Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.
Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo.
Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung.
Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2)
Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.
In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.
Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)
Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista.
I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio.
Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde.
Paolo Ferliga
Docente di Filosofia Psicologo analista