Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. Succede anche questo nell'editoria italiana. Pietro Zullino, che ho avuto la fortuna di avere come amico, scrisse questo suo libro qualche anno prima di morire.
E' un romanzo fiume, dedicato a Lucio Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi.
Zullino ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e passionalmente coinvolto, enormemente attuale nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica.
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio).
Sono dunque ben pochi quelli che hanno avuto il privilegio di leggerlo.
Nell'attesa che qualcuno - di quelli che contano (ma cosa contano?) si accorga di lui, è già stata fatta una traduzione in americano moderno del romanzo.
E a Pietro e alla sua opera è stato dedicato post-mortem un volume di studi a cui ho contribuito proprio con questo testo, su Cinzia.
Che qui ripropongo.
Testo scritto per PIETRO ZULLINO, UNA VITA PER LA SCRITTURA, Carabba, 2014
Cinzia
con i suoi occhi
di Pietro Zullino: “Chi ama può vagare”, il romanzo di una ribellione
di Fabrizio Falconi
La
fortuna dei libri di Pietro Zullino presso i maggiori editori italiani –
Mondadori e Rizzoli tanto per citare soltanto i più blasonati – durò oltre un
decennio, a cavallo tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80.
A
partire da quella data, qualcosa si spezzò: a Zullino, come ad altri autori di
quegli anni, che si erano concentrati, nella loro produzione, sulla adesione
profonda agli ideali interiori (autenticità, fedeltà, vero) invece che
all’inseguimento delle mode del momento e dei diversi conformismi del mondo
editoriale italiano, capitò di sentirsi sempre più ai margini, sempre più fuori posto, sempre meno in sintonia con
i gusti prevalenti.
Zullino, con la sua propensione per lo studio,
con il suo rovesciamento dei canoni storico-accademici, con il suo spiccato
senso per la colta provocazione che gli permetteva di leggere la realtà
contemporanea con occhi sempre nuovi, sentiva di non appartenere alla folta
schiera dei narratori per una stagione. Il
suo sguardo era rivolto all’oltre, ciò che gli premeva era la continuazione
dell’indagine del contesto storico-politico come conformazione ed estensione
delle contraddizioni individuali umane, quelle cioè celate nel cuore di ogni
uomo.
Da
questo punto quindi l’esplorazione del mondo classico e delle sue radici era
per Zullino il terreno ideale per dare corpo a quella esplosione multiforme di
ripensamenti sulla realtà che si vive (nell’oggi) e su quella che si immagina,
se è vero che proprio nei reconditi del mondo antico, e in specie nella vicenda
della Roma imperiale, è possibile rintracciare i segni sensibili e tutte le
contraddizioni del presente storico e antropologico, come scriveva Ungaretti a
proposito di Virgilio che – diceva - ci accompagna non più come un emblema ma
come uno dei fatti della nostra vita (1).
I
fatti della nostra vita, dunque,
quelli che più interessavano Zullino e che nei primi anni del 2000 lo portarono
a cimentarsi in un lungo, estenuante progetto rappresentante la summa di una meticolosa ricerca capace
di coniugare lo studio e l’esercizio linguistico – da sempre cifre
caratteristiche della sua opera – con la pura narrazione, con il disegno di un
amplissimo (e definitivo) affresco su quel mondo, il mondo degli amati classici
latini, di quei cantori che prima e
forse meglio di tutti gli altri seppero scendere nei recessi dei fondamentali
umani.
L’ambizione dunque di raccontare la storia biografica del grande Sesto
Aurelio Properzio, vissuto a Roma a cavallo dell’anno zero dell’era moderna,
capace di trascolorare in modo sublime il mito attraverso la lente della
esperienza personale più intima,
rappresentò per Zullino la chance di
cantare ancora una volta fuori dal coro, con un romanzo fatto sostanzialmente
di materia non appetibile per il
mercato editoriale e dissonante con il gusto prevalente.
Zullino, troppo avveduto per non comprendere
che un’opera di tal fatta doveva giocarsi tutto sul piano del linguaggio,
dedicò molte energie a ricercare di creare ex
novo una cifra adatta, in grado di servire ben oltre la traduzione
originale delle Elegie properziane, e di raggiungere la funzionalità della
comprensibilità e della leggibilità moderna, rispettando però la credibilità di
un racconto – e delle espressioni gergali, della conversazione – ambientato
duemila anni fa.
Lentamente così, in un alacre lavoro che durò
due anni, Zullino riuscì ad affilare il suo strumento narrativo – il
tradizionale romanzo fornito sotto le sembianze di uno stream of consciousness – in grado di esprimere tutto il potenziale
di una vicenda umana e creativa paradigmatica per i tempi moderni, inscritta
nel tempo vivente e al contempo permeato da quella interrogazione dei morti (o degli antenati), che per alcuni è il
senso stesso più originario di ogni attività letteraria.
La scelta di Properzio, come voce e
protagonista del suo romanzo, deve essere stata per Zullino quasi obbligata. Il grande poeta assisiano
consentiva di incarnare i più diversi registri che interessavano l’autore nella
stagione che abbiamo appena delineato e che in una lettera a Robert Pogue
Harrison così Zullino stesso spiegava: si tratta di far conoscere al grande pubblico un antico
poeta latino pacifista e femminista, un ragazzo, che le tribolate vicende del
pianeta hanno fatto diventare d'improvviso moderno, anzi attualissimo, mentre
per millenni è stato considerato un minore, uno scombinato libertino, un
impresentabile corruttore di giovani. Si tratta di far conoscere dall'interno,
in una dimensione minimale, familiare, quasi intima, quell'Impero finora
presentato dalla letteratura e dal cinema come una tronfia e minacciosa parata
di marmoree toghe, sciabole e corazze? O
siamo semplicemente in presenza di una storia d'amore d'un genere ancora mai
raccontato Non saprei! Perciò vedi tu!
(2)
Un ragazzo
dunque, diventato moderno, anzi
attualissimo: Properzio, che negli anni dello splendore massimo del neonato
impero, nel corso di quel quarantennio di principato di Augusto che rivoluzionò
la storia dell’Occidente, cantò in
dissonanza, fuori dai cori osannanti e dai divini poeti, Ovidio e Virgilio
scelse di occuparsi, nelle sue Elegie, soltanto della propria vita
sentimentale, di quell’irrefrenabile e ossessivo istinto amoroso, molto vicino
alla mistica, che mischia amore e letteratura, puro esistenzialismo potremmo
dire oggi, quanto di più lontano da ogni velleità o retorica di regime.
Properzio,
agli occhi di Zullino, è attualissimo perché somigliano molto ai nostri quegli
anni imperiali, in cui il pensiero sembra essersi fatto unico, al servizio di
un fasto troppo evidente per essere messo in discussione, al punto tale che la
persona stessa dell’Imperatore è ormai assimilata alla divinità e divenuta
oggetto di culto personale. Anni in cui
la crudeltà contro ogni forma di dissidenza
– morale e politica – è divenuta evidente e manifesta, oltre che legale; anni
che registrano il parossismo del potere spietato e corrotto delle corti
imperiali, divenute protagoniste di ogni decisione sui destini privati e
collettivi. Tutto si decide nei Palazzi Imperiali. Tutto ciò che si svolge
fuori è ininfluente o inutile: fuori sono rimasti solo gli spettatori, che assistono ai riti trionfali e selvaggi delle
battaglie vinte e delle conquiste, dei saccheggi e delle legislazioni, degli accumuli
delle immense ricchezze e della espansione di una politica di acquisizione che
si è posta come obiettivo il mondo intero.
In questo quadro, Properzio è un marginale. E’ giovane e dotato di
talento, e gli riesce anche di scalare i gradini della popolarità, di mettere
piede nel circolo che conta,
nell’entourage del grande Mecenate che decide i destini della cultura, di chi
conta e di chi no, di chi serve alla causa e di chi è inutile e deve essere
ignorato. Ma questo ingresso, di
Properzio, nei circoli che contano – e che non sono poi molto diversi da quel
che resta dei salotti mondano-letterari convenzionali degli intellettuali di
oggi - è un ingresso da clandestino. Properzio non è uno di
loro. Lo penalizzano le sue origini, da provinciale
– è nato ad Assisi – la sua infanzia difficile, le crudeltà della guerra civile
alla quale ha assistito, la sua fervida
sensibilità, le condizioni di povertà con cui si presentò a Roma intorno
all’anno 30 a .C.
con l’intenzione di dedicarsi agli studi di diritto.
Un parvenu,
si direbbe oggi, ma anche un carattere molto forte, difficilmente incline a
scendere a patti: disposto ad essere accettato nei circoli, ma solo alle sue
condizioni.
E’ questo dunque che ha rappresentato per
Zullino, lo spunto e il personaggio ideale dal quale partire, da ritrarre a
tutto tondo, in diretta e in prima persona, per raccontare qualcosa del mondo
di oggi – mondano, letterario e politico – che conosceva ormai molto bene: Roma
antica, con la sua meravigliosa lingua sepolta e mai morta, per Zullino terreno
ideale di approfondimento e di studi, dall’età del liceo e fino alla morte,
diventava anche il mezzo per ridare vita al presente.
E’ la sintesi del processo catartico che
contraddistingue ogni vero atto creativo, così sintetizzato da Jung: Qual è l'elemento
risolutivo ? E' sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa
di nuovo, perché quando una cosa passata da molto tempo ritorna oggi, in un
mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un'epoca nuova significa
creare. E' la creazione del nuovo, ed essa mi redime ... Il compito è partorire
ciò che é vecchio in un tempo nuovo ... Non c'è parte della ruota che non
ritorni. Perciò tutto ciò che è stato tornerà a riaffiorare e quello che è
stato sarà di nuovo. Tutte queste cose sono infatti qualità congenite
dell'umana natura. Il ritorno di quel che è stato fa parte della natura del
movimento in avanti. Solo gli ignoranti possono meravigliarsi di questo.
Comunque il senso non risiede nell'eterno ritorno dell'eguale, ma nel modo in
cui esso viene ricreato nel tempo. (3)
E’ così dunque che Zullino, come vedremo, con
Cinzia ha saputo vincere la sua scommessa: quando
una cosa passata da molto tempo ritorna oggi, in un mondo mutato, è nuova. Così
dunque appare la vicenda di Properzio che non si presenta a noi con la sua marmorea toga – come era nella
preoccupazione dell’autore – ma in una veste completamente nuova, ri-creata
(nel senso inteso da Jung): Properzio non è più un poeta latino alla ricerca di
una affermazione personale nella Roma Imperiale, ma è un ragazzo prima e poi un
uomo di oggi, innamorato e disgustato
del mondo al contempo – come sono molti ragazzi di oggi, disperatamente succube della leggenda dell’eros e del suo
incantamento che tutto riduce e tutto sottomette, come molti ragazzi e molti
uomini di oggi, in perenne lotta con
l’arroganza dell’istituzione e con i riti delle caste e votato all’autorovina o
all’autolesionismo, come molti ragazzi e molti uomini di oggi.
Zullino, per
presentarcelo, non ricorre a particolari artifizi. Lo fa entrare in scena, in
prima persona parlando di Cinzia con una semplice confessione che lo rende
immediatamente riconoscibile, familiare, simile: Aveva trent’anni, undici più di me, ed era sessualmente molto avida,
quindi ogni tanto cadevo nel delirio della gelosia. E quando cadevo nel delirio
della gelosia maledicevo la mia giovinezza e la mia ingenuità. (4)
E’ l’inizio di una
epopea che copre cinque anni della vita del poeta, cinque anni nei quali
assisteremo – nello stesso tono appassionante del racconto in presa diretta – alla irresistibile ascesa del giovane
provinciale che, alla pari di molti
altri rampanti d’epoca più recente, con un libro di Elegie appassionate – il Monobiblos diventa di colpo famoso, una
celebrità nella Roma imperiale, tanto nei salotti letterari come in quelli
mondani dove fa scalpore, scandalizza e appassiona il torbido rapporto con la
bellissima e vorace Hostia/Cynthia,
cortigiana del Senato romano.
Chi è questo giovane esuberante che si lancia
a peso morto nel rapporto con una compromessa e seducente matrona, per di più
molto più grande di lui ? Come ha trovato il coraggio di denunciare il suo
folle amore, le sue sconsideratezze, di descrivere minuziosamente il fascino
della corruzione e i sentimenti dilanianti di gelosia e repulsione che una
donna come questa ha il potere di esercitare, raccontando un cammino di
autodistruzione così evidente ? Donne così sono sacre per l’eros, ma nessun
uomo di buon senso, nessun uomo rispettabile aprirebbe loro il cuore.
Già dal primo
capitolo del libro siamo dunque introdotti in questa prospettiva estrema: Properzio e Cinzia si conoscono
da tempo, si amano liberamente, appassionatamente, disperatamente. Properzio è
solo uno dei molti amanti di Cinzia, ma lei si sente legata a quel giovane
bizzarro e ostinato che possiede il dono della poesia. Properzio la ama di
amore carnale e appassionato, ma vorrebbe anche appropriarsi della sua anima,
visto che nel corpo Cinzia non può essergli fedele. Ed è inutile ribellarsi
contro lo squallore di quella vita, anche se Properzio non può fare a meno di
farlo e anche se – per massima contraddizione – è egli stesso un cliente (seppure presumendo di sentirsi
differente dagli altri) di quella professione.
E’ dalla differenziazione dalla poesia
dell’Impero, dalla poesia dominante, dalla poesia dei maestri Virgilio e Orazio
e dal modo di Lucrezio, che capitolo dopo capitolo, cominciamo ad afferrare
cosa significhi Cinzia, cosa significhi l’amor
fou per questa donna per il giovane
poeta Properzio: conoscerla, amarla, scrivere di lei, significa percorrere un
sentiero iniziatico dal quale non si torna più indietro. Il poeta ripudia i
suoi stessi versi, scritti fino a quel momento, per mestiere o per intrattenimento:
roba da chiodi, versi che chiunque –
chiunque, servo dei greci – potrebbe
scrivere. Versi senza ispirazione e senza verità.
E non è un caso dunque che i primi versi di
quelle nuove elegie, di quel nuovo canto – originario e vero, il canto che
sconvolgerà Roma - scaturiscano dalla
contemplazione del corpo nudo di Hostia che dorme. E’ in quel momento, il momento nel quale Properzio
si è introdotto in casa di lei, come un ladro ebbro, che avviene il miracolo,
il miracolo creativo, che farà la fortuna
del poeta. Properzio la guarda dormire, è tentato di solleticarla, di ricavare
da quel corpo solo un nuovo intermezzo erotico. Poi però, rendendosi conto che
lei non si sveglia, le dedica un’ode: finché la luna, la vigilante luna
dall’assorto/ chiarore, coi suoi lievi raggi gli occhi ti schiuse… (5)
Cinzia, risvegliata
come una principessa, dalla luna e dai versi del poeta, è dunque la promotrice del successo che sta per
incombere su Properzio: è la verità di quei versi – portati all’attenzione del talent scout Asinio Pollione a generare
la fortuna del poeta, il suo ingresso nel circolo nobile dell’inteligentsia imperiale. Raccontando la vera vicenda del suo erotico disperato amore e della sua vita,
Properzio si candida a divenirne l’eroe, il protagonista auto-distruttivo.
Le prossime tappe saranno facili da bruciare:
basta riuscire a farsi invitare alla festa nella splendida villa di Orazio,
fuori città – impresa certo non da poco visto che deve farsi passare per lo
schiavo del suo amico d’infanzia – dove sono allineati tutti i più importanti
protagonisti della scena letteraria romana (Virgilio con Messalla e Mecenate),
basta scandalizzare al momento giusto i presenti, insultando apertamente
l’intoccabile Orazio, accusandolo addirittura di aver millantato le sue vere
origini romane, nascondendo invece le scandalose ascendenze ebraiche, per
manifestarsi come un pazzo, un ribelle, uno scriteriato. Qualcuno però che, evidentemente, ha qualcosa da dire. E non ha nemmeno paura
di dirlo.
E’ eloquente a questo punto, proprio sul
finire della scena madre dello scandalo in casa di Orazio, la lezione che
Zullino mette sulla bocca di Pollione – Gaio Asinio Pollione, uno degli uomini
più eruditi di Roma, che Properzio individua subito come un maestro del pensiero libero: “I sani principi vanno sempre riaffermati e
con forza, altrimenti non ne giungerà contezza alla mente dei giovani, e tutto
si livellerà verso il basso.
Essere o parlare ?
Rispondo: è più importante parlare. Non si deve essere per forza essere così o
cosà. Solo parlare è veramente necessario, parlare cosà intendo, dove cosà sono
i sani principi. Parlare cosà per tener viva la fiamma del voler vivere cosà,
tua e degli altri… Ma bisogna che i parlanti siano…”(6)
Sembra quasi un manifesto programmatico: è più
importante parlare. Non stancarsi mai di dire, di affermare, di ribadire anche
quando l’evidenza e la convenienza suggerirebbero di tacere. Non si tratta solo
di gusto per la provocazione, ovviamente. Si tratta di amore per la verità,
contro l’ipocrisia degli uomini, contro la loro proverbiale tendenza ad
irreggimentarsi, a schierarsi obbedendo alla legge del più forte di turno.
L’accusa folle – l’allusione fatta in pubblico
per sottintendere le origini ebraiche di Orazio – è necessaria soltanto per
smascherare l’ipocrisia sulla quale è fondato lo stesso Impero: che i destini
degli uomini dipendano dalle loro origini, dalla loro razza, dai loro antenati,
e questo può decidere in un senso o nell’altro le loro vite, rovinandole per
sempre.
Properzio è dunque colui che follemente si mette di traverso, vuole sparigliare, far
saltare il banco: lui, un piccolo provinciale, un parvenu tollerato solo perché fino a quel momento irrilevante. Non tanto paradossalmente è
proprio uno nella sua condizione – uno che non ha niente da perdere – a poter
dire quello che nessuno potrebbe dire, se non altro per il favore che il divino
Orazio godeva presso la corte imperiale e presso l’onorabile Mecenate, una
specie di ministro plenipotenziario della cultura del tempo.
Properzio, in omaggio allo spiccato senso di
autodistruzione che lo anima, non ci
pensa due volte: sa che il prezzo da pagare sarà alto, ma il coraggio non gli
manca. E Hostia – come ogni donna che sa
amare e che sa riconoscere il coraggio negli uomini che ama – dopo questo gesto inconsulto, sarà ancora più sua, ancora
più conquistata, ancora più musa: ha
capito che il giovane scapestrato poeta è fatto di una stoffa diversa da quella
della stragrande maggioranza degli uomini, sottoposti o potenti, che accoglie
nella sua alcova ogni notte.
Il Properzio di
Zullino – è impossibile non pensare a quanto di auto-biografico dovesse esserci
in questo (non dimentichiamo fra l’altro che Zullino pubblicò il romanzo senza indicare
il proprio nome, il nome dell’autore in copertina, ma firmandolo semplicemente
col nome di Sesto Properzio – teorizza
come meglio non si potrebbe, la volontà di auto-distruzione o meglio di
auto-rovina che lo anima. Auto-rovina
che non si deve commettere l’errore di lasciar arrivare inattesa, perché è ben
noto e risaputo che la rovina è un evento
ineluttabile e inscritto nel destino di ogni individuo, quindi anche nel tuo. E
allora il segreto è quello di scegliersi la propria rovina, di farsene
demiurgo: se invece la rovina te la vai a
cercare – infatti – puoi gestirla,
assumerla in dosi ragionevoli e trarne un raffinato piacere. Puoi autorovinarti
anche cinque o dieci volte nella vita, e siccome il comandante sei tu, ogni
volta ne vieni fuori, pronto a ripetere l’esperienza. (7)
La possibilità
concreta di questa raffinata autorovina si manifesta a Properzio sotto forma di
un crudele scherzo del caso: il nobile Cecilio Ippico, uno dei tanti clienti
della bella Hostia, facoltoso e vanesio, decide di portarla con sé in un lungo
viaggio in Illiria. Non vi sarebbe nulla di strano per una prostituta d’alto
bordo come è Hostia. Ma è invece il punto di rottura per Properzio che già ha
identificato in questo mestiere così inaccettabile – per lui, non per tutti –
il motivo per rivoltarsi all’ipocrisia imperante, che vede ovunque intorno, che
tutti abbracciano entusiasticamente e che pure bisogna far saltare in
aria. L’occasione è dunque offerta da
Messalla – c’è sempre qualcuno disposto a speculare sulla tua autorovina – che non solo per amore
dello scandalo decide di incoraggiare l’ira funesta di Properzio, ma anche per ricavarne soldi e soprattutto per
colpire il rivale Mecenate. Dalla
perfida provocazione – Properzio scriverà una intera Elegia-invettiva contro
quel viaggio e sull’infamia del lavoro di Hostia e di coloro che lo sfruttano –
tutti avranno da guadagnare, come spiega lo stesso Messalla a Properzio: Tu scrivi la prima elegia, noi la
pubblichiamo e la mandiamo in giro. Il
miscavallo (cioè Cecilio Ippico, n.d.A.) si prende paura, si sente messo in piazza… E noi gli facciamo arrivare
all’orecchio che il Principe è personalmente seccatissimo di questa cosa,
perché si è risaputa, e dal momento che si è risaputa fa scandalo… Allora
Ippico dice a Hostia: dal Palazzo mi guardano storto, non posso più portarti a
Sciscia, cara mia… Lei resta con un palmo di naso; a questo punto tu pubblichi
la seconda elegia e la gente viene a sapere che l’amore ha vinto… (8)
Naturalmente le cose, in omaggio
all’autorovina che aspetta al varco Properzio e che egli stesso segretamente
auspica, non andranno affatto così: lo scandalo in effetti si propaga
immediatamente, Cecilio Ippico parte lasciando a casa Hostia, per l’imbarazzo
di essere stato tirato in ballo pubblicamente, Properzio ha la sfacciataggine
di pubblicare la risposta dell’amante, che per suo amore, rinuncia a partire – Cinzia non partirà! Crepino i miei nemici/
Vittoria! Alle preghiere non ha retto!/Preferisce dividere con me/ un augusto
letto/ e in qualunque modo essere mia/che avere d’Ippodamia/la ricca il regno e
i beni – Hostia è ormai completamente rovinata come cortigiana del senato.
La sua reputazione diventata lo zimbello di Roma intera, perde tutto: il
rispetto nascosto che si deve a chi si occupa del piacere dell’Impero, i
favori, i privilegi, la bella villa all’Esquilino che ha visto il transito dei
migliori spiriti di Roma, sui cui
muri appaiono perfino le scritte lasciate a vernice rossa a estremo dileggio: qui abita Cinzia grande zoccola dell’urbe con
la firma mentula propertii (il membro
di Properzio).
La rovina di Hostia coincide paradossalmente
però con il successo straripante di Cinzia, del personaggio letterario, di cui
ormai tutta Roma sa tutto e favoleggia, e del suo creatore Properzio, divenuto
adesso famoso e celebrato da quel potere notabile letterario che ha sempre
aborrito e avversato.
Il successo delle
due elegie, delle due invettive contro l’amante e la ragione del potere
corrotto permettono infatti a Properzio di affrancarsi dalla marginalità, dalla
irrilevanza di poeta maledetto ante litteram,
passando per la porta principale: il potente Messalla gli concede l’ingresso
nella propria cerchia, lo mette a libro paga, lo fornisce perfino di una casa
in uno dei quartieri ricchi di Roma: il parvenu
Properzio è dunque divenuto rispettabile,
la sua formazione è finita, le porte
del successo – garantito dalla pubblicazione della prima raccolta di Elegie
sotto il titolo di Monobiblos – gli
si schiudono e gli promettono, o gli prometterebbero, se non conoscessimo
l’indole che si muove in lui irrefrenabile, lunghi anni felici, da protagonista
a pieno diritto nella coorte dei letterati dell’Impero, magari su di un gradino
inferiore rispetto ai divini, ma pur
sempre in posizione di privilegio, per uno come lui, per uno con le sue
provenienze.
Hostia, dal canto
suo, è rovinata, deve ricominciare tutto da capo: e non può non dare la colpa
di quanto successo a quello scapestrato folle che ha accolto come amante e al
quale forse ha semplicemente concesso la debolezza di un trattamento diverso
rispetto alla neutralità che bisogna assicurare a un cliente pagante, chiunque
esso sia.
Non le resta dunque
che ripartire da zero, da quel che sa fare, dall’unica cosa che le riesce:
sedurre, circuire, blandire, portare gli uomini al punto di estasi e di non
ritorno, permettere loro di dimenticare le crudeltà e le miserie, le
corruzioni, perdersi nel nirvana assicurato dall’eros, garantire un
soddisfacimento totale e completo: questo lei può offrire. Da qui,
ricomincia. Nel suo nuovo bordello, non si farà gli scrupoli del
passato, si concederà, anzi, perfino ai figli dei suoi vecchi clienti, oramai
divenuti uomini. Saranno loro i futuri senatori, e lei la nave scuola di quel che c’è da imparare nelle cose del sesso, negli
affari femminili.
E in questo nuovo
bordello, come è ovvio, ci sarà posto anche per lui, anche per Properzio. Ma
stavolta, sarà un cliente come gli altri, alla stessa stregua degli altri:
nessun sogno romantico, nessuna concessione particolare, nessun favore. Hostia
concederà il suo corpo. E Properzio, che non può farne a meno, come un tossicodipendente, sarà disposto ad
accontentarsi, in mancanza di meglio, anche di questo.
Ma com’è cocente la
delusione, quando, fermandosi per la prima volta a cena da lei, dopo tanto
tempo si sente dire, sprezzante, in riferimento ai clienti blasonati Planco,
Enobarbo, Frugi e Ippico:
“Loro erano clienti di riguardo, tu sei un’altra cosa. Con te
faccio alla buona, sei stato il mio amico.”
Properzio quasi non
crede alle sue orecchie: “Sono stato?” Pensa
che il paradigma al quale Hostia sta pensando è ancora quello economico. Si
umilia allora di fronte a lei, dicendole: “Senti,
Hostia, al malestro economico c’è rimedio… Pensa che ho già disposto la
pulitura del muro che ti hanno sporcato. A mie spese ! E guarda che te ne verrà
ben altro. Ho protettori formidabili ora. Mica solo Messalla ! Niente ci
mancherà. Non ti farò mancare niente.”
Ma la vendetta
dell’amante tradita si consuma nel più amaro dei modi. Invitando Properzio a fare l’amore al suo modo, gli dimostra la sua
inequivocabile freddezza. E’ il corpo di Hostia a dimostrare come un manifesto
cosa è successo. “Adesso lo sai cosa ti
sei giocato”, gli dice beffarda nel silenzio post-coitum, “adesso fa’ una doccia e vattene mio caro,
lasciami in pace. Riprendi roncola e cavallo e tornatene a Roma. Quel che avevo
da dirti te l’ho detto.”
A nulla vale la
supplica di Properzio: “Ma Hostia io ti
amo!”
“No, hai creduto. Invece non mi amavi. Bevabbè mica eri
obbligato! Coraggio, la vita è lunga, maturerai..”
“Che farò senza di te?”
“Che farai non so. Forse il burrattino… “
Disse proprio così – commenta lo sconcertato Properzio – burrattino con due erre, segno che l’alcol
la faceva tornare alle origini, a quando la ragazza del Lavernale invece che
sedie diceva ssedie e invece di uomini diceva òmeni. (9)
E’ la sconfitta di
Properzio. Che non riesce a darsi pace.
E che, come un puer aeternus, non
riesce ad accettare che il giocattolo gli sia sfilato tra le dita. Ha
sbagliato, d’accordo: ma perché non gli può essere concessa una nuova chance ? Perché Hostia non gli dà la
possibilità di dimostrare che lui è – e resta – diverso da tutti gli altri ?
Ciò che a Properzio
interessa, è che non venga spezzato quel foedus,
quel patto d’amore tra gli amanti che è ben più forte del vincolo
matrimoniale, più forte e più nobile, perché scelto liberamente giorno dopo
giorno e vero nutrimento della passione e dell’erotismo. In questo sta la
modernità di Properzio – che Zullino fa sua e che fa rivivere in un racconto
vivido di gusto pienamente contemporaneo -
Cinzia del resto non è nella poesia del grande poeta latino una icona
vuota, una semplice figura poetica, ma l’espressione di una concreta esperienza
d’amore, vissuta fino in fondo. Cinzia è esistita veramente, sono esistite
davvero quelle malie che nell’anno 29 prima di Cristo conquistarono il giovane
poeta, conosciuto grazie a Licinna, una schiava che proprio per Cinzia
lavorava, e che era stata la prima a prendersi cura di lui.
La scelta di
Properzio di mettersi completamente in gioco, in questo amour fou, rappresenta per Zullino il manifesto ideale contro ogni
compromesso, contro ogni convenienza,
ogni ipocrisia. Nella vita non si è
scelti, si sceglie sempre e sempre si deve scegliere, senza calcoli e senza
risparmi: come fa un giovane innamorato, come fa qualcuno che non ha nulla da
guadagnare e ha messo in conto anche di
perdere se stesso.
Alla lunga, il
tormentoso amore con Hostia prende nuovamente il sopravvento. Quando Properzio
viene picchiato per causa sua, e quando viene perfino espulso dal Clivo, ecco che Cinzia si ripresenta,
apparentemente solo per sincerarsi delle sue condizioni: Beh ti hanno conciato come meritavi, le tue ferite non sono però da
morirne, quindi ora ti saluto, il mio dovere l’ho fatto!
Tanto basta a
Properzio per realizzare che l’amore era
forse tornato. Come il più
scanzonato degli chansonnier, il
ritorno dell’amore coincide con il ritorno dell’ispirazione poetica. Per
tornare indietro, il poeta è pronto perfino a mettersi in fila come un cliente
qualsiasi, ad aspettare pazientemente in fila per via Raudusculana, dov’è il
bordello di Hostia. E quando lei si ammala gravemente di meningite, Properzio
che rischia di perderla per sempre, si rivolge perfino al Dio al quale non
crede, quel Dio che se c’è, è profondamente
ostile al genere umano, anzi ostile a tutto il creato; pronto ad immolare
perfino sacrifici di fronte a quell’ Amministratore
del Fato, che gli altri uomini – e non lui – chiamano Dio.
Quando Hostia
guarisce inizia il primo vero periodo di serenità per i due, di tenero abbandono: lei non può
esercitare, e questo rende Properzio felice di averla tutta per sé, finalmente.
Possono perfino simulare una vita di coppia, ricevere ospiti, fare salotto,
intrattenersi sull’ultima lirica di Orazio, della quale Properzio – pur con
l’antipatia e la disistima personale per il conformismo del suo autore – non può non riconoscere l’altezza sublime.
Ma come è scritto,
la felicità dura poco. E il fato
contrario si manifesta con il ritorno del ricco Ippico d’oltre Adriatico, per
le vacanze d’inverno a causa dei primi freddi. Properzio ha un bell’augurarsi
che la nave che lo riporta indietro faccia naufragio. Eccolo invece tornare a
Roma e riproporsi ad Hostia, con argomenti ancora più persuasivi.
La donna, ancora una
volta, è combattuta: l’inerzia delle cose la porta fatalmente e nuovamente tra
le braccia di Ippico, che la ricambia proponendole una posizione di potere nel
suo governo provinciale e perfino un matrimonio clandestino.
E’ l’occasione, per la prostituta ripudiata da tutti, di riscattarsi definitivamente, di acquisire un posto definitivo e rispettabile nella società, di stabilirsi, mettere un punto alle follie degli anni, rispondere al richiamo della maturità che – come scrisse il Bardo – è tutto.
E’ l’occasione, per la prostituta ripudiata da tutti, di riscattarsi definitivamente, di acquisire un posto definitivo e rispettabile nella società, di stabilirsi, mettere un punto alle follie degli anni, rispondere al richiamo della maturità che – come scrisse il Bardo – è tutto.
La storia potrebbe
avere termine e Properzio potrebbe finire come uno dei tanti amanti infelici, a
cantare il suo amore infelicemente tramontato.
Ma non è nella natura dell’uomo: non così lo immagina Zullino. L’ostinazione, la convinzione di poter
lottare fino alla fine contro il Fato, non si fanno certamente scoraggiare
dall’ennesimo cambio del vento.
L’autolesionismo di
Properzio, che mira al risultato di una completa auto rovina, giunge così alla
determinazione di ripetere lo stesso copione, con gli stessi mezzi e con ancora
più crudeltà: proprio quando Hostia sta per accettare la proposta di Illirio,
eccolo dunque produrre una invettiva simile alla precedente (è l’Elegia II.XVI)
e ancora più dura nei toni:
Dal paese d’Illiria torna, Cinzia, il pretore/ scrive Properzio
mentre non riesce a trattenere le lacrime,
fagli il servizio, tosalo a
dovere/ tu che soppesi le tasche degli amanti!/ Per te è una grossa preda, per
me un grave affanno.
E poi, senza
vergogna, confessando i segreti più intimi, in un’altra elegia (Sotto la lucerna): Guardate i morsi sul mio collo/ e tutte queste lividure./Cinzia è con
me, è mia;/ Non v’è donna che faccia così se non per struggente passione!/
Quella dalla cui bocca prorompono bestemmie,/ quella che si contorce/ai piè di
Venere/ io l’ho imparato:/è prova indiscutibile d’amore! (10)
L’eterno uguale
ritorna: l’effetto voluto non tarda a manifestarsi, il nuovo scandalo scaccia
Ippico che si vendica nel modo più consono ai suoi modi, riprendendosi
la villa di Tivoli che aveva intestato ad Hostia, riappropriandosi
perfino dei due custodi che aveva
lasciato ad occuparsi di lei. Cinzia,
senza i ricchi protettori di una volta, è nuovamente sul lastrico e anche se
Properzio è pronto ad offrirle accoglienza, a proporle nuovamente una vita
insieme, senza più separazioni, senza incertezze, intraprende stavolta il
cammino definitivo verso la dissoluzione, che avverrà a veloci tappe
successive: fallirà il bordello autogestito, divorato dai debiti che Hostia non
riesce più a pagare, si apriranno per
lei le porte della strada, non le resterà che vendersi in un casino collettivo, per assolvere ai suoi
creditori, rifiutando strenuamente ogni aiuto dall’uomo che l’ha amata e che
per due volte l’ha rovinata. Raggiunto
il punto più basso nella scala della rispettabilità sociale e della bellezza,
che ormai l’ha abbandonata, Hostia finirà
i suoi giorni malata, non restandole altro che sopravvivere, immortale, nei
versi di quell’uomo che l’ha condotta al disastro.
Non prima però di
suscitare altri proclami, altre invettive, altre dichiarazioni d’amore assoluto
ed eterno, nel cuore del poeta: non era
mai accaduto che per una stessa donna fossero state scritte, musicate o almeno
pensate più di novanta canzoni d’arte e d’amore. Mai nella poesia, mai nella
storia del mondo ! Catullo era stato un principiante rispetto a me ! constata
Properzio, prima di redigere l’elegia ventiquattro, la più terribile di tutte,
scritta per consumare la vendetta definitiva e per profetizzare alla derelitta
la giusta fine che la aspetta.
A che ti serve ora il pianto ?/ le tue lacrime sono
tradimento/ma non t’illudere, amica, è finita!/Non hai voluto ! E adesso abbi
paura!/ Ti verrà reso il male che m’hai fatto!
(11)
Un modo per chiudere
i conti con Cinzia, la donna di carta,
che ormai vive di vita propria nell’immaginario: Properzio ne ha fatto una
eroina tragica, di cui tutta Roma sa, e a cui deve essere assicurata una fine acconcia.
Fatti i conti con
lei, a Properzio resta Hostia, la donna
di carne, ed è tutt’altro affare: accadono rapidi e dolorosi avvenimenti,
una improvvisa e non voluta gravidanza - un figlio che Properzio scopre di
attendere da Licinna - un ripudio, il primo viaggio in mare per raggiungere
Hostia e poi ritrovarla in Egitto, ad Alessandria, un terribile sogno
premonitore che annuncia la tragedia imminente, l’arrivo a Baia, via terra da Pozzuoli,
per scoprire che Hostia è “morta (di febbre)
da pochi giorni”, sussurrando il nome del suo ragazzo di Roma, il ragazzo più
bello del mondo, il poeta..
A Properzio non
rimarrà che piangere il suo amore, dopo aver a lungo cercato e trovato la tomba
dell’amata, sulla chiassosa via Tiburtina, in saliscendi da Tivoli verso
Vicovaro, prima di essere arrestato e spedito al confino, quel confino – la
Corsica – da cui sappiamo ora che il vecchio Properzio, trent’anni dopo, sta
scrivendo le sue memorie.
Il nome del poeta è
ormai bandito, i libri sequestrati, come gli scrive l’amico Pollione,
ufficialmente è ormai morto, per tutti. Forse morto in mare mentre scappava in
Egitto, comunque morto, e il suo nome destinato a damnatio memoriae, com’è nel destino di chi ha speso la sua giovane
vita per combattere un sistema.
Le lettere di
Pollione sono l’ultimo contatto col mondo reale. Properzio, ormai
cinquantasettenne, da lui viene a sapere della morte del divino Virgilio, da
lui viene a sapere, che dopo lunghi anni di oblio anche le sue Elegie, le
elegie composte per Cinzia, stanno conoscendo una nuova, inaspettata,
riscoperta, nel nuovo corso
dell’Impero.
Properzio va incontro
alla morte, convincendosi filosoficamente – lui che non crede in Dio e
tantomeno in un Dio consolatorio - di essere felice di morire, e convinto che
questo momento arrivi quando non hai più
legami in ‘sto Aldequa.
Per questa voglia de andanza non devi avere più legami col
mondo; nulla da rimpiangere… La paura della morte un solo modo hai di non
averne: essendo rimasto solo al mondo e senza figli !
Finisce la sua
epopea amaramente – in pagine di vagheggiata, meditata auto-eutanasia che anticipa alcuni dei temi che si ritroveranno nel
successivo libro di Zullino dedicato alla vita di Ippocrate – recitando il
solito mantra, l’ossessione intera di
una vita anche con le ultime parole: Tu
che l’hai conosciuta proprio bene e hai conosciuto le altre donne al mondo,
dìme Topo (è il nomignolo dato ad Ovidio, l’amico di una vita), Cinzia mi fu fedele..
Non è più nemmeno
una domanda, solo una farneticazione.
Alla fine del
racconto, così drammatico, così vero, resta nel lettore l’interrogativo di
quanto e come abbia giocato l’espediente, l’invenzione narrativa, nell’opera e
nelle scelte di Zullino, e quanto la verità
storica dei fatti. Se non c’è ragione di dubitare della realtà di
Cinzia, se sulla corrispondenza di
Hostia – la donna romana che aveva un antenato poeta, Hostius, autore di un poema storico scritto nel 129 a.C. - con la Cynthia di Properzio, come testimonia
Apuleio nella sua Apologia 10, non sembrano esistere più dubbi (12), si
capisce ancora meglio come la sfida di inventare nuovi particolari, di sceneggiare i particolari di una vicenda
conosciuta e conoscibile solo per frammenti abbia intrigato un autore così
raffinato come Zullino.
D’altro canto
l’epilogo scelto – il confino in Corsica –
è solo un artificio letterario necessario per dotare di un finale una
storia biografica come quella di Properzio, che nella realtà è un semplice
punto interrogativo, non esistendo come sappiamo, alcuna notizia certa su di
lui posteriore al 15 a.C., data in cui si presume sia morto, quindi ancora
molto giovane quando aveva intorno ai trentacinque anni.
L’espediente di un
Properzio vecchio permette però a
Zullino quella chiosa amara, rivendicativa e soccombente che è la cifra
complessiva della sua, di Properzio, intera esistenza di artista e testimone di
ogni umana miseria, nell’epoca per molti aspetti più fulgida della millenaria
vicenda di Roma antica.
Dopo la sua morte,
la damnatio per Properzio fu, com’è
noto, effettiva e spietata. Come scrive lo stesso Zullino nella bandella del
volume: Accadde dunque a Properzio di
venir dai pedagoghi accuratamente mal tradotto, travisato, censurato, proprio
nel timore che si rivelasse ai giovani
per lo scomodo poeta che è, da diavolo in corpo, miracolosamente
moderno, quindi ben più attrattivo dei canonici, patriottici, rassicuranti
Virgilio e Orazio. Nel Medioevo
cristiano scompaiono anche le sue colpevoli Elegie. Quando Petrarca nel ‘300 le ritrova, dal potere ecclesiastico è
anatema. Nei licei d’Italia unita non si leggeranno. E anche oggi chi visita Assisi – sede della
teocrazia francescana – si accorge che la città natale non ha osato dedicare al
suo scandaloso figlio un monumento o una piazza o una via del centro urbano:
bisogna cercare extra moenia, varcare
le mura.
In realtà a parte
quella di Petrarca, la riscoperta vera e propria di Properzio in epoca moderna,
quella che ne rinnovò l’interesse e lo studio, e certamente più vicina allo
spirito con cui anche Zullino si è accostato alla sua figura, è quella fatta da
Ezra Pound, che nel 1918, con il folgorante Homage
to Sextus Propertius, rielabora e reinventa alla sua maniera la poesia del
grande latino, adattandola a quella nuova lingua in creazione che troverà poi
la sua effettiva misura con i Cantos.
A Pound poco
importava della fedeltà all’originale e del rispetto dei canoni della
traduzione, tanto da suscitare l’immediata levata di scudi dei vecchi latinisti
anglosassoni quando quel testo apparve su Poetry.
I suoi marchiani errori non potevano
e non possono essere frutto di ignoranza. Come è stato fatto notare, o Pound pretende realmente di tradurre dal
latino pur non conoscendo neppure le desinenze, oppure a lui non interessa
affatto il rapporto che si stabilisce fra i termini della frase latina, né l’accordo
tra aggettivi e sostantivi, né la struttura stessa del periodo. E’ invece la contiguità dei termini
nell’originale che lo stimola a creare immagini ad effetto. (13)
Zullino,
nell’affrontare la vita di Properzio – inclusa la scelta di inserire nel
racconto auto-biografico le Elegie (e
come si sarebbe potuto non farlo, visto che esse, più di ogni altra cosa ci
parlano della sua vita reale ?) – individua una strada diversa, scegliendo di
restare fedele al testo poetico, al testo delle Elegie (attingendo alla conoscenza consolidata e continuata con la
lingua latina) e inventando però completamente la lingua del racconto, la
lingua narrativa, in una cifra assolutamente originale e perfettamente
funzionale allo scopo del romanzo, che è – come abbiamo visto – quello di
conferire modernità, di rendere moderno, di rendere contemporaneo e dunque
prossimo a noi, un poeta vissuto duemila anni fa.
Ecco dunque che la
invenzione e l’affinamento di quella lingua speciale – di quell’italiano di strada – deve aver molto impegnato Zullino nella
elaborazione dell’opera. Di esempi di questo tipo – il racconto mediante una
lingua contemporanea e di strada, di
una vicenda artistica del passato e del trapassato – ne esistono pochi nella
storia della letteratura italiana, e ancor meno di felici.
A Zullino
interessava indubbiamente trovare questa voce,
questa voce originale: la voce di
Properzio. La voce mediante la quale
restituire voce ad un grande poeta morto, ad un impresentabile, che mettendosi sulle spalle la responsabilità del
proprio anticonformismo, seppe anticipare – secondo Zullino - le successive anime stilnovista, romantica,
naturalista, esistenzialista maudit,
attraversate dalla letteratura nei secoli successivi.
E di questa
preoccupazione – del trovare la voce giusta, il giusto ritmo, che non stoni,
che non risulti del tutto inappropriato e che nemmeno però tenda a prevalere
sugli scopi del romanzo – c’è traccia nei carteggi di Zullino con gli amici.
Lucio Mariani,
l’amico poeta, che ha condiviso con Zullino gli studi classici e una vita
intera gli scrive, dopo la lettura del manoscritto, ancora in bozze:
Ho
portato a compimento con impegno e attenzione la lettura di Cinzia. Te lo
dovevo. Dico subito che è un'opera
importante che riflette tutti i meriti dello scrittore e molti di quelli
dell'uomo. A mio modo di vedere potrà rappresentare il Tuo capolavoro se vorrai
attenerTi ad alcune indicazioni che avanzo con affettuosa umiltà. …
Inutile sottolineare quel che già sai: il romanzo è, in larghissima misura, scritto
splendidamente. Tuttavia devi
sottrarTi all'impressionismo
di maniera, alla tentazione dell'operetta
gaddiana. Perché se è accettabile
- e anzi è buona
cosa - l'alternanza "alto/basso" nell'intersecarsi degli
interventi legati ai molti personaggi, non è ammissibile il ricorso
a modernismi, ad
anglismi e francesismi, a
locuzioni gergali - giovanili,
a richiami dialettali, a
alterazioni regionali … Il romanzo -
nella sua sostanza - racconta l'amore
nella sofferenza e
nell'esaltazione, Dio nel
ruolo degli inganni,
la donna nel suo
valore e nell'essenza, la poesia e il poeta (grande 'fingidor’,
avrebbe detto Pessoa), i giochi e la
volgarità del potere. Questi temi
non possono sopportare le trovatine linguistiche che
Ti ho indicato. Ho scritto al vir. Tu
adesso pensa e rifletti con calma. E poi fa quel che vuoi: ma ricorda che hai
dei doveri verso Te stesso e verso la Tua opera, a volte sublime. (14)
Non
sappiamo quanto di questo levare cui
fa riferimento Mariani sia passato effettivamente nel testo di Zullino, quanto
l’autore abbia assecondato i consigli proposti: quel che si può dire è che Cinzia con i suoi occhi, lungi dal
conformarsi al modello di un’operetta
gaddiana, ha trovato invece
espressione in un romanzo profondamente innovativo, non soltanto per la ricerca
dei temi e per quella creazione del
nuovo, nel senso junghiano di cui abbiamo parlato all’inizio, ma anche e in misura considerevole, per l’invenzione
di un linguaggio originale dove si mescolano le tensioni e le incongruenze del
presente con i sussurri e le voci delle anime dei progenitori trapassati.
Alle
radici della storia dell’Occidente, Zullino, riscrive una vicenda umana ed
artistica sepolta, che ha ancora molto da raccontare a chi oggi ha la pazienza
di ascoltarla. Nella frenesia apparentemente soltanto distruttiva di Properzio,
nel suo cinismo sbandierato e sofferente, nella sua disperazione circoscritta
dentro i confini di un amore idealizzato e molto distante dalla realtà
incarnata, Zullino offre un compendio di molte delle nevrosi contemporanee,
degli inutili riti circensi, delle sottili dispute, meschinità, angherie,
isterismi, corruzioni che non smettono di agitare il mondo, e che sembrano
ripetersi in un vieto cerimoniale travolgendo immancabilmente chi osa opporvisi
o cantare in controcanto, scegliere
percorsi diversi illuminati dal fuoco dell’intelligenza.
Un’eredità
fatta, in definitiva, di una sola parola: coraggio. Un pallido miraggio oggi, così raro e così
introvabile, che per qualcuno – Zullino lo ha dimostrato con il percorso
lineare e fecondo di tutta la sua vita – è invece l’unica bandiera sotto la quale
riconoscere lo spirito umano più autentico.
Note
1. Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo.
Saggi e interventi (a cura di M. Diacono e L. Rebay), Mondadori, Milano 1974,
pag.405.
2. La lettera
di Pietro Zullino è stata gentilmente messa a disposizione all’autore di questo
scritto, dal prof. Robert Pogue Harrison, docente di Letteratura Italiana
presso la Stanford University.
3.Carl Gustav Jung,
Liber Novus, Bollati Boringhieri, 2010, pag. 310.
4. P.Zullino, Cinzia con i suoi occhi, Pr’edizioni
2003, pag.7 Per questo testo si è utilizzato, per questa e per le successive
citazioni, l’unica edizione cartacea esistente dell’opera, fuori commercio,
autoprodotta dall’autore, stampata a Roma nell’ottobre del 2003.
5. Cinzia… op.cit. pag. 36.
6. Cinzia.. op. cit. pag. 65.
7. Cinzia… op cit. pag. 69
8. Cinzia… op.cit. pag.134.
9. Cinzia.. op. cit. pag.176
10. Cinzia… op.cit. pag. 244
11. Cinzia… op.cit. pag. 346
12. Sul tema della
identificazione di Hostia con Cynthia confronta Cinzia, di A. La Penna, ne L’integrazione
difficile, Einaudi, Torino, 1977, pp.16-19
13. P.Fedeli, Tradurre poesia, tradurre Properzio,
“Aufidus” n.10, Roma, 1990.
14. La
lettera di Lucio Mariani a Pietro Zullino, datata 26 marzo 2003 è stata
gentilmente messa a disposizione di chi scrive, dal medesimo autore della
lettera.
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