.
Mi sono immediatamente ricordato di quel giorno in cui viaggiammo insieme in pullman fino a Celano, dove si inaugurava una esposizione d'arte contemporanea alla quale eravamo entrambi invitati.
Familiarizzammo subito. Stimavo Paolini ben prima di conoscerlo personalmente: da sempre leggevo il suo nome stampigliato sui libri Mondadori o Rizzoli nelle traduzioni dei romanzi di Saul Bellow, che furono il mio innamoramento per la letteratura contemporanea (dei classici mi ero innamorato molto molto tempo prima).
Paolini era un grande traduttore (in molte case di italiani esiste una copia del Gabbiano Jonathan Livingston, di Richard Bach, uno dei tanti libri tradotti da lui, ma il suo catalogo è veramente sterminato).
Ma Paolini era anche un fine letterato. Diceva sempre: 'si traduce per vivere, si scrive per esistere'.
Bordini ha raccontato una tristissima parabola finale, come accade spesso in questo paese che non ha nessuna considerazione per i suoi intellettuali creativi: pare che Paolini sia morto in totale povertà.
Il che risulta veramente inaccettabile per uno come lui. Sugli scaffali di Empiria ho trovato questa poesia vitale, bellissima, piena di vita...,, Via Baccina, che voglio lasciare qui ad esempio della bellezza dell'anima di Pierfrancesco.
Via Baccina
Quando mi viene voglia di morire
prendo la metro e vado in Via Baccina.
è una via solitaria in un quartiere
vivace – strada quasi d’altri tempi.
Nel cuore storico di Roma antica
è una via malinconica, inromana,
ben lontana – diresti – dal vicino
frastuono dei motori e la notturna
allegria, spensierata e spendereccia,
delle Vie de’ Serpenti e del Boschetto,
di Madonna dei Monti, Via Leonina,
Via dei Zingari, Via dell’Angeletto.
Non ci trovi neppure un’osteria
in Via Baccina mia. C’è la bottega
(ma non è solo questo che mi strega)
d’un falegname antico che, ancora,
diresti che lavora legni rari,
ai tempi rei degli empi truciolati,
per fabbricare scrigni e stipi varii.
Ci sono negozietti di paese
dove la vecchierella va a comprare
“Mezz’etto, sor Novè, di mortadella”
ma puoi trovare prelibati
cibi e sapori ormai dimenticati,
tartufi, ed i fegatelli del vero
maiale – quello nero. C’è l’oscuro
portone sempre chiuso d’un ospizio
dove immagini ch’abbiano ricetto
principesse e marchesi immiseriti.
Simile a un antro, ad una catacomba,
c’è un Circolo Sportivo dove annosi
tifosi di Mazzola e di Piola,
al lume – sembrerebbe – di candela,
portano avanti una disperata
partita di tressette o di scopone
e rimembrano quella di pallone
dell’Italia che batte l’Inghilterra
nel Mille-novecento-trenta-quattro.
Poco più oltre ha la sede l’Empirìa,
la piccola casa Editrice che ha stampato
tanti libri di buona narrativa
e di incontaminata poesia.
Giunto in fondo alla via – mi soffermai.
Ed alzo gli occhi verso una soffitta
che il titolo ha, per me, di nostalgia.
Nel Mille-novecento-cinquantuno,
lì trascorremmo la breve stagione
del nostro amore eterno, io e la bella
donna che in terra ebbe nome Nicella:
Fenice Codispoti in Polverari,
polvere ormai da trentacinque anni.
Dentro di me, una voce ripeteva:
A thing of beauty is a joy forever.
E così sia.
Ricordo che, al risveglio, quel mattino
– lei dorme ancora – le depositai,
quasi a sigillo di una gioia estatica,
un bacio mordicchioso su una natica.
Al termine di questa passeggiata
la voglia di morire m’è passata.
prendo la metro e vado in Via Baccina.
è una via solitaria in un quartiere
vivace – strada quasi d’altri tempi.
Nel cuore storico di Roma antica
è una via malinconica, inromana,
ben lontana – diresti – dal vicino
frastuono dei motori e la notturna
allegria, spensierata e spendereccia,
delle Vie de’ Serpenti e del Boschetto,
di Madonna dei Monti, Via Leonina,
Via dei Zingari, Via dell’Angeletto.
Non ci trovi neppure un’osteria
in Via Baccina mia. C’è la bottega
(ma non è solo questo che mi strega)
d’un falegname antico che, ancora,
diresti che lavora legni rari,
ai tempi rei degli empi truciolati,
per fabbricare scrigni e stipi varii.
Ci sono negozietti di paese
dove la vecchierella va a comprare
“Mezz’etto, sor Novè, di mortadella”
ma puoi trovare prelibati
cibi e sapori ormai dimenticati,
tartufi, ed i fegatelli del vero
maiale – quello nero. C’è l’oscuro
portone sempre chiuso d’un ospizio
dove immagini ch’abbiano ricetto
principesse e marchesi immiseriti.
Simile a un antro, ad una catacomba,
c’è un Circolo Sportivo dove annosi
tifosi di Mazzola e di Piola,
al lume – sembrerebbe – di candela,
portano avanti una disperata
partita di tressette o di scopone
e rimembrano quella di pallone
dell’Italia che batte l’Inghilterra
nel Mille-novecento-trenta-quattro.
Poco più oltre ha la sede l’Empirìa,
la piccola casa Editrice che ha stampato
tanti libri di buona narrativa
e di incontaminata poesia.
Giunto in fondo alla via – mi soffermai.
Ed alzo gli occhi verso una soffitta
che il titolo ha, per me, di nostalgia.
Nel Mille-novecento-cinquantuno,
lì trascorremmo la breve stagione
del nostro amore eterno, io e la bella
donna che in terra ebbe nome Nicella:
Fenice Codispoti in Polverari,
polvere ormai da trentacinque anni.
Dentro di me, una voce ripeteva:
A thing of beauty is a joy forever.
E così sia.
Ricordo che, al risveglio, quel mattino
– lei dorme ancora – le depositai,
quasi a sigillo di una gioia estatica,
un bacio mordicchioso su una natica.
Al termine di questa passeggiata
la voglia di morire m’è passata.
(Pubblicata da Empirìa)
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