Robert Pogue Harrison
è direttore del Dipartimento di Francese e Italiano presso l’Università
californiana di Stanford, una delle più prestigiose d’america. Ma, da diversi
anni è anche autore raffinato sulla scena internazionale, con saggi che
attraversano materie differenti e contigue come la letteratura, la filosofia,
l’antropologia. Un percorso originale che gli è valso l’attenzione dei massimi critici, riconoscimenti, e
traduzioni in tutto il mondo.
In Italia, il suo primo lavoro, Foreste, L’ombra della civiltà ( Garzanti ) è
apparso nel 1992, seguito da un curioso e affascinante piccolo libro dedicato
alla sua “seconda città” ( Harrison ha vissuto per molti anni a Roma ), Roma,
la pioggia. A cosa serve la letteratura ( I Coriandoli, Garzanti, 1995 ). Ancora
inedito in Italia è il suo lavoro su Dante, The Body of Beatrice, mentre
dalla Fazi è pubblicato Il Dominio dei morti un saggio che è costato cinque anni di lavoro,
e che sceglie come suggestivo campo di indagine il rapporto culturale e
antropologico tra morti e vivi, attraverso l’opera di grandi scrittori, poeti e
filosofi. Un’opera impegnativa, ma allo stesso tempo di grande leggibilità ed
enormemente stimolante, che in America ha raccolto reazioni entusiastiche, ed è
già stata con successo tradotta in Francia, Germania, e ora anche in
Italia.
D. : Dunque, Harrison, cominciamo dal titolo. Perché:
‘ il dominio dei morti ‘ ?
Viviamo in un mondo che sembra ignorare i morti. Un mondo dove la morte,
i morti, sembrano completamente rimossi. Lei invece suggerisce addirittura un
‘dominio’.
R. : Nel titolo,
nel titolo di questo libro, ci sono almeno due allusioni. La prima ad un
celebre verso di Dylan Thomas, and death shall have no dominion. La
seconda, a San Paolo che nella Prima Lettera ai Corinzi, chiede: O morte,
dov’è il tuo dominio (o la tua vittoria, a seconda delle traduzioni
)? E’ ovvio che in questo mio
titolo è contenuta una sfumatura polemica. In effetti viviamo in un mondo dove sembra
che la morte non esista, e dove facciamo di tutto per esorcizzarla,
rimuoverla. Ma, nonostante tutti i
nostri sforzi, non possiamo fare a meno, noi viventi, di essere totalmente
influenzati dai nostri predecessori, da coloro che sono morti. Le nostre religioni,
i comandamenti, ma anche le istituzioni, il diritto, le costituzioni e
soprattutto il linguaggio che noi viventi abitiamo, sono stati ‘pre-abitati’ da
coloro che ci hanno preceduto. Noi parliamo una lingua creata da coloro che
sono morti. Ogni parola che noi usiamo ci è stata tramandata. Le parole sono
abitate dai morti, così come tutte le cose umane.
Non solo i
cimiteri, o i monumenti ci ricordano i morti, ma anche l’immagine ( alla quale
ho dedicato l’ultimo capitolo ), possiede qualcosa di fortemente evocativo, e
in certo senso mortuario. Come appare chiaro specialmente nel ritratto
fotografico: grazie al ritratto, continuiamo a vedere persone che non ci
sono più, che non abitano più tra noi. L’invenzione della tecnologia moderna ha
fatto sì che siamo ormai circondati da immagini dei morti ( pensiamo solo ai
vecchi film, continuamente trasmessi in televisione ). Da un lato quindi siamo
privati di un rapporto proficuo, continuo con i nostri morti, e tendiamo a
metterli a distanza, dall’altra siamo circondati e sovrappopolati dalle immagini
dei morti.
D. : Le sue guide, in questo viaggio nel dominio dei
morti, sono Vico e Heidegger. Ci potrebbe spiegare il perché di queste scelte ?
R. : Heidegger è il
filosofo occidentale che ha fondato tutta la sua filosofia sulla finitudine
umana. Essere e tempo, per esempio, la sua opera monumento. Essere
per la morte, il cosiddetto Da-sein è il concetto chiave della
filosofia di Heidegger. Vico, non era invece un filosofo della morte. Ma lui ha
pensato il ruolo dei morti nella fondazione della Cultura e della Società. Per
Vico, i morti sono alla radice stessa della città, o della casa, nel senso di
abitazione umana: è questa l’autorità che i morti hanno sempre avuto sui
rapporti umani, e da qui proviene il potere degli antenati. I viventi sono comandati,
secondo Vico, dalla volontà degli antenati. Vico, il fondatore dello
storicismo, in un certo senso mette in evidenza i limiti del pensiero di Heidegger, che può risultare troppo astratto.
Il dominio dei morti non è un
libro sulla morte, ma sul ruolo dei morti nella nostra vita, e quindi
l’influenza di Vico è più importante, ai fini del mio discorso.
D. : Il suo libro ritorna spesso sull’idea di Fondazione.
Ogni città, ogni abitazione, ma potremmo dire, ogni impresa umana, sembra
fondata sulla tomba. Sembra vi sia necessità di questo, perché un’impresa umana
abbia successo, e sia duratura.
R.: Sì, esistono esempi infiniti di questo semplice
principio. C’è sempre un morto alla base delle cose. Lo storico Walter Burkert
sottolineava come ogni città nuova greca doveva necessariamente basarsi sulla
fondazione da parte di un eroe morto. Gli dei non possono fondare. Quando c’è
di mezzo una fondazione, c’è bisogno di una fondazione umana. Questo
resta un mistero non del tutto comprensibile. E’ più che altro un fatto, un
destino tipicamente umano. L’etimologia di uomo del resto, di humanum, deriva, vichianamente da humus, cioè
dalla terra. La radice è la stessa.
D. : Ne ‘Il dominio dei morti’ uno spazio davvero
rilevante hanno i poeti, la poesia. Sembra, mi dica se è così, che la poesia
sia il principale tramite per dialogare con i morti, o meglio per dare loro
voce, come illustra l’esempio di Dante. Perché la poesia ha questo potere ?
R. : Non solo Dante, ovviamente. Prima di lui possiamo
pensare a Orfeo, Omero, Virgilio. In ogni grande opera del passato, a un certo
punto c’è un eroe che deve scendere nell’ade, a parlare con i morti. Ma questo non è nient’altro che
un’allegoria della poesia. Sia della poesia lirica, che di quella epica. Visto
che ogni nostra parola ha una storia antichissima, la poesia ci ricorda che
tutte queste parole sono abitate da antenati che parlano. Per restituire
alle nostre parole uno spessore storico/temporale non possiamo che affidarci
alla poesia, è questa la funzione più nobile della poesia. Scrivere versi è già
un modo di essere in dialogo con i predecessori.
D.: Lei ha scelto, cita, anche diversi poeti italiani,
quale, in questo contesto le è più caro ?
R. : Beh, vi sono molti poeti, e tra essi molti poeti
italiani, che sono ossessionati da temi come i fantasmi, o l’assenza. Credo che
tutta l’opera di Montale, ad esempio, sia circondata da ombre. Ma certamente
Dante è colui il quale, meglio di chiunque altro, ha rappresentato per me, non
solo in questo lavoro, un punto di riferimento essenziale. E’ semplice
constatare che sia proprio Virgilio la guida nel viaggio oltremondano di Dante.
Virgilio: un poeta che era morto da 1300 anni, quando Dante decide di
restituirgli la parola. E’, anzi, Virgilio che viene a proteggere, a salvare un
suo erede. I poeti inventano i propri antenati, o meglio li scelgono, o ne
vengono scelti. Un morto, un poeta morto, può scegliere autonomamente la
propria voce nella contemporaneità. Come nel caso di Baudelaire: è lui che ha
scelto Poe, o è Poe – un autore molto più francese che americano – a scegliere
la voce di Baudelaire ?
D. : Il tema del libro, la tesi che sostiene, sembra
essere messa in crisi dalla civiltà contemporanea della morte. Molte delle
morti moderne sono ‘senza sepoltura’.
Pensiamo al recente caso dello tsunami, ma anche ai desaparecidos
argentini, o all’esempio che lei cita del Veterans Memorial di Washington. Ma,
sembrerebbe, non è necessario che vi sia una tomba, perché i morti influiscano
e determinano le scelte e le vite dei viventi. Può bastare anche il semplice
nome… Un nome pronunciato.
R. : Sì, è così. Basta anche un nome. Il problema della
sepoltura riguarda più i viventi che coloro che sono morti. E’ un problema dei
viventi: serve loro per quello che si chiama
in francese il travail du deuil , o l’elaborazione del lutto,
insomma. Anche se la parola ‘travaglio’ rende molto bene l’idea. Il travaglio
del lutto è un modo che permette in un certo senso ai morti di rinascere, di
rinascere nell’altro mondo, e occupare il loro posto, il posto loro assegnato
nell’aldilà. Non a caso le lamentazioni
delle donne ai funerali – che ha studiato per tutta la vita Ernesto De Martino
– sono molto simili a quello del parto. Quando si muore, si muore come essere
umano vivente. Ma in qualche modo non si è ancora morti. C’è
bisogno di una particolare forma di elaborazione, di rito del Dolore
perché il morto divenga tale veramente, oltrepassi il limite. Purtroppo stiamo
vivendo un grande impoverimento del nostro mondo culturale, proprio per il
fatto abbiamo perso o abbandonato, stiamo abbandonando, le forme ritualizzate
del lutto. Stiamo vivendo una fase storica in cui esiste una specie di lutto
interminabile che viene vissuto però nella solitudine dell’anima individuale.
Il lutto è diventato un fatto privato, quando dovrebbe essere per eccellenza un
fatto pubblico. E questo, come ho detto, comporta un triste impoverimento del
nostro tessuto culturale.
Fabrizio Falconi.
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