Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.
Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.
Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.
Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?
La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.
Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.
In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.
Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.
Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.
Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.
Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.
Enzo Bianchi
.....la paura è coltivata, aizzata da una politica che illude sulla possibilità di garantire sicurezze che che in una società complessa e in metropoli che diventano sempre più megalopoli non potrà mai dare; l'ignoranza è teorizzata e la conoscenza semplificata quando la Santanchè, una sciureta ignorante che gioca alla politica può permettersi di dire che i musulmani sono pedofili perchè le loro figlie si sposano a 14 anni dimenticando che sino a poco meno di 60 anni fa in luoghi non marginali del nostro Paesi, dalle Alpi al Mediterraneo era pratica diffusa anche da noi e che per la medesima ragione anche Giuseppe il discendente di Davide, il promesso sposo di Maria, il padre di Gesù sarebbe un pedofilo visto che la moglie aveva 14 o 15 anni al momento del fidanzamento. ma tant'è questa donna viene. considerata una fiera combattente in difesa dei valori cristiani....e in fondo rappresenta bene il livello culturale di coloro che le danno credibilità. Bianchi ha ragione il crocefisso non è un simbolo ma è l'attualizzazione del fatto che Dio si è ridotto alla nostra umanità e si è caricato il mio e il nostro peccato ed è risorto liberandoci dalla schiavitù della morte.E quest'uomo in croce ci dice che l'amore che ha testimoniato nella sua vita per rivelare il volto del Padre appartiene alla nostra umanità. La croce o è questo e allora i cristiani sapranno affrontare nella verità e con carità ogni intemperia oppure se è solo un simbolo culturale, la rappresentazione delle nostre radici occidentali il cristianesimo non avrà futuro.Forse la Chiesa trionfante e muscolosa, deve veramente passare per il fallimento e vivere l'esperienza purificante del piccolo Gruppo o del Resto d'Israele, ma questa chiesa, quella che mette Cristo al centro della sua azione non morirà mai sino alla fine dei tempi.....lo ha detto Gesù a Pietro mentre lo confermava capo di questo corpo storico e mistico che è il popolo di dio
RispondiEliminaAlessandro,
RispondiEliminacondivido con te il senso profondo di questo tuo commento. Anche io sono convinto che questa che sta vivendo la Chiesa (intesa come comunità intera e non solo come gerarchia) e la Fede cristiana, sia una fase inevitabile e perfino necessaria. Nessuno di noi può immaginare quanto durerà, ma certamente quella che si sta imponendo è l'esigenza di un sempre maggiore ritorno alla umiltà delle origini. Alla testimonianza nuda e cruda, che prosegue nel cammino esemplare di tanti - del tutto sconosciuti - che silenziosamente portano nel cuore la novella annunziata a suo tempo, e quanto mai bisognosa di un Secondo Appello.
Le deformazioni mostruose a cui stiamo assistendo - quella che citi, della siuretta milanese è paradigmatica - dovrebbero rafforzarci sempre più nella nostra strada, che è, e sarà sempre un'altra.
Grazie.
F.