12/11/13

"Era morta mia madre - La mia Hiroshima personale." Una straordinaria intervista a Edgar Morin.




Domanda: oggi che lei ha 93 anni… Risposta: «Ah no, sono 92!». 

Edgar Morin siede quieto in giardino e ride solo con gli occhi, che sono di un azzurro infantile così incantevole da sgominare subito ogni tentazione d’imbalsamarlo come monumento vivente, di congelarlo nella deferenza dovuta a uno dei massimi pensatori del secolo. Nel suo caso non c’entra tanto una vita lunghissima, ma la straordinaria densità che l’ha segnata in ogni punto, come la sezione d’uno stagionato tronco d’albero a cerchi concentrici, dove quelli successivi dilatano i precedenti. L’infanzia nella famiglia di ebrei sefarditi («ma volevo fare il pompiere») e la Resistenza con Mitterrand («ammiratissimo per la temerarietà dai suoi fedeli, come un padrino… »). 

L’amicizia con Marguerite Duras in perenne competizione con Simone de Beauvoir («entrambe pensavano di essere l’una migliore dell’altra») e l’espulsione dal Partito comunista francese («un’esperienza necessaria per capire cosa possono diventare gli uomini»). L’incontro con Herbert Marcuse («incredibile, viveva in America, odiando quasi tutto dell’America: non aveva tivù, non andava al cinema») e le quattro mogli, l’ultima sposata due anni fa, senza mai diluire la costante fascinazione verso le donne: «Tranne ora… Sono stato il contrario di un seduttore: uno sedotto in permanenza. Magari da un viso intravisto per caso, come la faccia luminosa della luna. E il tempo va così veloce che non ce n’è mai abbastanza per vedere quella oscura».

Perciò, forse, per il teorico del “pensiero della Complessità” che con i sei volumi del suo Metodo ha rivoluzionato le scienze mettendo insieme biologia, cibernetica, sociologia, nulla quanto la propria vita è convincente per dimostrarne la tesi: tutto va visto cercando relazioni anziché dividendo le conoscenze. 

«Non c’è mai stata separazione tra me e le mie idee. Gioia, tristezza, amore sono le cose fondamentali della vita. Oggi gli economisti pensano che si possa ridurre tutto a numeri. Ma i calcoli sono una parte piccolissima degli umani: non possono misurare né capire la passione, il dolore, il piacere. In definitiva, non possono capire nulla». 

Anche nel suo delizioso memoir La mia Parigi, i miei ricordi (appena uscito, edito da Raffaello Cortina), tutto si mescola cercando nelle pietre della capitale gli umori di una vita. Eppure, dice Morin, nonostante un’avventura che si estende per quasi un secolo, tutto può essere racchiuso in un momento decisivo che ne spiega il segreto. Come il pezzo mancante per decifrare un alfabeto sconosciuto, e non importa la quantità di tempo impiegato a cercare: quando le lettere sono al loro posto ogni parola diventa trasparente. «Ho 10 anni quel 26 giugno 1931 quando esco da scuola e vedo mio zio davanti a un taxi. Ha un mezzo sorriso:i tuoi sono partiti per una stazione termale, per un po’ vieni a stare da noi. M’invade un’onda di allegria, in macchina per Boulevard de la Chapelle! Due giorni dopo sto giocando con mio cugino Freddy in un giardino vicino al cimitero Père-Lachaise. Sono accoccolato, perciò con lo sguardo che corre dal basso verso l’alto, vedo un paio di scarpe nere, pantaloni neri, una giacca nera e infine la faccia: l’uomo a lutto è mio padre. Mi sta guardando fisso e dice: non stare sull’erba, ti sporchi. E mentre lo dice, capisco tutto, capisco che mia madre è morta».

di Raffaela Carretta - 07 novembre 2013 per Io Donna - Il corriere della Sera. 



Sono tempi in cui si pensa che ai bambini non vada raccontata la verità. «Le bugie sporcano la sua perdita, m’impediscono di mostrare il dolore che mi spezza. È andata a fare un viaggio, mi dicono, poi è in cielo, forse un giorno tornerà... Infine, ora sono io la tua mamma, sussurra zia Corinne per confortarmi, un’usurpazione fatta a colei che mi mancherà per sempre». 

Sono tempi in cui verso i bambini non si pesano le frasi dette: «Un giorno che Freddy fa un capriccio zia Corinne lo ammonisce: non devi darmi dispiaceri, zia Luna è morta per troppa pena! La ferocia è totalmente inconsapevole e ribadisce un sospetto, quello di ogni orfano, la colpa è solo mia». Ma per il novantenne che conserva ancora così nitida l’orma del decenne che è stato, proprio il lutto segna un punto.

Come uno di quei colpi di reni con cui la vita rovescia il senso degli avvenimenti: «È stata la mia Hiroshima, ma la sua nube ha sprigionato ciò che ha fatto di me quello che sono. L’indisciplina innanzitutto, la libertà dalle regole, perché sfuggendo alla solitudine familiare ho deciso che la mia famiglia era fuori: la strada, il cinema, i libri. E poi, lo scetticismo, l’assurdità della morte ha segnato un dubbio permanente, la ragione che mette in discussione ogni cosa. Ma, più importante di tutto, un bisogno infinito, implacabile, di amore. Che ho cercato e trovato molte volte. Perciò, la mia più grande infelicità è stata all’origine della più grande felicità». Violette, «conosciuta durante la Resistenza, un’amica diventata amante, poi sposa» è l’amore tranquillo.

La seconda moglie, Johanne, un’afro-canadese impetuosa, è «la danza e la festa incarnate». In sua compagnia Morin lascia Parigi nel ’69, diretto in California su invito di Jonas Salk, che ha scoperto il vaccino antipolio e fondato il Salk Institute, una specie di paradiso terrestre della ricerca. Ma per Morin sarà di più: il paradiso della rivelazione interiore.

Dove sullo sfondo di un’America abbagliante, una porta segreta finalmente si schiude. «Love and peace non era uno slogan, ma un’onda fisica, tutto diventava possibile. Amore diffuso non solo per Johanne, ma per gli amici, i giovani, i concerti. E per la conoscenza, tutto si accelera, non mastico ma divoro ricerca. Sono talmente felice che invito mio padre e zia Corinne, ormai sposati. E lì accade, due giorni prima del loro arrivo, faccio un sogno. Sono ai piedi di una collina, fuori da una stazione, e all’improvviso si diffonde una voce: c’è tua madre! Il cuore batte a mille e all’improvviso la vedo, così bella! Trema un po’, mi avvolge in un lunghissimo abbraccio, mi passa le mani sul viso e sorride scusandosi: Carissimo figlio, non posso restare, mi aspetta il treno, lo capisci vero?… Lo capisco, ma comincio a piangere e piangere. E singhiozzando mi sveglio. Sono sconvolto ma la pace è scesa, finalmente ho compiuto il gesto che mi manca da quando ho 10 anni: dirle addio, smettere di aspettarla, accettare la sua morte, e perciò la morte in generale. Sciogliendo infine il rancore verso l’uomo che mi ha impedito di salutarla, mio padre. Non ho mai avuto dubbi, è partita da questo la mia svolta intellettuale, il momento in cui tutte le idee dei trent’anni precedenti hanno trovato le parole per essere dette, la data di nascita del mio Metodo. Come se tornando a prendermi per mano, mia madre me l’avesse tenuta stretta per sempre».

di Raffaela Carretta - 07 novembre 2013 - Io Donna Il corriere della Sera. 

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