Mi è venuto in mente, guardando le puntate della seconda serie di un bellissimo prodotto per la tv dell'americana HBO, "In Treatment". Si tratta di un serial - che nasce da un'idea della tv israeliana - che vede al centro uno psicoanalista, il quale in ogni puntata - della durata di 30 minuti - riceve nel suo studio un diverso paziente, 'in terapia'.
Il povero analista - che deve fra l'altro fare i conti con i disastri della sua vita personale (ha tre figli e un matrimonio entrato in crisi proprio a causa dell'innamoramento per una giovane paziente) - deve affrontare i casi più disparati: nella prima serie erano una ragazza avvenente e provocante, in crisi; un 'eroe di guerra' dell'Iraq; una coppia in crisi matrimoniale; nella seconda una ragazza malata di cancro, una quarantenne in crisi per assenza di maternità, un anziano manager.
Guardando questa serie mi sono reso conto di come - meglio non si potrebbe - la psicoanalisi stessa sia ormai entrata in crisi, nel nostro mondo occidentale. La speranza - pretesa - di curare le ferite e i dolori dell'anima attraverso lo scioglimento dei nodi psicologici, e di raggiungere una pienezza di senso, e di felicità, in gran voga fino a un trentennio fa - si è oggi alquanto ridimensionata.
Intendiamoci: l'analisi è una cosa seria - specie quando gli analisti sono seri e preparati - e moltissime persone sono state letteralmente 'salvate' da una terapia psico-analitica.
Ma i dolori, le ferite, le mancanze, soprattutto le RISPOSTE alla mancanza di senso che sentiamo spesso nelle nostre vite, non possono quasi mai essere risolte solo da un trattamento psico-analitico.
In "in treatment" non a caso, regna l'infelicità diffusa: quella dei pazienti, che ricavano soltanto frustrazione dalle loro speranze di 'guarigione', e soprattutto quella dell'analista, che sperimenta la sua inadeguatezza, inutilità, perlopiù aggravata dalla sofferenza altrui.
Qualcuno mi disse un giorno che la psico-analisi non è altro che una 'confessione' laica, cioè l'equivalente del sacramento della Confessione, naturalmente de-sacralizzata, e divenuta anzi un rito laico, di assoluzione o auto-assoluzione (o se preferite di riconciliazione o auto-riconciliazione).
Non so se questo sia vero o no. Vero è, indubitabilmente, che le scienze psico-analitiche hanno avuto un incredibile ed esponenziale boom concomitante con l'entrata in crisi verticale - in occidente - del sacramento della confessione, ma più in generale della pratica religiosa.
Fatto sta che mi sembra un buon segno quello che anche la scienza e la pratica psico-analitica comincino ad interrogarsi sulla validità del metodo, e sulla efficacia delle cure, nella riconsiderazione del fatto che "curare" i problemi di una persona, della sua vita, delle sue relazioni, del suo carattere, delle sue vicissitudini, non può mai risolversi semplicemente in una operazione di tipo 'meccanico'.
Esiste qualcosa, dentro di noi, che non si può spiegare (e quindi curare) soltanto sulla base di procedimenti psichici. Siamo fatti (anche) di un 'quid' che sfugge ad ogni analisi, ad ogni studio, esame, approfondimento, giustificazione, evidenza. Anzi, spesso è proprio quel 'quid' che ci fa stare così male.
E' il centro del nostro 'Sè', come lo chiamava Carl Gustav Jung. Quella voce che parla anche quando non vogliamo sentirla. La psicoanalisi va benissimo per cercare di stare meglio. Ma la guarigione, la vera guarigione, siamo soltanto noi - raggiungendo quella parte di Sè così profonda (eterna?), che sa così tanto di noi e della nostra storia - che possiamo darcela.
Ho conosciuto, molti anni fa, una donna che ha segnato profondamente la mia vita e il mio animo e che tutt’ora è presente nei mie pensieri. La frequentavo da pochi mesi quando le venne diagnosticata, a circa 40 anni, la sclerosi multipla. Insegnava filosofia in uno dei licei più prestigiosi di Milano ed era fiera della sua libertà e bellezza. Il tuo post, Faber, sul limite e valore della psicoanalisi e della psicologia nella sua presunzione di scientificità mi fa riemergere con forza alla mente quel che le accadde alle prime manifestazioni evidenti dei sintomi. Quasi contemporaneamente la lasciarono andare, nel senso che non fecero nulla per trattenerla dal suo progressivo autoisolamento sia lo psicoterapeuta con cui lavorava da tempo sia il compagno di quel periodo, un giovane uomo pieno di creatività ed interessi con cui conviveva da qualche anno.
RispondiEliminaCarotenuto ha scritto da qualche parte che l’analisi è un rapporto d’amore senza il corpo, qualcosa di simile all’amicizia tra due persone dello stesso sesso senza però la complicità e la giustificazione reciproca degli amici. Quando cominceremo ad usare con il giusto timore e cautela questa parola, amico, e a viverne intensamente la ricchezza?
Viktor E. Frankl scrive che la relazione terapeutica è sempre unica e irripetibile e induce entrambi a percorrere tratti di strada dell’anima assolutamente imprevedibili e che nessun manuale potrebbe contemplare. E poi non vi è manuale che abbia raggiunto i luoghi profondi dell’uomo perché nessun Terapeuta ha avuto l’ardire di farlo, a partire da sé. C’è il rischio di finire come Nietzsche! Perdersi nella follia!
Vi è un testo di Cassiano del quarto secolo, le Istituzioni Cenobitiche che parla dei vizi capitali. Ebbene la descrizione che li viene fatta dell’uomo e dei suoi meccanismi relazionali è infinitamente più profonda di quanto la presunta scienza psicologica abbia prodotto, da Freud in poi. Quel testo riportava l’esperienza dei monaci ed eremiti della Palestina, della Siria e dell’e Egitto del terzo secolo . Uomini che avevano guardato in se stessi nei deserti della Giudea o Transgiordanico. Per questo erano capaci di parlare ad ogni uomo, al cuore di ogni uomo!
Vedi Faber qui sta il limite della Psicologia come scienza e dell’analisi come pratica: si ferma prima delle zone di confine del corpo e della vita. Cosi come è successo alla mia amica e uso la parola con tutto l’amore che lei meritava. E' morta sola. Eppure sono quelle le zone, affrontando le quali si da senso, o meno, alla vita. Non troverai mai uno Psicoterapeuta che condivide il tratto di strada che ha di fronte un malato terminale, a meno che non si occupa di cure palliative, oppure chi viene colpito da una malattia degenerativa e incurabile.
Detto ciò è tanta la gente che ha bisogno di imparare a stare meglio con se stessa, ad abbracciare la propria vita cercandone e trovandone il senso nelle vicende e persone che l’hanno attraversata, che deve imparare a fare la pace con se stessa,ad accettarsi, ad amarsi molto più in profondità delle piccole rappresentazioni che facciamo quotidianamente per raggranellare qualche briciola di inconsistente autostima. In questo e per imparare a fare questo, psicologia e analisi possono aiutare, in una fase transitoria della vita possono servire. Ma davanti agli abissi dell’anima e del corpo no; non consentono di rimettere in sesto, quindi non servono. Io a volte mi sono avvicinato a questi abissi, vi ho gettato lo sguardo ho anche offerto la mano per trattenere e tenere e qualche volta ci sono riuscito! ma so, con molta e chiara consapevolezza, che posso farlo, non ber bravura, sensibilità o cultura ma solo perché l’altra mano è tenuta con forza e saldamente da Papà grande dal cielo.
Ho lasciato riposare a lungo il tuo contributo, Alessandro.
RispondiEliminaChe, come spesso accade, mi ha colpito dritto al cuore. La storia della tua amica è viva e vibrante, e racconta come forse meglio non si potrebbe, lo sconcerto e anche il disarmo (nel senso dell'essere inermi ) con cui persone anche molto intelligenti si trovano a fare i conti, quando il 'destino' bussa crudelmente alla porta.
E' proprio allora che ci rendiamo conto di quanto sia difficile un approccio puramente razionalistico-scientifico-analitico.
Anch'io ho vissuto una esperienza simile con una ragazza, mia carissima amica, anche di più, che si trovò di fronte ad una sentenza già scritta.
Da persona intelligentissima quale era capì e sperimentò subito - dolorosamente - che ogni approccio di quel tipo (scientifico/medico/analitico) non poteva esserle di nessun aiuto.
Dedicò gli ultimi mesi della sua brevissima vita alla conoscenza, alla contemplazione, alla meditazione profonda.
E io spero e credo che se ne sia andata con una consapevolezza forte, che l'ha guidata con sicurezza nel traghettamento 'dall'altra parte'.
Grazie.
F.
... noi siamo fatti così,Faber: piccoli,orgogliosi uomini, tremanti davanti all'infinito e al buio che per illudersi di una saldezza che non c'è, anzichè cercare l'inconoscibile trasformano il proprio piccolo recinto in in universo super protetto... che piano piano.....si svuota....c'è solo da sperare, se si vive così, di non essere l'ultimo!
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