Rappresentazione di Beatrice Cenci in una fotografia di Julia Margaret Cameron
Oggi, 8 luglio ricorre l'anniversario della nascita di Artemisa Gentileschi (8 luglio 1593), la grande pittrice romana. La ricordiamo con questo episodio poco conosciuto della sua vita, quando assistette in piazza alla esecuzione capitale di Lucrezia Borgia.
La storia di Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma.
Il fantasma forse più famoso di Roma è quello di Beatrice Cenci, che con il tempo divenne una vera e propria eroina popolare, per tutti, ma che, prima di diventare un terrorizzante fantasma che si dice compaia ancora oggi portando la sua testa recisa tra le mani, fu la vittima sacrificale in un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti dell’intera storia della Capitale.
Di questo processo infatti, parlò tutta Roma, e per secoli interi la fama della intricata vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.
E c’era tutta Roma quel giorno, l’11 settembre (giorno non proprio fortunato, a giudicare dai corsi e ricorsi storici) del 1599 ad assistere, nella Piazza del Castel Sant’Angelo, alla terribile esecuzione della bella Beatrice, accusata di parricidio, e dei suoi complici.
Una folla incontenibile tanto che, nel caldo afoso in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono nel fiume.
Tra loro c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte, c’erano i più grandi avvocati dell’epoca, Molella e Farinacci, che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca, c’erano soldati e artisti: tra questi ultimi, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca.
È facile immaginare quale suggestione dovette suscitare l’esecuzione dei condannati. Prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.
Dopo di loro, Giacomo, il fratello più grande di Beatrice, fu squartato davanti alla folla, dopo che durante il tragitto fino al patibolo era stato torturato con tenaglie roventi.
Ma cosa avevano fatto costoro di così grave e imperdonabile per essere stati condannati a una fine pubblica così atroce? La vicenda umana di Beatrice, che visse soltanto ventidue anni, è tra le più tristi che si ricordi nella lunga storia di Roma.
Eppure la ragazza, quando era nata, il 12 febbraio del 1577, sembrava possedere tutte le caratteristiche del privilegio.
Beatrice era infatti nata dal matrimonio tra il Conte Francesco Cenci, che aveva ereditato una somma favolosa dal padre, dignitario e tesoriere della Camera Apostolica, ed Ersilia Santacroce. Come si usava spesso all’epoca, era un matrimonio consumato tra due adolescenti: gli sposi infatti avevano soltanto quindici anni.
Nei successivi venti, Ersilia diede al Conte ben dodici figli, tra cui due femmine, Antonina e Beatrice. Tutti i guai, nella vita di Beatrice, derivarono proprio dal padre, uomo terribilmente dispotico, collerico, violento con manie di persecuzione.
Quando Ersilia morì di parto, nel 1584, l’uomo mandò le figlie in un convento. Beatrice aveva allora soltanto sette anni. Restò per otto anni in clausura, finché, ormai adolescente, le fu permesso di rientrare in casa. Qui però trovò una situazione ancora più insostenibile. Il padre era ormai in preda a un vero delirio di dissoluzione: continuamente coinvolto in risse da strada, fatti di sangue, piccoli e grandi scandali (tra cui un’accusa di sodomia) stava minando il suo ingente patrimonio pagando avvocati senza scrupoli che lo liberavano dai guai a prezzo di spaventosi onorari.
La vita in famiglia, specialmente per le due figlie femmine, dovette molto presto tramutarsi in un inferno. E così quando Antonina, dopo aver scritto una supplica al papa, ottenne l’autorizzazione da Clemente VIII di sottrarsi alla autorità paterne e di convolare a nozze con il rampollo di una nobile casata di Gubbio, il padre, il conte Francesco, nel timore di perdere anche Beatrice, decise di segregarla.
La rinchiuse insieme a Lucrezia, la nuova moglie che aveva sposato nel 1593, in un remoto e lugubre castello, chiamato La Rocca, nella provincia del reatino, non distante dalla Valle del Salto.
Tutti i tentativi di Beatrice di evadere dalla prigione, anche con il ricorso a servitori o amici di famiglia, si rivelarono infruttuosi: non solo, per sfuggire ai debiti che stavano diventando insostenibili, ormai anche malato, il Conte pensò bene di trasferirsi lui stesso a La Rocca, portando con sé i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo.
La vita in quel luogo desolato divenne ancora più dura. Beatrice doveva subire ogni tipo di angheria e assistere ai maltrattamenti che il vecchio despota imponeva alla matrigna e ai figli.
Quando il vaso fu colmo, i figli decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi con ogni mezzo del terribile padre. I primi due tentativi – un’imboscata organizzata da briganti presi a tradimento, e un avvelenamento – andarono a vuoto. Ma il terzo, andato in scena con la complicità di due servitori di stanza a La Rocca (i quali anche loro non ne potevano più del padrone), Marzio da Fioran, detto il Catalano, e Olimpio Calvetti, riuscì, anche se non così perfettamente come si era sperato: il fratello maggiore, Giacomo, in visita al Castello, preparò la pozione con l’oppio che servì a stordire il vecchio. Quando si fu addormentato, Marzio, senza pietà gli spezzò le gambe con un tortore, e Olimpio lo finì con un chiodo nella gola.
Fatale, per la cattiva riuscita del crimine, fu la decisione di simulare, come causa di morte, la caduta da un ballatoio del castello.
Il cadavere fu ritrovato la mattina dopo, ai piedi delle mura, e figli e moglie piansero finte lacrime per indurre a credere che si fosse trattato di una semplice disgrazia. Sulle prime il depistaggio riuscì.
Il Conte fu seppellito nella chiesa del posto, e i famigliari fecero ritorno a Roma, nel palazzo della famiglia Cenci, apparentemente liberi dall’ossessiva presenza del vecchio padre-padrone. Ben presto però, in città cominciarono a correre voci e maldicenze sulla fine del Conte. Furono ordinate due inchieste.
La prima senza apparenti risultati, la seconda, richiesta direttamente dal Viceré di Napoli e con il parere favorevole del papa stesso, portò invece alla riesumazione del cadavere, all’esame di tutte le ferite presenti sul corpo, e all’interrogatorio serrato di diversi testimoni, tra cui una lavandaia del castello che confessò di aver nascosto un lenzuolo macchiato di sangue «che la figlia, Beatrice, aveva detto essersi macchiato del suo liquido mestruale».
I presunti colpevoli, i due servitori, i fratelli Giacomo, Beatrice e Bernardo, e la matrigna Lucrezia furono dunque arrestati e cominciò per loro il calvario delle torture, che venivano usate sistematicamente per ottenere la confessione.
Il primo a cedere fu Olimpio, che in cambio della delazione degli altri complici fu lasciato fuggire, salvo poi essere ucciso da prezzolati sicari al soldo della famiglia Cenci, che temeva nuove confessioni a danno di altri membri del casato.
Anche l’altro servitore, Marzio, morì durante i feroci interrogatori.
Alla sfortunata Beatrice, che inizialmente negò tutto attribuendo le colpe unicamente ai domestici del castello, toccò il terribile supplizio della corda: il condannato, sospeso a mezz’aria a una corda pendente dal soffitto, con le braccia legate dietro la schiena, non poteva resistere.
Non conosciamo con certezza il ruolo che Beatrice ebbe nel complotto per uccidere il padre. Fatto sta che la sua ammissione bastò per farle meritare la massima condanna, insieme agli altri complici del delitto.
Gli imputati vennero rinchiusi nelle carceri di Tordinona e di Corte Savella e a nulla valsero i tentativi dell’avvocato difensore. Beatrice avrebbe dovuto, per discolparsi, denunciare di essere stata violentata dal padre, ma la ragazza si rifiutò di farlo e la condanna fu emessa, senza indugi, per lei, per madama Lucrezia e per Giacomo.
Il fratello più piccolo Bernardo, ancora minorenne, fu risparmiato, e la sua pena commutata in lavori forzati a bordo delle galere pontificie. Dalla sua cella della prigione di Corte Savella, che sorgeva nei pressi del giardino degli Aranci sull’Aventino, Beatrice cercò di sfruttare anche una occasione che il caso le mise a disposizione: la terribile alluvione dell’inverno del 1598 che, con lo straripamento del Tevere causò anche il definitivo crollo del celebre Ponte Rotto, il più antico di Roma, di cui restarono solo pochi ruderi, in mezzo al letto del fiume.
Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015
Beatrice offrì al papa di barattare le spese per il rifacimento del ponte tanto amato dai Romani, che avrebbe edificato più bello di prima, in cambio della vita. Ma l’offerta fu rifiutata. A nulla valsero nemmeno le suppliche di grazia che da molte parti, e da parte di influenti persone estranee alla vicenda, ma commosse dal destino della giovane, si levarono nei confronti del papa Clemente VIII.
Il pontefice, in altre circostanze, e soprattutto in considerazione della stretta amicizia con la famiglia Cenci, avrebbe sicuramente concesso la clemenza, ma il momento non era affatto propizio: in quel periodo infatti si erano verificati troppi fatti di sangue gravi, in città e nella provincia, e bisognava mandare un segnale forte e chiaro alla popolazione. Si arrivò così al giorno dell’esecuzione, che abbiamo descritto all’inizio del capitolo.
Tutto si svolse secondo il rito, tra le urla di invocazione della folla e gli sguardi terrorizzati dei famigliari, tra cui il povero Bernardo legato a una sedia per assistere alla decapitazione della sorella. Dalle cronache dell’epoca si apprende che Beatrice andò incontro al boia con fierezza, e forse anche con un comprensibile sentimento di liberazione.
L’eco di quella esecuzione rimase pesantemente, come una nuvola nera, nel cielo di Roma per molto e molto tempo dopo che il corpo della ragazza fu tumulato, senza nome e senza lapide – come era usanza per i condannati – in un loculo sotto i gradini dell’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio sul colle del Gianicolo.
La maledizione di questa ignominiosa fine sembrò abbattersi da subito sui suoi persecutori, compresi i due boia che eseguirono le condanne, Alessandro Bracca e il suo aiutante, un certo Mastro Peppe, che ebbero, sembra, una fine tanto tragica quanto misteriosa: Bracca morì soltanto tredici giorni dopo l’esecuzione di Beatrice e del fratello, perseguitato da incubi notturni in cui ricorrevano i supplizi inflitti ai Cenci; il secondo invece fu trovato ucciso a pugnalate presso ponte Sant’Angelo, probabilmente vittima di un sicario della famiglia Cenci.
Ma la stessa maledizione si accanì sulla povera Beatrice anche dopo la sua morte: quando nel 1798 i francesi occuparono Roma, sembra che i giacobini che misero a soqquadro le chiese barocche del centro alla ricerca di ori e tesori, non risparmiarono neppure San Pietro in Montorio e quando scoprirono il sepolcro di Beatrice si impossessarono perfino del piatto d’argento sul quale ancora riposava la testa della ragazza, usando senza pietà il teschio per giocare a palla, e portandolo via dal luogo della sepoltura.
Quel che resta oggi di Beatrice Cenci è assai poco: nell’assenza perfino delle sue spoglie mortali, l’unica memoria che porta direttamente a lei è il cesto di vimini conservato nella Camera Storica nel chiostro della Chiesa di San Giovanni Decollato, nella via omonima: una specie di piccolo museo dedicato alle vittime del patibolo, che tra i tanti macabri trofei conserva anche il cesto suddetto, che avrebbe accolto la testa della sfortunata Beatrice.
E forse è anche questa mancanza evidente di spoglie, questa evaporazione di resti mortali, che ha reso così pervicace, a Roma, la leggenda del fantasma di Beatrice. Una leggenda secondo la quale, la notte di ogni 11 settembre, la giovinetta si manifesta in quella piazza antistante il Castel Sant’Angelo dove fu decapitata, nell’ora esatta in cui il suo cadavere fu rimosso dal patibolo per essere portato direttamente al luogo della sepoltura.
Donatella Paradisi così descrive lo spettro della giovinetta: «Le lunghe vesti fuori moda fluttuano nel vento della sera, disegnando le forme acerbe, le lunghe gambe, le braccia sottili, il seno appena sbocciato. Una figura nemmeno tanto diversa da quella di un’infinità di giovani romane, toccate dall’indicibile magia dell’adolescenza che scivola nella giovinezza. Nemmeno tanto diversa, se non per un particolare: Beatrice tiene in mano il proprio capo reciso. Beatrice, vestita di taffettà turchino e con un drappo color argento sulle spalle, a volte è accompagnata dalla matrigna Lucrezia Cenci, anch’essa senza testa. Il fantasma compare vicino alla statua di San Paolo, il santo che subì la stessa fine di Beatrice, e che per questo è raffigurato con in mano una spada».
Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015
Di questo processo infatti, parlò tutta Roma, e per secoli interi la fama della intricata vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.
E c’era tutta Roma quel giorno, l’11 settembre (giorno non proprio fortunato, a giudicare dai corsi e ricorsi storici) del 1599 ad assistere, nella Piazza del Castel Sant’Angelo, alla terribile esecuzione della bella Beatrice, accusata di parricidio, e dei suoi complici.
Una folla incontenibile tanto che, nel caldo afoso in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono nel fiume.
Tra loro c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte, c’erano i più grandi avvocati dell’epoca, Molella e Farinacci, che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca, c’erano soldati e artisti: tra questi ultimi, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca.
È facile immaginare quale suggestione dovette suscitare l’esecuzione dei condannati. Prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.
Dopo di loro, Giacomo, il fratello più grande di Beatrice, fu squartato davanti alla folla, dopo che durante il tragitto fino al patibolo era stato torturato con tenaglie roventi.
Ma cosa avevano fatto costoro di così grave e imperdonabile per essere stati condannati a una fine pubblica così atroce? La vicenda umana di Beatrice, che visse soltanto ventidue anni, è tra le più tristi che si ricordi nella lunga storia di Roma.
Eppure la ragazza, quando era nata, il 12 febbraio del 1577, sembrava possedere tutte le caratteristiche del privilegio.
Beatrice era infatti nata dal matrimonio tra il Conte Francesco Cenci, che aveva ereditato una somma favolosa dal padre, dignitario e tesoriere della Camera Apostolica, ed Ersilia Santacroce. Come si usava spesso all’epoca, era un matrimonio consumato tra due adolescenti: gli sposi infatti avevano soltanto quindici anni.
Nei successivi venti, Ersilia diede al Conte ben dodici figli, tra cui due femmine, Antonina e Beatrice. Tutti i guai, nella vita di Beatrice, derivarono proprio dal padre, uomo terribilmente dispotico, collerico, violento con manie di persecuzione.
Quando Ersilia morì di parto, nel 1584, l’uomo mandò le figlie in un convento. Beatrice aveva allora soltanto sette anni. Restò per otto anni in clausura, finché, ormai adolescente, le fu permesso di rientrare in casa. Qui però trovò una situazione ancora più insostenibile. Il padre era ormai in preda a un vero delirio di dissoluzione: continuamente coinvolto in risse da strada, fatti di sangue, piccoli e grandi scandali (tra cui un’accusa di sodomia) stava minando il suo ingente patrimonio pagando avvocati senza scrupoli che lo liberavano dai guai a prezzo di spaventosi onorari.
La vita in famiglia, specialmente per le due figlie femmine, dovette molto presto tramutarsi in un inferno. E così quando Antonina, dopo aver scritto una supplica al papa, ottenne l’autorizzazione da Clemente VIII di sottrarsi alla autorità paterne e di convolare a nozze con il rampollo di una nobile casata di Gubbio, il padre, il conte Francesco, nel timore di perdere anche Beatrice, decise di segregarla.
La rinchiuse insieme a Lucrezia, la nuova moglie che aveva sposato nel 1593, in un remoto e lugubre castello, chiamato La Rocca, nella provincia del reatino, non distante dalla Valle del Salto.
Tutti i tentativi di Beatrice di evadere dalla prigione, anche con il ricorso a servitori o amici di famiglia, si rivelarono infruttuosi: non solo, per sfuggire ai debiti che stavano diventando insostenibili, ormai anche malato, il Conte pensò bene di trasferirsi lui stesso a La Rocca, portando con sé i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo.
La vita in quel luogo desolato divenne ancora più dura. Beatrice doveva subire ogni tipo di angheria e assistere ai maltrattamenti che il vecchio despota imponeva alla matrigna e ai figli.
Quando il vaso fu colmo, i figli decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi con ogni mezzo del terribile padre. I primi due tentativi – un’imboscata organizzata da briganti presi a tradimento, e un avvelenamento – andarono a vuoto. Ma il terzo, andato in scena con la complicità di due servitori di stanza a La Rocca (i quali anche loro non ne potevano più del padrone), Marzio da Fioran, detto il Catalano, e Olimpio Calvetti, riuscì, anche se non così perfettamente come si era sperato: il fratello maggiore, Giacomo, in visita al Castello, preparò la pozione con l’oppio che servì a stordire il vecchio. Quando si fu addormentato, Marzio, senza pietà gli spezzò le gambe con un tortore, e Olimpio lo finì con un chiodo nella gola.
Fatale, per la cattiva riuscita del crimine, fu la decisione di simulare, come causa di morte, la caduta da un ballatoio del castello.
Il cadavere fu ritrovato la mattina dopo, ai piedi delle mura, e figli e moglie piansero finte lacrime per indurre a credere che si fosse trattato di una semplice disgrazia. Sulle prime il depistaggio riuscì.
Il Conte fu seppellito nella chiesa del posto, e i famigliari fecero ritorno a Roma, nel palazzo della famiglia Cenci, apparentemente liberi dall’ossessiva presenza del vecchio padre-padrone. Ben presto però, in città cominciarono a correre voci e maldicenze sulla fine del Conte. Furono ordinate due inchieste.
La prima senza apparenti risultati, la seconda, richiesta direttamente dal Viceré di Napoli e con il parere favorevole del papa stesso, portò invece alla riesumazione del cadavere, all’esame di tutte le ferite presenti sul corpo, e all’interrogatorio serrato di diversi testimoni, tra cui una lavandaia del castello che confessò di aver nascosto un lenzuolo macchiato di sangue «che la figlia, Beatrice, aveva detto essersi macchiato del suo liquido mestruale».
I presunti colpevoli, i due servitori, i fratelli Giacomo, Beatrice e Bernardo, e la matrigna Lucrezia furono dunque arrestati e cominciò per loro il calvario delle torture, che venivano usate sistematicamente per ottenere la confessione.
Il primo a cedere fu Olimpio, che in cambio della delazione degli altri complici fu lasciato fuggire, salvo poi essere ucciso da prezzolati sicari al soldo della famiglia Cenci, che temeva nuove confessioni a danno di altri membri del casato.
Anche l’altro servitore, Marzio, morì durante i feroci interrogatori.
Alla sfortunata Beatrice, che inizialmente negò tutto attribuendo le colpe unicamente ai domestici del castello, toccò il terribile supplizio della corda: il condannato, sospeso a mezz’aria a una corda pendente dal soffitto, con le braccia legate dietro la schiena, non poteva resistere.
Non conosciamo con certezza il ruolo che Beatrice ebbe nel complotto per uccidere il padre. Fatto sta che la sua ammissione bastò per farle meritare la massima condanna, insieme agli altri complici del delitto.
Gli imputati vennero rinchiusi nelle carceri di Tordinona e di Corte Savella e a nulla valsero i tentativi dell’avvocato difensore. Beatrice avrebbe dovuto, per discolparsi, denunciare di essere stata violentata dal padre, ma la ragazza si rifiutò di farlo e la condanna fu emessa, senza indugi, per lei, per madama Lucrezia e per Giacomo.
Il fratello più piccolo Bernardo, ancora minorenne, fu risparmiato, e la sua pena commutata in lavori forzati a bordo delle galere pontificie. Dalla sua cella della prigione di Corte Savella, che sorgeva nei pressi del giardino degli Aranci sull’Aventino, Beatrice cercò di sfruttare anche una occasione che il caso le mise a disposizione: la terribile alluvione dell’inverno del 1598 che, con lo straripamento del Tevere causò anche il definitivo crollo del celebre Ponte Rotto, il più antico di Roma, di cui restarono solo pochi ruderi, in mezzo al letto del fiume.
Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015
Beatrice offrì al papa di barattare le spese per il rifacimento del ponte tanto amato dai Romani, che avrebbe edificato più bello di prima, in cambio della vita. Ma l’offerta fu rifiutata. A nulla valsero nemmeno le suppliche di grazia che da molte parti, e da parte di influenti persone estranee alla vicenda, ma commosse dal destino della giovane, si levarono nei confronti del papa Clemente VIII.
Il pontefice, in altre circostanze, e soprattutto in considerazione della stretta amicizia con la famiglia Cenci, avrebbe sicuramente concesso la clemenza, ma il momento non era affatto propizio: in quel periodo infatti si erano verificati troppi fatti di sangue gravi, in città e nella provincia, e bisognava mandare un segnale forte e chiaro alla popolazione. Si arrivò così al giorno dell’esecuzione, che abbiamo descritto all’inizio del capitolo.
Tutto si svolse secondo il rito, tra le urla di invocazione della folla e gli sguardi terrorizzati dei famigliari, tra cui il povero Bernardo legato a una sedia per assistere alla decapitazione della sorella. Dalle cronache dell’epoca si apprende che Beatrice andò incontro al boia con fierezza, e forse anche con un comprensibile sentimento di liberazione.
L’eco di quella esecuzione rimase pesantemente, come una nuvola nera, nel cielo di Roma per molto e molto tempo dopo che il corpo della ragazza fu tumulato, senza nome e senza lapide – come era usanza per i condannati – in un loculo sotto i gradini dell’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio sul colle del Gianicolo.
La maledizione di questa ignominiosa fine sembrò abbattersi da subito sui suoi persecutori, compresi i due boia che eseguirono le condanne, Alessandro Bracca e il suo aiutante, un certo Mastro Peppe, che ebbero, sembra, una fine tanto tragica quanto misteriosa: Bracca morì soltanto tredici giorni dopo l’esecuzione di Beatrice e del fratello, perseguitato da incubi notturni in cui ricorrevano i supplizi inflitti ai Cenci; il secondo invece fu trovato ucciso a pugnalate presso ponte Sant’Angelo, probabilmente vittima di un sicario della famiglia Cenci.
Ma la stessa maledizione si accanì sulla povera Beatrice anche dopo la sua morte: quando nel 1798 i francesi occuparono Roma, sembra che i giacobini che misero a soqquadro le chiese barocche del centro alla ricerca di ori e tesori, non risparmiarono neppure San Pietro in Montorio e quando scoprirono il sepolcro di Beatrice si impossessarono perfino del piatto d’argento sul quale ancora riposava la testa della ragazza, usando senza pietà il teschio per giocare a palla, e portandolo via dal luogo della sepoltura.
Quel che resta oggi di Beatrice Cenci è assai poco: nell’assenza perfino delle sue spoglie mortali, l’unica memoria che porta direttamente a lei è il cesto di vimini conservato nella Camera Storica nel chiostro della Chiesa di San Giovanni Decollato, nella via omonima: una specie di piccolo museo dedicato alle vittime del patibolo, che tra i tanti macabri trofei conserva anche il cesto suddetto, che avrebbe accolto la testa della sfortunata Beatrice.
E forse è anche questa mancanza evidente di spoglie, questa evaporazione di resti mortali, che ha reso così pervicace, a Roma, la leggenda del fantasma di Beatrice. Una leggenda secondo la quale, la notte di ogni 11 settembre, la giovinetta si manifesta in quella piazza antistante il Castel Sant’Angelo dove fu decapitata, nell’ora esatta in cui il suo cadavere fu rimosso dal patibolo per essere portato direttamente al luogo della sepoltura.
Donatella Paradisi così descrive lo spettro della giovinetta: «Le lunghe vesti fuori moda fluttuano nel vento della sera, disegnando le forme acerbe, le lunghe gambe, le braccia sottili, il seno appena sbocciato. Una figura nemmeno tanto diversa da quella di un’infinità di giovani romane, toccate dall’indicibile magia dell’adolescenza che scivola nella giovinezza. Nemmeno tanto diversa, se non per un particolare: Beatrice tiene in mano il proprio capo reciso. Beatrice, vestita di taffettà turchino e con un drappo color argento sulle spalle, a volte è accompagnata dalla matrigna Lucrezia Cenci, anch’essa senza testa. Il fantasma compare vicino alla statua di San Paolo, il santo che subì la stessa fine di Beatrice, e che per questo è raffigurato con in mano una spada».
Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015
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