01/11/11
La dignità dei morti (e dei vivi).
Ho spesso riflettuto sulla “dignità” dei morti. I morti sono “dignitosi” perché sono meritevoli quasi sempre – a meno che la loro vita non sia stata particolarmente ignominiosa – del rispetto nell’opinione comune.
Il rispetto deriva soprattutto dal fatto che un morto non ha più voce.
L’ultima parola è quella del suo epitaffio sulla gelida lapide. Poi, nessun diritto di parola – secondo le convenzioni dei viventi – è più concesso a un morto.
Anche se dovremmo tutti ricordarci che i morti continuano a parlare, eccome, dopo la loro morte, in forme e modi spesso incontrollabili (ed è per questo che spesso anche la sepoltura di un corpo, l’identificazione e la presenza di una tomba fa così paura o diventa ingombrante, come insegna la storia passata e recente).
Ma la dignità è riconosciuta primariamente proprio in virtù di questo silenzio in-contestabile che cala sulla vita di un uomo, e questo silenzio è dignitoso, perché non ammette più ragioni o repliche. E’ silenzio, appunto, e basta.
Ma perché la dignità deve essere tirata in ballo anche per i sopravvissuti ? Perché di qualcuno che vive un lutto si dice o si giudica che sia “dignitoso” ? Esiste un modo “dignitoso” di affrontare la morte di una madre, di un padre, di un figlio, di una moglie o un marito ?
Chi ha stabilito un “codice deontologico” del lutto ?
Chi ha stabilito – soprattutto oggi, che le lacrime e il dolore devono essere banditi possibilmente da ogni consesso socialmente utile - che una persona che trattiene il pianto o non mostri sofferenza sia più dignitosa di qualcuno che si abbandona alla lacerazione o alla disperazione ?
Davvero non possiamo fare a meno, anche in ‘rigor mortis’ di enunciare il nostro freddo giudizio, ad uso e consumo di una sofferenza che turba o disturba e che vogliamo mantenere ad una distanza di controllo ?
I morti sono dignitosi e non hanno bisogno di lacrime.
I vivi però, i sopravvissuti in specie, hanno bisogno anche di lacrime per attraversare il grande lago, misterioso, della separazione dagli affetti umani.
Ci sarà tempo poi, forse, in questa o in un’altra vita di partecipare e vivere un nuovo dolore, una nuova sofferenza e forse una via nuova per ritrovare quei perduti affetti.
F. Falconi
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