06/04/16

Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. (Pietro Zullino - "Cinzia con i suoi occhi").


Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito.  Succede anche questo nell'editoria italiana. Pietro Zullino, che ho avuto la fortuna di avere come amico, scrisse questo suo libro qualche anno prima di morire. 
E' un romanzo fiume, dedicato a Lucio Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi. 
Zullino ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e passionalmente coinvolto, enormemente attuale nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica. 
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio). 
Sono dunque ben pochi quelli che hanno avuto il privilegio di leggerlo. 
Nell'attesa che qualcuno - di quelli che contano (ma cosa contano?) si accorga di lui, è già stata fatta una traduzione in americano moderno del romanzo.  
E a Pietro e alla sua opera è stato dedicato post-mortem un volume di studi a cui ho contribuito proprio con questo testo, su Cinzia
Che qui ripropongo. 


Cinzia con i suoi occhi di Pietro Zullino: “Chi ama può vagare”, il romanzo di una ribellione

di  Fabrizio Falconi

 La fortuna dei libri di Pietro Zullino presso i maggiori editori italiani – Mondadori e Rizzoli tanto per citare soltanto i più blasonati – durò oltre un decennio, a cavallo tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80.
 A partire da quella data, qualcosa si spezzò: a Zullino, come ad altri autori di quegli anni, che si erano concentrati, nella loro produzione, sulla adesione profonda agli ideali interiori (autenticità, fedeltà, vero) invece che all’inseguimento delle mode del momento e dei diversi conformismi del mondo editoriale italiano, capitò di sentirsi sempre più ai margini, sempre più fuori posto, sempre meno in sintonia con i gusti prevalenti.
 Zullino, con la sua propensione per lo studio, con il suo rovesciamento dei canoni storico-accademici, con il suo spiccato senso per la colta provocazione che gli permetteva di leggere la realtà contemporanea con occhi sempre nuovi, sentiva di non appartenere alla folta schiera dei narratori per una stagione. Il suo sguardo era rivolto all’oltre, ciò che gli premeva era la continuazione dell’indagine del contesto storico-politico come conformazione ed estensione delle contraddizioni individuali umane, quelle cioè celate nel cuore di ogni uomo.
 Da questo punto quindi l’esplorazione del mondo classico e delle sue radici era per Zullino il terreno ideale per dare corpo a quella esplosione multiforme di ripensamenti sulla realtà che si vive (nell’oggi) e su quella che si immagina, se è vero che proprio nei reconditi del mondo antico, e in specie nella vicenda della Roma imperiale, è possibile rintracciare i segni sensibili e tutte le contraddizioni del presente storico e antropologico, come scriveva Ungaretti a proposito di Virgilio che – diceva -  ci accompagna non più come un emblema ma come uno dei fatti della nostra vita (1). 
  I fatti della nostra vita, dunque, quelli che più interessavano Zullino e che nei primi anni del 2000 lo portarono a cimentarsi in un lungo, estenuante progetto rappresentante la summa di una meticolosa ricerca capace di coniugare lo studio e l’esercizio linguistico – da sempre cifre caratteristiche della sua opera – con la pura narrazione, con il disegno di un amplissimo (e definitivo) affresco su quel mondo, il mondo degli amati classici latini, di quei cantori che prima e forse meglio di tutti gli altri seppero scendere nei recessi dei fondamentali umani. 


  L’ambizione dunque di raccontare la storia biografica del grande Sesto Aurelio Properzio, vissuto a Roma a cavallo dell’anno zero dell’era moderna, capace di trascolorare in modo sublime il mito attraverso la lente della esperienza personale più intima,  rappresentò per Zullino la chance di cantare ancora una volta fuori dal coro, con un romanzo fatto sostanzialmente di materia non appetibile per il mercato editoriale e dissonante con il gusto prevalente.
 Zullino, troppo avveduto per non comprendere che un’opera di tal fatta doveva giocarsi tutto sul piano del linguaggio, dedicò molte energie a ricercare di creare ex novo una cifra adatta, in grado di servire ben oltre la traduzione originale delle Elegie properziane, e di raggiungere la funzionalità della comprensibilità e della leggibilità moderna, rispettando però la credibilità di un racconto – e delle espressioni gergali, della conversazione – ambientato duemila anni fa.
 Lentamente così, in un alacre lavoro che durò due anni, Zullino riuscì ad affilare il suo strumento narrativo – il tradizionale romanzo fornito sotto le sembianze di uno stream of consciousness – in grado di esprimere tutto il potenziale di una vicenda umana e creativa paradigmatica per i tempi moderni, inscritta nel tempo vivente e al contempo permeato da quella interrogazione dei morti (o degli antenati), che per alcuni è il senso stesso più originario di ogni attività letteraria.
 La scelta di Properzio, come voce e protagonista del suo romanzo, deve essere stata per Zullino quasi obbligata. Il grande poeta assisiano consentiva di incarnare i più diversi registri che interessavano l’autore nella stagione che abbiamo appena delineato e che in una lettera a Robert Pogue Harrison così Zullino stesso spiegava: si tratta di far conoscere al grande pubblico un antico poeta latino pacifista e femminista, un ragazzo, che le tribolate vicende del pianeta hanno fatto diventare d'improvviso moderno, anzi attualissimo, mentre per millenni è stato considerato un minore, uno scombinato libertino, un impresentabile corruttore di giovani. Si tratta di far conoscere dall'interno, in una dimensione minimale, familiare, quasi intima, quell'Impero finora presentato dalla letteratura e dal cinema come una tronfia e minacciosa parata di marmoree toghe, sciabole e corazze?  O siamo semplicemente in presenza di una storia d'amore d'un genere ancora mai raccontato Non saprei!  Perciò vedi tu!  (2)
Un ragazzo dunque, diventato moderno, anzi attualissimo: Properzio, che negli anni dello splendore massimo del neonato impero, nel corso di quel quarantennio di principato di Augusto che rivoluzionò la storia dell’Occidente, cantò in dissonanza, fuori dai cori osannanti e dai divini poeti, Ovidio e Virgilio scelse di occuparsi, nelle sue Elegie, soltanto della propria vita sentimentale, di quell’irrefrenabile e ossessivo istinto amoroso, molto vicino alla mistica, che mischia amore e letteratura, puro esistenzialismo potremmo dire oggi, quanto di più lontano da ogni velleità o retorica di regime.
Properzio, agli occhi di Zullino, è attualissimo perché somigliano molto ai nostri quegli anni imperiali, in cui il pensiero sembra essersi fatto unico, al servizio di un fasto troppo evidente per essere messo in discussione, al punto tale che la persona stessa dell’Imperatore è ormai assimilata alla divinità e divenuta oggetto di culto personale.  Anni in cui la crudeltà contro ogni forma di dissidenza – morale e politica – è divenuta evidente e manifesta, oltre che legale; anni che registrano il parossismo del potere spietato e corrotto delle corti imperiali, divenute protagoniste di ogni decisione sui destini privati e collettivi. Tutto si decide nei Palazzi Imperiali. Tutto ciò che si svolge fuori è ininfluente o inutile: fuori sono rimasti solo gli spettatori, che assistono ai riti trionfali e selvaggi delle battaglie vinte e delle conquiste, dei saccheggi e delle legislazioni, degli accumuli delle immense ricchezze e della espansione di una politica di acquisizione che si è posta come obiettivo il mondo intero.
  In questo quadro, Properzio è un marginale. E’ giovane e dotato di talento, e gli riesce anche di scalare i gradini della popolarità, di mettere piede nel circolo che conta, nell’entourage del grande Mecenate che decide i destini della cultura, di chi conta e di chi no, di chi serve alla causa e di chi è inutile e deve essere ignorato.    Ma questo ingresso, di Properzio, nei circoli che contano – e che non sono poi molto diversi da quel che resta dei salotti mondano-letterari convenzionali degli intellettuali di oggi -  è un ingresso da clandestino. Properzio non è uno di loro. Lo penalizzano le sue origini, da provinciale – è nato ad Assisi – la sua infanzia difficile, le crudeltà della guerra civile alla quale ha assistito,  la sua fervida sensibilità, le condizioni di povertà con cui si presentò a Roma intorno all’anno 30 a.C. con l’intenzione di dedicarsi agli studi di diritto.
 Un parvenu, si direbbe oggi, ma anche un carattere molto forte, difficilmente incline a scendere a patti: disposto ad essere accettato nei circoli, ma solo alle sue condizioni.
  E’ questo dunque che ha rappresentato per Zullino, lo spunto e il personaggio ideale dal quale partire, da ritrarre a tutto tondo, in diretta e in prima persona, per raccontare qualcosa del mondo di oggi – mondano, letterario e politico – che conosceva ormai molto bene: Roma antica, con la sua meravigliosa lingua sepolta e mai morta, per Zullino terreno ideale di approfondimento e di studi, dall’età del liceo e fino alla morte, diventava anche il mezzo per ridare vita al presente.
 E’ la sintesi del processo catartico che contraddistingue ogni vero atto creativo, così sintetizzato da Jung:  Qual è l'elemento risolutivo ? E' sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché quando una cosa passata da molto tempo ritorna oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un'epoca nuova significa creare. E' la creazione del nuovo, ed essa mi redime ... Il compito è partorire ciò che é vecchio in un tempo nuovo ... Non c'è parte della ruota che non ritorni. Perciò tutto ciò che è stato tornerà a riaffiorare e quello che è stato sarà di nuovo. Tutte queste cose sono infatti qualità congenite dell'umana natura. Il ritorno di quel che è stato fa parte della natura del movimento in avanti. Solo gli ignoranti possono meravigliarsi di questo. Comunque il senso non risiede nell'eterno ritorno dell'eguale, ma nel modo in cui esso viene ricreato nel tempo. (3)
 E’ così dunque che Zullino, come vedremo, con Cinzia ha saputo vincere la sua scommessa: quando una cosa passata da molto tempo ritorna oggi, in un mondo mutato, è nuova. Così dunque appare la vicenda di Properzio che non si presenta a noi con la sua marmorea toga – come era nella preoccupazione dell’autore – ma in una veste completamente nuova, ri-creata (nel senso inteso da Jung): Properzio non è più un poeta latino alla ricerca di una affermazione personale nella Roma Imperiale, ma è un ragazzo prima e poi un uomo di oggi, innamorato e disgustato del mondo al contempo – come sono molti ragazzi di oggi, disperatamente succube della leggenda dell’eros e del suo incantamento che tutto riduce e tutto sottomette, come molti ragazzi e molti uomini di oggi, in perenne lotta con l’arroganza dell’istituzione e con i riti delle caste e votato all’autorovina o all’autolesionismo, come molti ragazzi e molti uomini di oggi. 
Zullino, per presentarcelo, non ricorre a particolari artifizi. Lo fa entrare in scena, in prima persona parlando di Cinzia con una semplice confessione che lo rende immediatamente riconoscibile, familiare, simile: Aveva trent’anni, undici più di me, ed era sessualmente molto avida, quindi ogni tanto cadevo nel delirio della gelosia. E quando cadevo nel delirio della gelosia maledicevo la mia giovinezza e la mia ingenuità. (4)
E’ l’inizio di una epopea che copre cinque anni della vita del poeta, cinque anni nei quali assisteremo – nello stesso tono appassionante del racconto in presa diretta – alla irresistibile ascesa del giovane provinciale che,  alla pari di molti altri rampanti d’epoca più recente, con un libro di Elegie appassionate – il Monobiblos diventa di colpo famoso, una celebrità nella Roma imperiale, tanto nei salotti letterari come in quelli mondani dove fa scalpore, scandalizza e appassiona il torbido rapporto con la bellissima e vorace Hostia/Cynthia, cortigiana del Senato romano.
 Chi è questo giovane esuberante che si lancia a peso morto nel rapporto con una compromessa e seducente matrona, per di più molto più grande di lui ? Come ha trovato il coraggio di denunciare il suo folle amore, le sue sconsideratezze, di descrivere minuziosamente il fascino della corruzione e i sentimenti dilanianti di gelosia e repulsione che una donna come questa ha il potere di esercitare, raccontando un cammino di autodistruzione così evidente ? Donne così sono sacre per l’eros, ma nessun uomo di buon senso, nessun uomo rispettabile aprirebbe loro il cuore.
Già dal primo capitolo del libro siamo dunque introdotti in questa prospettiva estrema: Properzio e Cinzia si conoscono da tempo, si amano liberamente, appassionatamente, disperatamente. Properzio è solo uno dei molti amanti di Cinzia, ma lei si sente legata a quel giovane bizzarro e ostinato che possiede il dono della poesia. Properzio la ama di amore carnale e appassionato, ma vorrebbe anche appropriarsi della sua anima, visto che nel corpo Cinzia non può essergli fedele. Ed è inutile ribellarsi contro lo squallore di quella vita, anche se Properzio non può fare a meno di farlo e anche se – per massima contraddizione – è egli stesso un cliente (seppure presumendo di sentirsi differente dagli altri) di quella professione.
 E’ dalla differenziazione dalla poesia dell’Impero, dalla poesia dominante, dalla poesia dei maestri Virgilio e Orazio e dal modo di Lucrezio, che capitolo dopo capitolo, cominciamo ad afferrare cosa significhi Cinzia, cosa significhi l’amor fou per questa donna per il giovane poeta Properzio: conoscerla, amarla, scrivere di lei, significa percorrere un sentiero iniziatico dal quale non si torna più indietro. Il poeta ripudia i suoi stessi versi, scritti fino a quel momento, per mestiere o per intrattenimento: roba da chiodi, versi che chiunque – chiunque, servo dei greci – potrebbe scrivere. Versi senza ispirazione e senza verità.
 E non è un caso dunque che i primi versi di quelle nuove elegie, di quel nuovo canto – originario e vero, il canto che sconvolgerà Roma -  scaturiscano dalla contemplazione del corpo nudo di Hostia che dorme.  E’ in quel momento, il momento nel quale Properzio si è introdotto in casa di lei, come un ladro ebbro, che avviene il miracolo, il miracolo creativo, che farà la fortuna del poeta. Properzio la guarda dormire, è tentato di solleticarla, di ricavare da quel corpo solo un nuovo intermezzo erotico. Poi però, rendendosi conto che lei non si sveglia, le dedica un’ode:  finché la luna, la vigilante luna dall’assorto/ chiarore, coi suoi lievi raggi gli occhi ti schiuse… (5)
Cinzia, risvegliata come una principessa, dalla luna e dai versi del poeta, è dunque la promotrice del successo che sta per incombere su Properzio: è la verità di quei versi – portati all’attenzione del talent scout Asinio Pollione a generare la fortuna del poeta, il suo ingresso nel circolo nobile dell’inteligentsia imperiale.  Raccontando la vera vicenda del suo erotico disperato amore e della sua vita, Properzio si candida a divenirne l’eroe, il protagonista auto-distruttivo.
 Le prossime tappe saranno facili da bruciare: basta riuscire a farsi invitare alla festa nella splendida villa di Orazio, fuori città – impresa certo non da poco visto che deve farsi passare per lo schiavo del suo amico d’infanzia – dove sono allineati tutti i più importanti protagonisti della scena letteraria romana (Virgilio con Messalla e Mecenate), basta scandalizzare al momento giusto i presenti, insultando apertamente l’intoccabile Orazio, accusandolo addirittura di aver millantato le sue vere origini romane, nascondendo invece le scandalose ascendenze ebraiche, per manifestarsi come un pazzo, un ribelle, uno scriteriato.  Qualcuno però che, evidentemente, ha qualcosa da dire. E non ha nemmeno paura di dirlo.
 E’ eloquente a questo punto, proprio sul finire della scena madre dello scandalo in casa di Orazio, la lezione che Zullino mette sulla bocca di Pollione – Gaio Asinio Pollione, uno degli uomini più eruditi di Roma, che Properzio individua subito come un maestro del pensiero libero: “I sani principi vanno sempre riaffermati e con forza, altrimenti non ne giungerà contezza alla mente dei giovani, e tutto si livellerà verso il basso.
 Essere o parlare ? Rispondo: è più importante parlare. Non si deve essere per forza essere così o cosà. Solo parlare è veramente necessario, parlare cosà intendo, dove cosà sono i sani principi. Parlare cosà per tener viva la fiamma del voler vivere cosà, tua e degli altri… Ma bisogna che i parlanti siano…”(6)
 Sembra quasi un manifesto programmatico: è più importante parlare. Non stancarsi mai di dire, di affermare, di ribadire anche quando l’evidenza e la convenienza suggerirebbero di tacere. Non si tratta solo di gusto per la provocazione, ovviamente. Si tratta di amore per la verità, contro l’ipocrisia degli uomini, contro la loro proverbiale tendenza ad irreggimentarsi, a schierarsi obbedendo alla legge del più forte di turno.
 L’accusa folle – l’allusione fatta in pubblico per sottintendere le origini ebraiche di Orazio – è necessaria soltanto per smascherare l’ipocrisia sulla quale è fondato lo stesso Impero: che i destini degli uomini dipendano dalle loro origini, dalla loro razza, dai loro antenati, e questo può decidere in un senso o nell’altro le loro vite, rovinandole per sempre.
 Properzio è dunque colui che follemente  si mette di traverso, vuole sparigliare, far saltare il banco: lui, un piccolo provinciale, un parvenu tollerato solo perché fino a quel momento irrilevante. Non tanto paradossalmente è proprio uno nella sua condizione – uno che non ha niente da perdere – a poter dire quello che nessuno potrebbe dire, se non altro per il favore che il divino Orazio godeva presso la corte imperiale e presso l’onorabile Mecenate, una specie di ministro plenipotenziario della cultura del tempo.
 Properzio, in omaggio allo spiccato senso di autodistruzione che lo anima,  non ci pensa due volte: sa che il prezzo da pagare sarà alto, ma il coraggio non gli manca.  E Hostia – come ogni donna che sa amare e che sa riconoscere il coraggio negli uomini che ama – dopo questo  gesto inconsulto, sarà ancora più sua, ancora più conquistata, ancora più musa: ha capito che il giovane scapestrato poeta è fatto di una stoffa diversa da quella della stragrande maggioranza degli uomini, sottoposti o potenti, che accoglie nella sua alcova ogni notte.
Il Properzio di Zullino – è impossibile non pensare a quanto di auto-biografico dovesse esserci in questo (non dimentichiamo fra l’altro che Zullino pubblicò il romanzo senza indicare il proprio nome, il nome dell’autore in copertina, ma firmandolo semplicemente col nome di Sesto Properzio  – teorizza come meglio non si potrebbe, la volontà di auto-distruzione o meglio di auto-rovina che lo anima.  Auto-rovina che non si deve commettere l’errore di lasciar arrivare inattesa, perché è ben noto e risaputo che la rovina è un evento ineluttabile e inscritto nel destino di ogni individuo, quindi anche nel tuo. E allora il segreto è quello di scegliersi la propria rovina, di farsene demiurgo: se invece la rovina te la vai a cercare – infatti – puoi gestirla, assumerla in dosi ragionevoli e trarne un raffinato piacere. Puoi autorovinarti anche cinque o dieci volte nella vita, e siccome il comandante sei tu, ogni volta ne vieni fuori, pronto a ripetere l’esperienza. (7)
La possibilità concreta di questa raffinata autorovina si manifesta a Properzio sotto forma di un crudele scherzo del caso: il nobile Cecilio Ippico, uno dei tanti clienti della bella Hostia, facoltoso e vanesio, decide di portarla con sé in un lungo viaggio in Illiria. Non vi sarebbe nulla di strano per una prostituta d’alto bordo come è Hostia. Ma è invece il punto di rottura per Properzio che già ha identificato in questo mestiere così inaccettabile – per lui, non per tutti – il motivo per rivoltarsi all’ipocrisia imperante, che vede ovunque intorno, che tutti abbracciano entusiasticamente e che pure bisogna far saltare in aria.  L’occasione è dunque offerta da Messalla – c’è sempre qualcuno disposto a speculare  sulla tua autorovina – che non solo per amore dello scandalo decide di incoraggiare l’ira funesta di Properzio, ma  anche per ricavarne soldi e soprattutto per colpire il rivale Mecenate.   Dalla perfida provocazione – Properzio scriverà una intera Elegia-invettiva contro quel viaggio e sull’infamia del lavoro di Hostia e di coloro che lo sfruttano – tutti avranno da guadagnare, come spiega lo stesso Messalla a Properzio: Tu scrivi la prima elegia, noi la pubblichiamo e la mandiamo in giro.  Il miscavallo (cioè Cecilio Ippico, n.d.A.) si prende paura, si sente messo in piazza… E noi gli facciamo arrivare all’orecchio che il Principe è personalmente seccatissimo di questa cosa, perché si è risaputa, e dal momento che si è risaputa fa scandalo… Allora Ippico dice a Hostia: dal Palazzo mi guardano storto, non posso più portarti a Sciscia, cara mia… Lei resta con un palmo di naso; a questo punto tu pubblichi la seconda elegia e la gente viene a sapere che l’amore ha vinto…  (8)
 Naturalmente le cose, in omaggio all’autorovina che aspetta al varco Properzio e che egli stesso segretamente auspica, non andranno affatto così: lo scandalo in effetti si propaga immediatamente, Cecilio Ippico parte lasciando a casa Hostia, per l’imbarazzo di essere stato tirato in ballo pubblicamente, Properzio ha la sfacciataggine di pubblicare la risposta dell’amante, che per suo amore, rinuncia a partire – Cinzia non partirà! Crepino i miei nemici/ Vittoria! Alle preghiere non ha retto!/Preferisce dividere con me/ un augusto letto/ e in qualunque modo essere mia/che avere d’Ippodamia/la ricca il regno e i beni – Hostia è ormai completamente rovinata come cortigiana del senato. La sua reputazione diventata lo zimbello di Roma intera, perde tutto: il rispetto nascosto che si deve a chi si occupa del piacere dell’Impero, i favori, i privilegi, la bella villa all’Esquilino che ha visto il transito dei migliori spiriti di Roma, sui cui muri appaiono perfino le scritte lasciate a vernice rossa a estremo dileggio: qui abita Cinzia grande zoccola dell’urbe con la firma mentula propertii (il membro di Properzio).
 La rovina di Hostia coincide paradossalmente però con il successo straripante di Cinzia, del personaggio letterario, di cui ormai tutta Roma sa tutto e favoleggia, e del suo creatore Properzio, divenuto adesso famoso e celebrato da quel potere notabile letterario che ha sempre aborrito e avversato.
Il successo delle due elegie, delle due invettive contro l’amante e la ragione del potere corrotto permettono infatti a Properzio di affrancarsi dalla marginalità, dalla irrilevanza di poeta maledetto ante litteram, passando per la porta principale: il potente Messalla gli concede l’ingresso nella propria cerchia, lo mette a libro paga, lo fornisce perfino di una casa in uno dei quartieri ricchi di Roma: il parvenu Properzio è dunque divenuto rispettabile, la sua formazione è finita, le porte del successo – garantito dalla pubblicazione della prima raccolta di Elegie sotto il titolo di Monobiblos – gli si schiudono e gli promettono, o gli prometterebbero, se non conoscessimo l’indole che si muove in lui irrefrenabile, lunghi anni felici, da protagonista a pieno diritto nella coorte dei letterati dell’Impero, magari su di un gradino inferiore rispetto ai divini, ma pur sempre in posizione di privilegio, per uno come lui, per uno con le sue provenienze.
Hostia, dal canto suo, è rovinata, deve ricominciare tutto da capo: e non può non dare la colpa di quanto successo a quello scapestrato folle che ha accolto come amante e al quale forse ha semplicemente concesso la debolezza di un trattamento diverso rispetto alla neutralità che bisogna assicurare a un cliente pagante, chiunque esso sia.
Non le resta dunque che ripartire da zero, da quel che sa fare, dall’unica cosa che le riesce: sedurre, circuire, blandire, portare gli uomini al punto di estasi e di non ritorno, permettere loro di dimenticare le crudeltà e le miserie, le corruzioni, perdersi nel nirvana assicurato dall’eros, garantire un soddisfacimento totale e completo: questo lei può offrire. Da qui, ricomincia.  Nel suo nuovo bordello, non si farà gli scrupoli del passato, si concederà, anzi, perfino ai figli dei suoi vecchi clienti, oramai divenuti uomini. Saranno loro i futuri senatori, e lei la nave scuola di quel che c’è da imparare nelle cose del sesso, negli affari femminili.
E in questo nuovo bordello, come è ovvio, ci sarà posto anche per lui, anche per Properzio. Ma stavolta, sarà un cliente come gli altri, alla stessa stregua degli altri: nessun sogno romantico, nessuna concessione particolare, nessun favore. Hostia concederà il suo corpo. E Properzio, che non può farne a meno,  come un tossicodipendente, sarà disposto ad accontentarsi, in mancanza di meglio, anche di questo.
Ma com’è cocente la delusione, quando, fermandosi per la prima volta a cena da lei, dopo tanto tempo si sente dire, sprezzante, in riferimento ai clienti blasonati Planco, Enobarbo, Frugi e Ippico:
“Loro erano clienti di riguardo, tu sei un’altra cosa. Con te faccio alla buona, sei stato il mio amico.”
Properzio quasi non crede alle sue orecchie: “Sono stato?” Pensa che il paradigma al quale Hostia sta pensando è ancora quello economico. Si umilia allora di fronte a lei, dicendole: “Senti, Hostia, al malestro economico c’è rimedio… Pensa che ho già disposto la pulitura del muro che ti hanno sporcato. A mie spese ! E guarda che te ne verrà ben altro. Ho protettori formidabili ora. Mica solo Messalla ! Niente ci mancherà. Non ti farò mancare niente.”
Ma la vendetta dell’amante tradita si consuma nel più amaro dei modi.  Invitando Properzio a fare l’amore al suo modo, gli dimostra la sua inequivocabile freddezza. E’ il corpo di Hostia a dimostrare come un manifesto cosa è successo. “Adesso lo sai cosa ti sei giocato”, gli dice beffarda nel silenzio post-coitum, “adesso fa’ una doccia e vattene mio caro, lasciami in pace. Riprendi roncola e cavallo e tornatene a Roma. Quel che avevo da dirti te l’ho detto.”
A nulla vale la supplica di Properzio: “Ma Hostia io ti amo!”
“No, hai creduto. Invece non mi amavi. Bevabbè mica eri obbligato! Coraggio, la vita è lunga, maturerai..”
“Che farò senza di te?”
“Che farai non so. Forse il burrattino… “
Disse proprio così – commenta lo sconcertato Properzio – burrattino con due erre, segno che l’alcol la faceva tornare alle origini, a quando la ragazza del Lavernale invece che sedie diceva ssedie e invece di uomini diceva òmeni. (9)
E’ la sconfitta di Properzio.  Che non riesce a darsi pace. E che, come un puer aeternus, non riesce ad accettare che il giocattolo gli sia sfilato tra le dita. Ha sbagliato, d’accordo: ma perché non gli può essere concessa una nuova chance ? Perché Hostia non gli dà la possibilità di dimostrare che lui è – e resta – diverso da tutti gli altri ?
Ciò che a Properzio interessa, è che non venga spezzato quel foedus, quel patto d’amore tra gli amanti che è ben più forte del vincolo matrimoniale, più forte e più nobile, perché scelto liberamente giorno dopo giorno e vero nutrimento della passione e dell’erotismo. In questo sta la modernità di Properzio – che Zullino fa sua e che fa rivivere in un racconto vivido di gusto pienamente contemporaneo -  Cinzia del resto non è nella poesia del grande poeta latino una icona vuota, una semplice figura poetica, ma l’espressione di una concreta esperienza d’amore, vissuta fino in fondo. Cinzia è esistita veramente, sono esistite davvero quelle malie che nell’anno 29 prima di Cristo conquistarono il giovane poeta, conosciuto grazie a Licinna, una schiava che proprio per Cinzia lavorava, e che era stata la prima a prendersi cura di lui.
La scelta di Properzio di mettersi completamente in gioco, in questo amour fou, rappresenta per Zullino il manifesto ideale contro ogni compromesso, contro ogni  convenienza, ogni ipocrisia.  Nella vita non si è scelti, si sceglie sempre e sempre si deve scegliere, senza calcoli e senza risparmi: come fa un giovane innamorato, come fa qualcuno che non ha nulla da guadagnare e  ha messo in conto anche di perdere se stesso.
Alla lunga, il tormentoso amore con Hostia prende nuovamente il sopravvento. Quando Properzio viene picchiato per causa sua, e quando viene perfino espulso dal Clivo, ecco che Cinzia si ripresenta, apparentemente solo per sincerarsi delle sue condizioni: Beh ti hanno conciato come meritavi, le tue ferite non sono però da morirne, quindi ora ti saluto, il mio dovere l’ho fatto!
Tanto basta a Properzio per realizzare che l’amore era forse tornato.  Come il più scanzonato degli chansonnier, il ritorno dell’amore coincide con il ritorno dell’ispirazione poetica. Per tornare indietro, il poeta è pronto perfino a mettersi in fila come un cliente qualsiasi, ad aspettare pazientemente in fila per via Raudusculana, dov’è il bordello di Hostia. E quando lei si ammala gravemente di meningite, Properzio che rischia di perderla per sempre, si rivolge perfino al Dio al quale non crede, quel Dio che se c’è, è profondamente ostile al genere umano, anzi ostile a tutto il creato; pronto ad immolare perfino sacrifici di fronte a quell’ Amministratore del Fato, che gli altri uomini – e non lui – chiamano Dio.
Quando Hostia guarisce inizia il primo vero periodo di serenità per i due, di tenero abbandono: lei non può esercitare, e questo rende Properzio felice di averla tutta per sé, finalmente. Possono perfino simulare una vita di coppia, ricevere ospiti, fare salotto, intrattenersi sull’ultima lirica di Orazio, della quale Properzio – pur con l’antipatia e la disistima personale per il conformismo del suo autore  – non può non riconoscere l’altezza sublime.
Ma come è scritto, la felicità dura poco.  E il fato contrario si manifesta con il ritorno del ricco Ippico d’oltre Adriatico, per le vacanze d’inverno a causa dei primi freddi. Properzio ha un bell’augurarsi che la nave che lo riporta indietro faccia naufragio. Eccolo invece tornare a Roma e riproporsi ad Hostia, con argomenti ancora più persuasivi.
La donna, ancora una volta, è combattuta: l’inerzia delle cose la porta fatalmente e nuovamente tra le braccia di Ippico, che la ricambia proponendole una posizione di potere nel suo governo provinciale e perfino un matrimonio clandestino.
E’ l’occasione, per la prostituta ripudiata da tutti, di riscattarsi definitivamente, di acquisire un posto definitivo e rispettabile nella società, di stabilirsi, mettere un punto alle follie degli anni, rispondere al richiamo della maturità che – come scrisse il Bardo – è tutto.
La storia potrebbe avere termine e Properzio potrebbe finire come uno dei tanti amanti infelici, a cantare il suo amore infelicemente tramontato.  Ma non è nella natura dell’uomo: non così lo immagina Zullino.  L’ostinazione, la convinzione di poter lottare fino alla fine contro il Fato, non si fanno certamente scoraggiare dall’ennesimo cambio del vento.
L’autolesionismo di Properzio, che mira al risultato di una completa auto rovina, giunge così alla determinazione di ripetere lo stesso copione, con gli stessi mezzi e con ancora più crudeltà: proprio quando Hostia sta per accettare la proposta di Illirio, eccolo dunque produrre una invettiva simile alla precedente (è l’Elegia II.XVI) e ancora più dura nei toni:
Dal paese d’Illiria torna, Cinzia, il pretore/ scrive Properzio mentre non riesce a trattenere le lacrime,  fagli il servizio, tosalo a dovere/ tu che soppesi le tasche degli amanti!/ Per te è una grossa preda, per me un  grave affanno.
E poi, senza vergogna, confessando i segreti più intimi, in un’altra elegia (Sotto la lucerna): Guardate i morsi sul mio collo/ e tutte queste lividure./Cinzia è con me, è mia;/ Non v’è donna che faccia così se non per struggente passione!/ Quella dalla cui bocca prorompono bestemmie,/ quella che si contorce/ai piè di Venere/ io l’ho imparato:/è prova indiscutibile d’amore! (10)
L’eterno uguale ritorna: l’effetto voluto non tarda a manifestarsi, il nuovo scandalo scaccia Ippico che si vendica nel modo più consono ai suoi modi,  riprendendosi  la villa di Tivoli che aveva intestato ad Hostia, riappropriandosi perfino dei due custodi  che aveva lasciato ad occuparsi di lei.  Cinzia, senza i ricchi protettori di una volta, è nuovamente sul lastrico e anche se Properzio è pronto ad offrirle accoglienza, a proporle nuovamente una vita insieme, senza più separazioni, senza incertezze, intraprende stavolta il cammino definitivo verso la dissoluzione, che avverrà a veloci tappe successive: fallirà il bordello autogestito, divorato dai debiti che Hostia non riesce più a pagare,  si apriranno per lei le porte della strada, non le resterà che vendersi in un casino collettivo, per assolvere ai suoi creditori, rifiutando strenuamente ogni aiuto dall’uomo che l’ha amata e che per due volte l’ha rovinata.  Raggiunto il punto più basso nella scala della rispettabilità sociale e della bellezza, che ormai l’ha abbandonata,  Hostia finirà i suoi giorni malata, non restandole altro che sopravvivere, immortale, nei versi di quell’uomo che l’ha condotta al disastro.
Non prima però di suscitare altri proclami, altre invettive, altre dichiarazioni d’amore assoluto ed eterno, nel cuore del poeta: non era mai accaduto che per una stessa donna fossero state scritte, musicate o almeno pensate più di novanta canzoni d’arte e d’amore. Mai nella poesia, mai nella storia del mondo ! Catullo era stato un principiante rispetto a me ! constata Properzio, prima di redigere l’elegia ventiquattro, la più terribile di tutte, scritta per consumare la vendetta definitiva e per profetizzare alla derelitta la giusta fine che la aspetta.
A che ti serve ora il pianto ?/ le tue lacrime sono tradimento/ma non t’illudere, amica, è finita!/Non hai voluto ! E adesso abbi paura!/ Ti verrà reso il male che m’hai fatto!  (11)
Un modo per chiudere i conti con Cinzia, la donna di carta, che ormai vive di vita propria nell’immaginario: Properzio ne ha fatto una eroina tragica, di cui tutta Roma sa, e a cui deve essere assicurata una fine acconcia. 
Fatti i conti con lei, a Properzio resta Hostia, la donna di carne, ed è tutt’altro affare: accadono rapidi e dolorosi avvenimenti, una improvvisa e non voluta gravidanza - un figlio che Properzio scopre di attendere da Licinna - un ripudio, il primo viaggio in mare per raggiungere Hostia e poi ritrovarla in Egitto, ad Alessandria, un terribile sogno premonitore che annuncia la tragedia imminente, l’arrivo a Baia, via terra da Pozzuoli, per scoprire che Hostia è “morta (di febbre) da pochi giorni”, sussurrando il nome del suo ragazzo di Roma, il ragazzo più bello del mondo, il poeta..
A Properzio non rimarrà che piangere il suo amore, dopo aver a lungo cercato e trovato la tomba dell’amata, sulla chiassosa via Tiburtina, in saliscendi da Tivoli verso Vicovaro, prima di essere arrestato e spedito al confino, quel confino – la Corsica – da cui sappiamo ora che il vecchio Properzio, trent’anni dopo, sta scrivendo le sue memorie.
Il nome del poeta è ormai bandito, i libri sequestrati, come gli scrive l’amico Pollione, ufficialmente è ormai morto, per tutti. Forse morto in mare mentre scappava in Egitto, comunque morto, e il suo nome destinato a damnatio memoriae, com’è nel destino di chi ha speso la sua giovane vita per combattere un sistema.
Le lettere di Pollione sono l’ultimo contatto col mondo reale. Properzio, ormai cinquantasettenne, da lui viene a sapere della morte del divino Virgilio, da lui viene a sapere, che dopo lunghi anni di oblio anche le sue Elegie, le elegie composte per Cinzia, stanno conoscendo una nuova, inaspettata, riscoperta, nel nuovo corso dell’Impero.
Properzio va incontro alla morte, convincendosi filosoficamente – lui che non crede in Dio e tantomeno in un Dio consolatorio - di essere felice di morire, e convinto che questo momento arrivi quando non hai più legami in ‘sto Aldequa.
Per questa voglia de andanza non devi avere più legami col mondo; nulla da rimpiangere… La paura della morte un solo modo hai di non averne: essendo rimasto solo al mondo e senza figli !
Finisce la sua epopea amaramente – in pagine di vagheggiata, meditata auto-eutanasia che anticipa alcuni dei temi che si ritroveranno nel successivo libro di Zullino dedicato alla vita di Ippocrate – recitando il solito mantra, l’ossessione intera di una vita anche con le ultime parole: Tu che l’hai conosciuta proprio bene e hai conosciuto le altre donne al mondo, dìme Topo (è il nomignolo dato ad Ovidio, l’amico di una vita), Cinzia mi fu  fedele..
Non è più nemmeno una domanda, solo una farneticazione.
Alla fine del racconto, così drammatico, così vero, resta nel lettore l’interrogativo di quanto e come abbia giocato l’espediente, l’invenzione narrativa, nell’opera e nelle scelte di Zullino, e quanto la verità storica dei fatti.  Se non c’è ragione di dubitare della realtà di Cinzia,  se sulla corrispondenza di Hostia – la donna romana che aveva un antenato poeta, Hostius, autore di un poema storico scritto nel 129 a.C. -  con la Cynthia di Properzio, come testimonia Apuleio nella sua Apologia 10,  non sembrano esistere più dubbi (12), si capisce ancora meglio come la sfida di inventare nuovi particolari, di sceneggiare i particolari di una vicenda conosciuta e conoscibile solo per frammenti abbia intrigato un autore così raffinato come Zullino.
D’altro canto l’epilogo scelto – il confino in Corsica –   è solo un artificio letterario necessario per dotare di un finale una storia biografica come quella di Properzio, che nella realtà è un semplice punto interrogativo, non esistendo come sappiamo, alcuna notizia certa su di lui posteriore al 15 a.C., data in cui si presume sia morto, quindi ancora molto giovane quando aveva intorno ai trentacinque anni.
L’espediente di un Properzio vecchio permette però a Zullino quella chiosa amara, rivendicativa e soccombente che è la cifra complessiva della sua, di Properzio, intera esistenza di artista e testimone di ogni umana miseria, nell’epoca per molti aspetti più fulgida della millenaria vicenda di Roma antica.
Dopo la sua morte, la damnatio per Properzio fu, com’è noto, effettiva e spietata. Come scrive lo stesso Zullino nella bandella del volume: Accadde dunque a Properzio di venir dai pedagoghi accuratamente mal tradotto, travisato, censurato, proprio nel timore che si rivelasse ai giovani  per lo scomodo poeta che è, da diavolo in corpo, miracolosamente moderno, quindi ben più attrattivo dei canonici, patriottici, rassicuranti Virgilio e Orazio.  Nel Medioevo cristiano scompaiono anche le sue colpevoli Elegie. Quando Petrarca nel ‘300 le ritrova, dal potere ecclesiastico è anatema. Nei licei d’Italia unita non si leggeranno.  E anche oggi chi visita Assisi – sede della teocrazia francescana – si accorge che la città natale non ha osato dedicare al suo scandaloso figlio un monumento o una piazza o una via del centro urbano: bisogna cercare extra moenia, varcare le mura.
In realtà a parte quella di Petrarca, la riscoperta vera e propria di Properzio in epoca moderna, quella che ne rinnovò l’interesse e lo studio, e certamente più vicina allo spirito con cui anche Zullino si è accostato alla sua figura, è quella fatta da Ezra Pound, che nel 1918, con il folgorante Homage to Sextus Propertius, rielabora e reinventa alla sua maniera la poesia del grande latino, adattandola a quella nuova lingua in creazione che troverà poi la sua effettiva misura con i Cantos.
A Pound poco importava della fedeltà all’originale e del rispetto dei canoni della traduzione, tanto da suscitare l’immediata levata di scudi dei vecchi latinisti anglosassoni quando quel testo apparve su Poetry. I suoi marchiani errori non potevano e non possono essere frutto di ignoranza. Come è stato fatto notare, o Pound pretende realmente di tradurre dal latino pur non conoscendo neppure le desinenze, oppure a lui non interessa affatto il rapporto che si stabilisce fra i termini della frase latina, né l’accordo tra aggettivi e sostantivi, né la struttura stessa del periodo.  E’ invece la contiguità dei termini nell’originale che lo stimola a creare immagini ad effetto. (13)
Zullino, nell’affrontare la vita di Properzio – inclusa la scelta di inserire nel racconto auto-biografico le Elegie (e come si sarebbe potuto non farlo, visto che esse, più di ogni altra cosa ci parlano della sua vita reale ?) – individua una strada diversa, scegliendo di restare fedele al testo poetico, al testo delle Elegie (attingendo alla conoscenza consolidata e continuata con la lingua latina) e inventando però completamente la lingua del racconto, la lingua narrativa, in una cifra assolutamente originale e perfettamente funzionale allo scopo del romanzo, che è – come abbiamo visto – quello di conferire modernità, di rendere moderno, di rendere contemporaneo e dunque prossimo a noi, un poeta vissuto duemila anni fa.
Ecco dunque che la invenzione e l’affinamento di quella lingua speciale – di quell’italiano di strada – deve aver molto impegnato Zullino nella elaborazione dell’opera. Di esempi di questo tipo – il racconto mediante una lingua contemporanea e di strada, di una vicenda artistica del passato e del trapassato – ne esistono pochi nella storia della letteratura italiana, e ancor meno di felici.
A Zullino interessava indubbiamente trovare questa voce, questa voce originale: la voce di Properzio. La voce mediante la quale restituire voce ad un grande poeta morto, ad un impresentabile, che mettendosi sulle spalle la responsabilità del proprio anticonformismo, seppe anticipare – secondo Zullino -  le successive anime stilnovista, romantica, naturalista, esistenzialista maudit, attraversate dalla letteratura nei secoli successivi.
E di questa preoccupazione – del trovare la voce giusta, il giusto ritmo, che non stoni, che non risulti del tutto inappropriato e che nemmeno però tenda a prevalere sugli scopi del romanzo – c’è traccia nei carteggi di Zullino con gli amici. 
Lucio Mariani, l’amico poeta, che ha condiviso con Zullino gli studi classici e una vita intera gli scrive, dopo la lettura del manoscritto, ancora in bozze:
Ho portato a compimento con impegno e attenzione la lettura di Cinzia. Te lo dovevo. Dico subito che è un'opera  importante che riflette tutti i meriti dello scrittore e molti di quelli dell'uomo. A mio modo di vedere potrà rappresentare il Tuo capolavoro se vorrai attenerTi ad alcune indicazioni che avanzo con affettuosa  umiltà. …  Inutile sottolineare quel che già sai: il romanzo è,  in larghissima misura,  scritto  splendidamente.  Tuttavia  devi  sottrarTi all'impressionismo  di  maniera,  alla tentazione  dell'operetta  gaddiana. Perché se è  accettabile - e  anzi è  buona  cosa - l'alternanza "alto/basso" nell'intersecarsi degli interventi legati ai molti personaggi, non è ammissibile il  ricorso  a  modernismi,  ad  anglismi  e francesismi,  a  locuzioni  gergali -  giovanili,  a richiami dialettali,  a alterazioni regionali … Il romanzo  - nella sua  sostanza - racconta l'amore nella sofferenza  e nell'esaltazione,  Dio  nel  ruolo  degli  inganni,  la  donna  nel suo  valore  e nell'essenza,  la poesia e il poeta (grande 'fingidor’, avrebbe detto Pessoa), i giochi  e  la  volgarità  del  potere. Questi  temi  non  possono  sopportare le trovatine linguistiche che Ti  ho indicato. Ho scritto al vir. Tu adesso pensa e rifletti con calma. E poi fa quel che vuoi: ma ricorda che hai dei doveri verso Te stesso e verso la Tua opera, a volte sublime. (14)
Non sappiamo quanto di questo levare cui fa riferimento Mariani sia passato effettivamente nel testo di Zullino, quanto l’autore abbia assecondato i consigli proposti: quel che si può dire è che Cinzia con i suoi occhi, lungi dal conformarsi al modello di un’operetta gaddiana, ha trovato invece espressione in un romanzo profondamente innovativo, non soltanto per la ricerca dei temi e per quella creazione del nuovo, nel senso junghiano di cui abbiamo parlato all’inizio,  ma anche e in misura considerevole, per l’invenzione di un linguaggio originale dove si mescolano le tensioni e le incongruenze del presente con i sussurri e le voci delle anime dei progenitori trapassati.
Alle radici della storia dell’Occidente, Zullino, riscrive una vicenda umana ed artistica sepolta, che ha ancora molto da raccontare a chi oggi ha la pazienza di ascoltarla. Nella frenesia apparentemente soltanto distruttiva di Properzio, nel suo cinismo sbandierato e sofferente, nella sua disperazione circoscritta dentro i confini di un amore idealizzato e molto distante dalla realtà incarnata, Zullino offre un compendio di molte delle nevrosi contemporanee, degli inutili riti circensi, delle sottili dispute, meschinità, angherie, isterismi, corruzioni che non smettono di agitare il mondo, e che sembrano ripetersi in un vieto cerimoniale travolgendo immancabilmente chi osa opporvisi o cantare in controcanto, scegliere percorsi diversi illuminati dal fuoco dell’intelligenza.
Un’eredità fatta, in definitiva, di una sola parola: coraggio.  Un pallido miraggio oggi, così raro e così introvabile, che per qualcuno – Zullino lo ha dimostrato con il percorso lineare e fecondo di tutta la sua vita – è invece l’unica bandiera sotto la quale riconoscere lo spirito umano più autentico.     


Note
1. Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi (a cura di M. Diacono e L. Rebay), Mondadori, Milano 1974, pag.405.

2. La lettera di Pietro Zullino è stata gentilmente messa a disposizione all’autore di questo scritto, dal prof. Robert Pogue Harrison, docente di Letteratura Italiana presso la Stanford University.
3.Carl Gustav Jung, Liber Novus, Bollati Boringhieri, 2010, pag. 310.
4. P.Zullino, Cinzia con i suoi occhi, Pr’edizioni 2003, pag.7 Per questo testo si è utilizzato, per questa e per le successive citazioni, l’unica edizione cartacea esistente dell’opera, fuori commercio, autoprodotta dall’autore, stampata a Roma nell’ottobre del 2003.
5. Cinzia… op.cit. pag. 36.
6. Cinzia.. op. cit. pag. 65.
7. Cinzia… op cit. pag. 69
8. Cinzia… op.cit. pag.134.   
9. Cinzia.. op. cit. pag.176
10. Cinzia… op.cit. pag. 244
11. Cinzia… op.cit. pag. 346
12. Sul tema della identificazione di Hostia con Cynthia confronta Cinzia, di A. La Penna, ne L’integrazione difficile, Einaudi, Torino, 1977, pp.16-19
13. P.Fedeli, Tradurre poesia, tradurre Properzio, “Aufidus” n.10, Roma, 1990.
14. La lettera di Lucio Mariani a Pietro Zullino, datata 26 marzo 2003 è stata gentilmente messa a disposizione di chi scrive, dal medesimo autore della lettera.














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