Mentre parla Tony Harrison continua a muovere le dita, accompagnando spesso il gesto con una smorfia come di fatica. «Perché la poesia – ripete – è uno sforzo, una lotta per dare forma alla complessità. La poesia è… è questo». E le dita riprendono ad agitarsi. Non se la prende se gli si fa notare che il movimento ricorda quello di un fornaio intento a impastare.
«È naturale – commenta –, mio padre era un fornaio e io non me ne sono mai dimenticato». Considerato uno dei maggiori poeti inglesi viventi, Harrison è in Italia per il premio alla carriera assegnatogli dal Festival internazionale di Poesia civile Città di Vercelli (www.poesiacivile.com), che ha avuto la sua anteprima ieri all’Università Cattolica di Milano, dove è stato presentato il volume che raccoglie alcune sue composizioni inedite appositamente realizzato, come da tradizione, dalla casa editrice Interlinea (Afrodite del Mar Nero e altre nuove poesie, a cura di Giovanni Greco, testo inglese a fronte, pagine 94, euro 12).
Nato nel 1936 a Leeds, nello Yorkshire, Harrison è del resto già noto al lettore italiano grazie alle raccolte pubblicate nel tempo da Einaudi, tra cui spicca il poemetto V. I suoi versi possono a volte colpire per durezza, ma la sua conversazione è straordinariamente cordiale.
«La poesia ha sempre una dimensione civile – sottolinea –, anche quando si occupa di vicende personali. Ho scritto spesso della mia famiglia, dei miei genitori, delle mie origini proletarie e anche della malattia di mio figlio. Sono realtà comuni a tutti, drammi che tutti possono condividere. Ecco perché, per me, è così importante usare un linguaggio diretto, che anche mio padre potrebbe comprendere».
Le sue poesie, però, sono anche molto elaborate dal punto di vista metrico.
"Non potrebbe essere altrimenti: tanto più è drammatica la materia, tanto più le parole devono lottare per farsi strada. È uno dei motivi per cui, ancora oggi, non riesco a comporre se non usando carta e penna. So di poeti che scrivono direttamente al computer, ma io non ne sarei mai capace. C’è una fisicità nel gesto di scrivere, qualcosa di intimamente legato al battito stesso del cuore umano».
Come è avvenuto il suo incontro con la letteratura?
«In concreto all’università, che noi figli della classe operaia abbiamo iniziato a frequentare grazie al cosiddetto Education Act degli anni Cinquanta. Ma più in profondità devo ammettere che si tratta di
un mistero anche per me. I miei, in casa, erano persone di poche parole. Dei miei zii, poi, uno era balbuziente, l’altro sordomuto. Articolare un discorso mi è sempre parso un’impresa. Nel momento in cui ho avuto accesso alla letteratura, mi sono reso conto che questa articolazione era possibile e che, al suo massimo livello, coincideva con la poesia. È così che sono diventato poeta. Ho voluto che fosse la mia professione, non qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero: finché è stato necessario, mi sono qualificato 'poeta' perfino sul passaporto».
Lei scrive in versi anche per il teatro, per la televisione,
per i giornali…
«Tutto quello che faccio è poesia, vero, anche se una qualche differenza rimane. Un conto è scrivere per se stessi, in piena autonomia, un conto è confrontarsi con attori, registi o capiredattori, come facevo all’epoca delle mie corrispondenze di guerra dalla Bosnia. Ho imparato moltissimo dalla mia esperienza di traduttore, quando mi sono ritrovato a dare cittadinanza nei teatri a una forma di rappresentazione in versi che pareva ormai dimenticata. Racine, Molière, Eschilo, Sofocle: tutti grandi poeti, e poeti civili».
Con chi si sente più in debito?
«Da un lato con Virgilio, perché il lavoro accademico sulle versioni inglesi dell’Eneide mi ha risparmiato il servizio militare. Ma è con la tragedia greca che tutto ha davvero inizio. Non era un semplice intrattenimento teatrale. Si svolgeva alla luce del giorno, tanto per cominciare, in uno spazio circolare in cui attori e spettatori si vedevano a vicenda ed erano consapevoli di celebrare un evento fondamentale per l’intera città. Beh, non proprio intera, visto che le donne non potevano partecipare alle rappresentazioni».
Ma il coro un po’ rimediava alla mancanza, no?
«Più ancora del coro, a mio avviso, è decisivo il ruolo del messaggero. Ha presente quello che accade in quasi tutte le tragedie, no? A un certo punto arriva un messo, lancia un altro grido e si lamenta: i miei occhi, dice, hanno visto cose troppo orribili da riportare in parole. Dopo di che, attacca un monologo di duecento versi in cui descrive nel minimo dettaglio le atrocità di cui è stato testimone. Lo spettatore non vede nulla, perché lo scempio avviene sempre fuori scena, ma la sua attenzione è allo spasimo. Gli è appena stato assicurato che le parole non riusciranno a portare a termine quel compito tremendo, ed è per questo che aguzza le orecchie, cerca di captare ogni suono, ogni respiro. Esattamente il contrario di quello che accade quando ci sediamo davanti al televisore e sorbiamo con indifferenza la nostra dose quotidiana di sventure. Bisogna tornare a dare importanza alla poesia, ma per fare questo occorre rinunciare a ogni compiacimento sentimentale, a ogni intimismo. Confrontarci con la realtà, questo dobbiamo fare. Impastare le nostre parole nella vita di tutti i giorni».
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