Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.
E’ una delle ultime poesie di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938), senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, quello che sembra pervadere lo spirito di uno dei più grandi poeti italiani.
L'attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese. Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.
Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio.
E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale.
Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.
Fabrizio Falconi
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