06/10/20

L'amore di Kierkagaard (sfortunato)

 


L'AMORE DI KIERKEGAARD

Una delle vicende d'amore che hanno caratterizzato maggiormente la storia della filosofia è sicuramente quella tra Soren Kierkegaard e Regine Olsen.
Quando aveva 27 anni, nel 1840 Kierkegaard si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen (nata nel 1822, quindi diciottenne, anche lei ultima di sette figli), ma, dopo circa un anno, pur essendo innamorato, ruppe il fidanzamento.
Un mistero rimasto insoluto. Forse Kierkegaard non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che avrebbe formato insieme a lei, o forse pensava che la serietà della fede cristiana gli impedisse di "sistemarsi" nei panni di un tranquillo uomo sposato.
Come è noto, il padre di Kierkegaard era fermamente convinto di essere stato maledetto da Dio quando, giovane pastore nella valle dello Jutland, aveva bestemmiato Dio durante una terribile tempesta. L’uomo dopo aver patito la fame, riuscì a diventare un abile mercante benestante. Il Signore, credeva l’uomo, non aveva deciso di punire lui direttamente, ma di condannarlo a vedere morire i propri figli, uno dopo l’altro, tutti in giovane età, dopo che li aveva amati.

Søren le conosceva la convinzioni paterne, e certamente ne fu condizionato. Sentiva che mai sarebbe stato felice nella vita, credeva di doversi aspettare in qualsiasi momento qualche funesta sciagura che si sarebbe abbattuta su di lui, su chi gli era vicino, su chi amava: anche sulla dolce Regine.
Regine si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che peraltro gli procurò rimpianto per tutta la vita.
Lei voleva sposarlo ad ogni costo, nonostante tutto e gli chiese il permesso di rimanere con lui “anche se avesse dovuto starsene chiusa in un piccolo armadio”. Lui quasi impazzì dal dolore. Una straziante angoscia. Lei tentò il suicidio ma poi, dopo alcuni anni si rassegnò e si rifece una vita.

Sposò il suo vecchio precettore Johan Frederik Schlegel, Søren ne rimase addolorato. L’incubo che temeva da giovane si era concretizzato.
Pare che i due si siano incontrati per l'ultima volta il 17 marzo del 1855, pochi mesi prima della morte del filosofo.
Regine doveva seguire il marito alla volta delle Indie occidentali, per fare ritorno chissà quando. A ridosso della partenza si appostò nel centro cittadino, nella speranza di scorgere il suo vecchio fidanzato.
Non appena lo vide, gli sussurrò con un filo di voce: "Dio ti benedica - Possa andarti tutto bene!". Kierkegaard rimase quasi impietrito e riuscì a sollevare un po' il cappello in segno di saluto. Non si sarebbero rivisti mai più.
Regine tornò nel 1860 dai Caraibi. Søren però non c’era. Il suo cuore aveva ceduto per il dolore: un giorno si accasciò improvvisamente a terra, mentre stava passeggiando in quella che era stata la città teatro del loro amore.
Regine, quando scoprì che il suo antico fidanzato era morto, si sentì mancare. Dopo poco scoprì che Søren le aveva lasciato in eredità tutti i suoi averi: i suoi risparmi, i libri, la casa. Come se fosse stata realmente sua moglie.
Perché per Søren Regine era l’amore, l’unico barlume di felicità.

Così si legge in una delle lettere che le scrisse: “Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?[…]”
Quando Regine rimase vedova accettò di rilasciare alcune interviste sul suo rapporto col filosofo e si rese conto del dono più prezioso che lui le aveva fatto .

Era vero che non l’aveva sposata ma aveva consegnato il loro amore puro all’immortalità, poiché nessuno oggi può capire il pensiero filosofico di Søren Kierkegaard ,se non conosce l’amore che ha provato per lei.

Fabrizio Falconi - 2020

05/10/20

Il destino tragico di Federico De Laurentiis, figlio di Dino e di Silvana Mangano, morto a soli 26 anni

 

Federico De Laurentiis (a sinistra nella foto), con un amico

Federico De Laurentiis era il figlio del grande produttore Dino De Laurentiis e di sua moglie, Silvana Mangano. Per l'esattezza il terzo figlio della coppia (ne ebbero quattro) e l'unico maschio, compresi anche i due figli avuti dalla seconda moglie di DDL (entrambe femmine).
Federico nacque il 28 febbraio del 1955.
Divenne un ragazzo meraviglioso, di cui veniva apprezzato il carattere buono e semplice.
Nel 1973, dopo le vicende tumultuose di Dinocittà, nel 1973 Silvana Mangano aveva seguito il marito (alle prese con problemi fiscali in Italia), trasferendosi insieme a lui e ai figli in California, (pronta a tornare indietro ogni tanto per fare i suoi film con Visconti), senza mai trovarcisi a casa.
Il matrimonio con Dino era già in crisi quando avvenne la tragedia.
Federico, che già era comparso spesso negli studi hollywoodiani a fianco del padre, voleva emanciparsi dalla figura di Dino. Cercava una strada sua, come autore. Era molto interessato ai temi ambientali.


Così decise di girare un documentario sulla vita dei salmoni in
Alaska. Nel 1981, mentre girava riprese aeree, il piccolo piper su cui era a bordo si schiantò per una sfortunata circostanza dovuta al pilota che, alla guida del velivolo sul crinale di una collina rocciosa, non si avvide della provenienza di un altro piccolo aereo e per schivarlo, si abbatté sulla roccia.
Federico, che morì sul colpo, aveva 26 anni.


Federico De Laurentiis (a destra) con l'amico Thomas Harrison
(foto gentile concessione di T. Harrison)

Federico con i suoi amici
(foto gentile concessione di T. Harrison)

Per la Mangano fu un colpo durissimo, dal quale non si riprese più. Nel 1983 fu ufficializzata la separazione da De Laurentiis, e poco dopo le fu diagnosticato un tumore allo stomaco; forse intuendo l'avvicinarsi della fine, la grande attrice accettò un ultimo ruolo accanto a Marcello Mastroianni nel capolavoro di Nikita Mikhalkov "Oci ciornie" (1987).


Il 4 dicembre 1989, coll'aggravarsi del cancro, si rese necessario un intervento al mediastino, eseguito alla Clínica La Luz di Madrid, dove viveva con la figlia Francesca;
al termine dell'operazione un arresto cardiaco e il coma. Morì il 16 dicembre, a 59 anni. Il suo corpo è sepolto nel piccolo cimitero di Pawling, nello stato di New York, accanto a quello dell'amatissimo figlio.

Fabrizio Falconi - 2020

Carlo Rambaldi (a sinistra), Federico De Laurentiis e John Guillermin (a destra) alla festa a Hollywood per il King Kong prodotto da Dino de Laurentiis, 1976

04/10/20

La Capanna di Heidegger nella Foresta Nera

 

Martin Heidegger nella baita a Todtnauberg, 1968 FotoDigne Meller MarcoviczCourtesy Bildportal der Kultur-einrichtungen, Berlin © bpk / Digne Meller Marcovicz

LA CAPANNA DI HEIDEGGER NELLA FORESTA NERA

Nel corso del 1922 la moglie di Heidegger, Elfride, fece costruire a Todtnauberg (nella Foresta Nera) una baita (Hütte) dallo stile semplice. Il grande filosofo cominciò così a trascorrervi i periodi liberi dagli impegni accademici.
Qui, fra le altre cose, Heidegger compose la gran parte della sua opera capitale, "Essere e Tempo" (1927) al suono del vento che soffiava tra gli abeti della foresta intorno e sulle travi del tetto.
Heidegger amava visceralmente la Foresta, che utilizzò anche come metafora nella celebre descrizione dell'Essere:
L'Essere scrive è simile a una foresta buia e intricata, dentro la quale si è costretti a vagare lungo i suoi sentieri senza poterla cogliere in maniera oggettiva e distaccata. Saltuariamente, tuttavia, si approda a un diradamento, una «radura» che consente di averne una visuale più ampia pur dal suo interno.
A questa casa-capanna, il filosofo tornò durante tutta la vita, e ancor di più negli anni - difficili - del dopoguerra.
La baita nella foresta nera dove il filosofo scriveva le sue opere esiste ancora: è una modesta costruzione di circa 50 metri quadrati, realizzata tutta in legno poggiante su un basamento di pietre, senza acqua corrente.
Il filosofo e la moglie attingevano l’acqua da un piccolo fontanile poco distante.
Sulla fontana era incisa una stella scolpita nel legno posta come simbolo del sacro collegato ad ogni fonte.
La baita appartiene oggi agli eredi e non è possibile visitarla nell'interno.
E' comunque di semplicità spartana (poco più di una capanna), composta all’interno di quattro stanzette, con una stufa a legna centrale per riscaldarla e per cucinare.
Una piccola scrivania posta davanti ad una finestra che da sulla vallata è il luogo in cui il filosofo scriveva.
La baita è centrale, nel pensiero di Heidegger: simbolo per riflettere sul concetto di sradicamento; l’uomo moderno ha perso il suo rapporto con la terra, e non riesce nel mondo di oggi a ritrovare origine, appartenenza, casa.
Un razionalismo astratto e privo di radici è alla base del consumismo e della commercializzazione di ogni cosa e minaccia nelle fondamenta questo sentimento di appartenenza e con l'ambiente naturale.
Ad Heidegger comunque non riuscì, come avrebbe desiderato, morire in questo luogo. Morì invece a Friburgo a 87 anni nel 1976, poco dopo la morte di Hannah Arendt (1975).

Fabrizio Falconi - 2020
La capanna di Heidegger a Todtnauberg



03/10/20

Il destino tragico di Carole Lombard e l'amore di Clark Gable

 


Icona del cinema americano di sempre, Clark Gable, con il suo sguardo ammiccante e i baffetti così alla moda, all'epoca, era uno dei divi in assoluto più famosi a Hollywood, quando nel 1939 sposò Carole Lombard, attrice anche lei, ma più di tutto - nel clima di guerra di quegli anni - "patriota incandescente".
Fu proprio Carole a convincere il marito, Clark Gable, a "offrire i propri servigi" alla Casa Bianca, avviando insieme un tour di raccolta fondi in favore delle forze armate.
Alla fine del 1941, quando anche gli Stati Uniti d'America erano ormai coinvolti nella seconda guerra mondiale, Carole intraprese un giro propagandistico nell'Indiana, lo Stato nel quale era nata, per vendere obbligazioni di guerra.
Dopo qualche giorno, impaziente di tornare dal marito, decise di far ritorno a casa in aereo, rinunciando al treno, contrariamente a quanto avrebbe voluto sua madre Elizabeth Peters, che la accompagnava.
Era il 16 gennaio 1942 quando il velivolo si schiantò sulle Potosi Mountain, nei pressi di Las Vegas. Carole Lombard e sua madre morirono sul colpo; l'attrice aveva trentatré anni.
Sconvolto, Clark Gable pochi mesi dopo si arruola proprio nell'Aeronautica, forse inconsciamente per cercare di realizzare la stessa morte della moglie.
Nel 1943 partecipa a cinque missioni di bombardamento a bordo dei B-17 sulla Germania, sull'Olanda occupata e anche sul quartiere di San Lorenzo a Roma.
A ogni volo, sotto la tuta d'ordinanza, Gable indossa al collo una scatolina che contiene un gioiello della moglie.
Sopravvissuto alle missioni, ricevette due decorazioni, un'Air Medal ed una Distinguished Flying Cross.
Rientrato in patria al termine del conflitto, Gable non fu più la stessa persona. Anche se riprese a recitare, i suoi personaggi non erano più spensierati e spavaldi: la vitalità di un tempo era perduta. Lo scarso successo di film come Avventura (1945), I trafficanti (1947), Mogambo (1953) portò la Metro-Goldwyn-Mayer a non rinnovargli il contratto.
Fu un periodo negativo per l'attore, sia nel lavoro che nella vita privata.
Nel 1949 sposò Sylvia Ashley, dalla quale divorzierà dopo poco più di un anno di matrimonio, nel 1951. Poco più tardi conobbe Kay Spreckels, una donna che in qualche modo gli ricordava l'amata Carole Lombard, e la sposò nel 1955; fu un matrimonio riuscito e per Gable iniziò un nuovo periodo felice nella vita privata, che lo aiutò a ritrovare serenità e successo anche nella professione.
Clark Gable morì il 16 novembre del 1960 ed è attualmente sepolto accanto a Carole Lombard al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles.

Fabrizio Falconi - 2020

Fonti: Francesca Meloni, Quelle vite vissute ad alta quota, Domenica - Il sole 24 ore, 12 maggio 2019

02/10/20

Come Andy Murray scampò da bambino al Massacro della Scuola di Dunblane

 



Pochi sanno che il celebre Andy Murray, uno dei più grandi tennisti dell'ultimo decennio, e vincitore di tre tornei dello Slam (2 volte Wimbledon e un US Open), si salvò quando aveva solo 8 anni, dal massacro della scuola di Dunblane, la strage avvenuta il 13 marzo 1996 alla Primary School di Dunblane, in Scozia, dove un uomo armato, Thomas Watt Hamilton, uccise a colpi di pistola 16 scolari di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Si tratta di uno dei peggiori massacri di questo genere avvenuti nel Regno Unito.
Alle 9.30 del mattino di quel giorno, un uomo di 42 anni, Thomas Watt Hamilton, armato di quattro pistole e munito di paraorecchie, fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove 29 bambini della prima elementare avevano da poco cominciato l'ora di ginnastica. Hamilton estrasse una dopo l'altra le pistole che aveva in dotazione, iniziando a sparare quasi immediatamente e facendo fuoco sui bimbi e sul personale docente: la mattanza durò circa due-tre minuti. Compiuta la strage, l'uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. Si calcola che Hamilton usò in tutto 105 proiettili.
Nel pomeriggio, il portavoce della polizia Louis Mann comunicò che i morti, oltre all'assassino, erano 17, 16 bambini e la loro maestra, Gwen Mayor. L'insegnante, che fu uccisa con sei pallottole (di cui una le aveva sfondato l'occhio destro), e 15 bambini erano morti sul colpo, mentre un altro bambino era deceduto dopo il ricovero in ospedale.
Per questo massacro la regina Elisabetta II d'Inghilterra proclamò il lutto nazionale.
L'esecutore della strage, Thomas Watt Hamilton, covava l'idea di vendicarsi dal 1975, anno in cui, ventunenne, fu cacciato dalla Stirling Scout Group, dov'era capo scout, per il sospetto di "attenzioni particolari" nei confronti dei bambini. Da allora, Hamilton iniziò a dedicarsi all'hobby delle armi da fuoco, anche se in questo passatempo incontrò spesso la diffidenza delle società di tiro, che sovente gli negarono la tessera. Dalla testimonianza di una vicina, che era entrata nella casa dell'assassino, si apprese che nella stanza di quest'ultimo stavano appese foto di ragazzini seminudi. Altri vicini raccontarono di aver visto molti giovani entrare ed uscire ogni giorno dalla casa di Hamiton.
Lo stesso Hamilton, cinque giorni prima della strage, aveva inviato un messaggio alla regina Elisabetta II, in cui c'era scritto: "Odio il mondo".
Tra i superstiti della strage, vi furono anche due future star del tennis, i fratelli Andy e Jamie Murray, all'epoca rispettivamente di otto e nove anni. I due fratelli Murray al momento della sparatoria si trovavano in palestra, ma riuscirono a salvarsi, nascondendosi sotto una cattedra. Nel 2004, Andy Murray dedicò la sua vittoria nel torneo juniores di Flushing Meadows proprio alle vittime della strage, che accomunò ai bambini caduti nella strage di Beslan.
Il tennista dichiarò:
«Di quel giorno ricordo poco. So che ho realmente capito l'enormità di quello che era successo - ha raccontato - solo tre o quattro anni dopo, quando il peggio era passato, la gente cominciava pian piano a riprendersi e la vita a tornare alla normalità.»
Andy Murray tornò a parlare del massacro di Dunblane nella sua autobiografia Hitting Back, pubblicata nel 2009. Parlò dell'omicida in questi termini:
«La cosa più orrenda è che conoscevamo tutti quel ragazzo. Mia madre gli dava spesso un passaggio. È stato nella sua auto. È ovviamente qualcosa di terribile sapere che hai avuto un omicida seduto nella tua auto. Accanto a tua madre. »
Andy Murray decise però di raccontare in pubblico quanto successo il 13 marzo 1996 per la prima volta soltanto nel 2013, in un documentario della BBC.
Fabrizio Falconi - 2020

Nelle foto, sopra: Andy Murray oggi e sotto: una foto di Murray bambino a otto anni, con la maglietta della scuola di Dunblane.






30/09/20

Herbert Von Karajan e l'ispirazione tra le nuvole

 


Herbert Von Karajan e l'ispirazione tra le nuvole

E' piuttosto nota la grande passione di Herbert Von Karajan per gli aerei. Era un pilota provetto.
Un episodio della sua vita è piuttosto illuminante:
Nel 1977 il grande direttore d'orchestra parte da Vienna a bordo del suo bireattore, diretto a Parigi, dove lo aspettano per un concerto di musica sinfonica dedicato a Beethoven.
L'aereo però attraversa una cellula temporalesca e tra quegli spaventosi tuoni, quei lampi, quella pioggia battente, Karajan trova l'ispirazione per eseguire la Quinta Sinfonia.
Mentre l'aereo sobbalza, il maestro tira fuori dal cruscotto il foglio delle carte aeronautiche e vi appunta sopra alcune annotazioni.
Il foglio fu poi ritrovato dall'assistenza di sala sul leggio, al termine di quella che molti descrissero come un'esecuzione straordinaria, com'è straordinario un temporale che arriva all'improvviso e sembra ingoiarti.

informazioni tratte da: Francesca Milano, Quelle vite vissute ad alta quota, Domenica - Sole 24 ore, 12 maggio 2019, p.33



29/09/20

L'Autunno del Patriarca. L'ultimo grande amore di Ungaretti, la giovane Bruna Bianco.

 


L'Autunno del Patriarca. L'ultimo grande amore di Ungaretti, la giovane Bruna Bianco.

Giuseppe Ungaretti incontrò l'attraente e intelligente "signorina" nel settembre del 1966 a San Paolo del Brasile, al termine di una lezione all'Università. La ragazza si era avvicinata, consegnando al professore/poeta un fascio di sue poesie
E un inaspettato amore si instaura e si declina in tutte le sue forme nonostante l'inaudita differenza d'età: Ungaretti aveva infatti 78 anni, Bruna soltanto ventisei.
Le 377 lettere scritte dal poeta a Bruna sono state fra l'altro di recente raccolte e composte in un volume ( G. Ungaretti, Lettere a Bruna, a cura di Silvio Ramat, Mondadori).
Bruna Bianco era una ragazza tutt'altro che eccentrica. Aveva vissuto a Canelli, in Piemonte, per poi trasferirsi con la famiglia a San Paolo del Brasile, dove si occupava della piccola azienda di famiglia.
Tra i due, il sentimento scoppia naturalmente e senza filtri. Bruna non ascolta le amiche che vogliono dissuaderla. Non calcola né prevede nulla per sé.
Ungaretti è felicemente scosso, si sente tornato fanciullo: "Sono un vecchio uomo che ha ancora un cuore caldo come quello di un fanciullo", scrive, " non ho mai provato una felicità tanto profonda, mai."
Le lettere che scrive a Bruna sono meravigliose, piene di incanto poetico, di essenziali descrizioni, di gioia quasi metafisica.
"Ho mutato la mia notte in prima mattina ai tuoi occhi", le scrive.
"Bruna Bianco, che oggi ha 80 anni e vive in Brasile, dove è diventata un importante avvocato, ha dato il consenso per la pubblicazione delle lettere, raccontando in una intervista:
"L'amore con Ungaretti è stato luce illuminante, fulminante e così ardente fisicamente che porto ancora oggi la fiamma di una passione vera, costante, che da allora ad oggi dà impulso a tutto quello che faccio, con gioia immensa di vita e sicurezza di raggiungere gli obbiettivi proposti."
Ungaretti definì Bianca, in una delle sue lettere: "mio vivente amore di Poesia".
La loro storia d'amore durò fino alla morte del poeta, tre anni dopo.
Ungaretti morì a Milano, nella notte tra il 1º e il 2 giugno del 1970, per una broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo italiano.

notizie tratte in parte da: G.Ficara, "L' ''Antico" Ugaretti tra vita e poesia, in Domenica Sole 24 Ore, 26 novembre 2017, p. 27

28/09/20

Quando Steinbeck andò in Vietnam (e tornò disilluso)

 


Il 30 aprile 1975 la caduta di Saigon pone fine alla lunga guerra del Vietnam, un conflitto che nel corso degli anni '60 vide gli Stati Uniti sempre piu' direttamente coinvolti nel contenimento dell'espansione comunista nel sud est asiatico e che si concluse con la piu' grande sconfitta militare della storia degli Stati Uniti con costi umani altissimi

Nel conflitto perdono la vita 58 mila soldati americani, 250 mila soldati sudvietnamiti, 1 milione di combattenti tra vietcong e soldati nordvietnamiti, 2 milioni di civili

Tra il dicembre del 1966 e l'aprile del 1967 lo scrittore John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, segue da vicino il conflitto al fianco dei militari americani in Vietnam, come inviato di guerra. 

Il suo reportage, 58 dispacci dal fronte, viene pubblicato sul quotidiano Newsday, sotto forma di lettere indirizzate ad Alicia, moglie di Harry Frank Guggenheim, proprietario ed editore del giornale. 

Anni dopo, le lettere di Steinbeck sono raccolte e pubblicate in un libro: "Vietnam in Guerra. Dispacci dal fronte".

Dal quale oggi è stato tratto un documentario: "Steinbeck e il Vietnam in guerra" (in onda stasera alle 22.10 su Rai Storia), che ruota intorno al reportage dello scrittore sulla guerra in Vietnam "vista da vicino", alla sua volonta' di raccontarla "in maniera oggettiva". 

Steinbeck e' convinto, come molti americani, che l'intervento militare in Vietnam serva a "difendere la liberta' di una piccola nazione coraggiosa dall'invasione comunista". 

Quella guerra avrebbe inoltre fatto emergere il meglio dell'America, e il Paese, affrontando quella sfida, si sarebbe rigenerato. 

Fino alla fine della sua permanenza al fronte e al suo ritorno a casa quando il grande scrittore cambia il suo giudizio su quella guerra, cresce la sua perplessità sulla necessita' di quel conflitto e nasce una nuova consapevolezza sulla sua illegittimità

Il documentario, ideato e diretto da Francesco Conversano e Nene Grignaffini, realizzato da Movie Movie per Rai Cultura, raccoglie le testimonianze di tre protagonisti italiani di quella stagione: il giornalista Furio Colombo che per anni, come corrispondente della Rai dagli Stati Uniti, ha raccontato la guerra in Vietnam attraverso una serie di reportage; Francesco Guccini che, ispirato da Bob Dylan, diventa presto in Italia "la voce della protesta", dell'antimilitarismo e del pacifismo, della cultura libertaria e punto di riferimento di una intera generazione; e, infine, la scrittrice Lidia Ravera che, ancora giovanissima e' partecipe, insieme a migliaia di giovani donne, delle lotte e delle manifestazioni di protesta che portano nell'Italia di quegli anni grandi cambiamenti sociali, civili e culturali, alla nascita del femminismo e alla rivoluzione sessuale.




27/09/20

La morte scampata (per miracolo) di Andy Warhol


La morte scampata (per miracolo) di Andy Warhol

La mattina del 3 giugno 1968 Andy Warhol si trovò puntata addosso una calibro 22 impugnata dalla ventottenne Valerie Solanas.
Solanas aveva scritto il manifesto (intitolato "Scum", cioè "Feccia" di un movimento che aveva come obiettivo lo smantellamento della società dominata dai maschi, che non fece mai proseliti e di cui rimase unico membro.
Solanas, dopo l'attentato identificata come femminista radicale affetta da schizofrenia paranoide, aveva avvicinato nelle settimane precedenti Warhol nella sua Factory, che si trovava al secondo piano di un edificio in Union Square.
La Factory era una sorta di tempio aperto delle arti, ed era facilissimo accedervi senza controllo. Nel grande spazio centrale dell'edificio Warhol lavorava alle sue grandi tele e ai set fotografici. Per molti era facile presentarsi, senza essere invitati, e provare ad avvicinare Warhol: aspiranti attori e artisti, poeti e originali di ogni specie.
Alla Solanas, Warhol aveva affidato una piccola parte al film "I, a man", ma non aveva dato nessuna risposta a un copione che lei gli aveva sottoposto, intitolato ("Up your ass", "In culo a te").
In preda alla rabbia dunque Valerie si presentò alla Factory intrufolandosi nell'ascensore insieme a un assistente di Warhol. Questi, appena vide ala Solanas tentò di liquidarla e tornò alla sua scrivania. Valerie gli si avvicinò ed estrasse il revolver. Warhol la implorò di non sparare, ma la ragazza fece fuoco per due volte.
Warhol cercò scampo sotto la scrivania, ma la Solanas gli esplose addosso un terzo colpo, con l'intenzione di finirlo.
La Solanas si rivolse poi a Mario Amaya, il compagno di Warhol e gli sparò. Poi, puntò il revolver contro Fred Hughes, il manager dell'artista, il quale la supplicò di non sparare.
Per fortuna la pistola di Valerie a quel punto si inceppò e la ragazza prese la via della fuga.
In ospedale, Warhol venne dichiarato clinicamente morto.
I proiettili avevano perforato i polmoni, l'esofago, il fegato e la milza.
Un medico italiano del Columbus Hospital, Giuseppe Rossi, riuscì a salvare con un intervento lunghissimo e miracoloso, Warhol.
Solanas rivendicò con orgoglio il suo gesto. Warhol rifiutò di deporre contro di lei e questo valse alla ragazza un grosso sconto della pena, che si ridusse a 3 anni di carcere per tentato omicidio, aggressione e detenzione d'arma da fuoco.
Warhol non la perdonò, ma non volle infierire.
L'attentato e la miracolosa salvezza rinforzarono il senso religioso di Warhol ma ne cambiarono il carattere: da allora in poi divenne schivo, riservatissimo, e secondo alcuni cinico e crudele.
Cosa che stride fortemente con la descrizione dell'uomo che ne fecero i suoi amici più intimi, in primis Lou Reed e John Cale nell'album celebrativo che gli dedicarono dopo la morte.
(nella foto, Warhol fotografato da Avedon qualche anno dopo l'attentato)

Fabrizio Falconi - 2020

(fonti: Demetrio Paparoni, Il senso religioso di Andy Warhol oltre i colori della Pop Art, Domani, 22 settembre 2020)

Valerie Solanas fotografata dopo l'arresto


25/09/20

Stanley Withney al Gagosian di Roma fino al 17 ottobre: "Non mi stanco mai di contemplare Roma"


I blocchi di colori vivaci che compongono le griglie delle grandi tele rimandano al clima artistico della New York degli Anni Sessanta. 

I lavori di Stanley Whitney, invece, hanno dentro l' impronta degli edifici della Citta' Eterna. 

"Il colore, la luce, l'architettura antica; non mi stanco mai di contemplare Roma - spiega - . Da sempre illumina ed ispira il mio lavoro. La mia tecnica pittorica attuale ha iniziato a prendere forma negli anni novanta, quando, immerso nella citta', mi guardavo intorno ammirando l'architettura antica e rinascimentale. A Roma vige un ordine e un ritmo antico che voglio nei miei dipinti". 

La GalleriaGagosian, nel cuore della citta', dedica all' artista afroamericano fino al 17 ottobre la prima mostra personale - che e' anche la riapertura al pubblico dopo i mesi di lockdown - con una decina di opere di grandi dimensioni realizzate espressamente per questo appuntamento.

"Stanley Whitney - dice Pepi Marchetti Franchi, direttrice della Galleria -. gia' da decenni lavora sull' astrazione geometrica. Nel suo periodo a Roma ha insegnato in una universita' americana e ha cristallizzato la sua ricerca nel formato quadrato, con la serie di riquadri a fasce ispirata dall' architettura di Roma, dal Colosseo a Palazzo Farnese, e dall' archeologia etrusca".

E' una influenza che non e' legata al colore ma alla struttura compositiva con elementi sovrapposti.

Una trasposizione pop dell' archeologia classica? "Non so se lui la chiamerebbe cosi' ma, certo, e' una definizione che diverte", osserva Marchetti Franchi. I segni delle pennellate, le sbavature, i colori luminosi e brillanti applicati con densita' differenti, le geometrie disegnate a mano libera; nei lavori di Whitney, che hanno quotazioni dai 40 mila ai 300 mila euro, il risultato del gioco cromatico e' di forte impatto. L' artista, nato nel 1946 a Philadelphia, si divide tra New York e lo studio aperto da tempo nelle campagne di Parma. Amante della musica, soprattutto il jazz, Whitney riversa nella sua ricerca la passione per il ritmo e l' improvvisazione

Sue opere figurano a New York nelle collezioni del Metropolitan, al Guggenheim e al Whitney Museum of American Art, e in altre prestigiose strutture espositive degli Stati Uniti.


Stanley Withney




23/09/20

Il lato religioso di Andy Warhol

 


Il senso religioso di Andy Warhol

Anche se pochi lo sanno, in Andy Warhol esisteva un profondo lato spirituale, o meglio, religioso.
Le cui radici affondavano nel rapporto viscerale che aveva con la religiosissima madre cattolica Julia. Appartenendo all'élite dello star system, Warhol evitava di parlarne, temendo che avrebbe danneggiato la sua immagine pubblica rivelare che teneva un libro di preghiere sul comodino, un crocefisso a fianco del letto a baldacchino, immagini sacre ovunque e addirittura una cappella privata nella quale recitava ogni mattina le preghiere insieme alla madre, quando lei veniva a trovarlo nella sua casa di New York.
Non era insolito che si fermasse il pomeriggio a pregare nella chiesa di Saint Vincent Ferrer di Lexington Avenue, dove accendeva sempre una candela.
La pietà segreta di Warhol si concretizzava anche nell'aiuto ai poveri: donava con regolarità il suo tempo a una mensa di senzatetto e bisognosi e provava grande orgoglio nel finanziare gli studi dell'adorato nipote in seminario.
Solo gli amici più stretti erano a conoscenza della sua religiosità.
Accuratamente nascosta dietro la parrucca nascosta e il modo particolarissimo, eccentrico di parlare che erano la sua maschera.
Il suo rapporto con la fede si consolidò dopo l'attentato del 3 giugno 1968, in cui la ventottenne Valerie Solanas gli scaricò addosso diversi colpi di pistola, al torace e al ventre. Si salvò per miracolo, dopo giorni di agonia.

Fabrizio Falconi - 2020

(fonti: Demetrio Paparoni, Il senso religioso di Andy Warhol oltre i colori della Pop Art, Domani, 22 settembre 2020)

22/09/20

Il misterioso viaggio di Fellini in Messico e l'incontro con il mito Castaneda


Lo scrittore Andrea De Carlo, 67 anni, parla sul Venerdì di Repubblica di Federico Fellini, rivelando particolari inediti del famoso viaggio, compiuto insieme al grande maestro riminese in Messico, sulle tracce di Castaneda.

Fellini aveva chiamato De Carlo come aiuto regista sul set de La Nave Va, nel 1983, e l'amicizia tra i due era culminata nel viaggio messicano che Fellini voleva fortemente compiere sull'onda delle suggestioni esoteriche che aleggiavano intorno a Carlos Castaneda, scrittore di origini peruviane, trasferitosi negli USA e poi in Messico, personaggio fantomatico e inafferrabile, letterato eclettico e iniziato allo sciamanesimo mesoamericano.
Il viaggio si rivelò, come prevedibile, un fallimento: Castaneda dopo un paio di brevi incontri, si dileguò, rendendosi irrintracciabile come era il suo stile: non solo. Nell'albergo dove dormivano Fellini e De Carlo, all'indirizzo del regista cominciarono ad arrivare messaggi misteriosi e minacciosi.
Racconta oggi De Carlo: "C'è Frank Horton, un giornalista americano, che ha ricostruito la storia; secondo lui fu proprio Castaneda a organizzare le minacce per troncare il progetto (di un film sceneggiato proprio da Castaneda e girato da Fellini). Chissà. Certo fu l'incontro tra due grandi bugiardi affascinati dell'esoterico, in un momento critico della carriera di tutti e due."
Al ritorno dal Messico, l'amicizia tra De Carlo e Fellini si incrinò quando lo scrittore decise di scrivere un romanzo, "Yucatan" ispirato a questo viaggio, "bruciando" di fatto l'idea di Fellini, che non glielo perdonò.
Il film comunque, secondo De Carlo, difficilmente si sarebbe realizzato: " Fellini era troppo inquietato da tutta la storia. A Chichen Itzà, camminando intorno a quelle piramidi maya, dove un tempo si svolgevano sacrifici umani, e il sangue colava dalle gradinate di pietra, era sconvolto.
In lui c'era anche l'umiltà che incontri solo negli artisti veri, di chi sa che rispetto ai misteri dell'universo non siamo nulla. In quel viaggio non era giovane, non era in forma, forse fu l'episodio di maggior coraggio fisico della sua vita. Prendere l'aereo, arrivare a Cancùn, girare in jeep seguendo indicazioni misteriose..."
Insomma, sarebbe bello ricostruire per bene, un giorno questo viaggio. La cosa ancor più sorprendente - e in perfetto climax con la vicenda e con il personaggio di Castaneda - è che non esiste una sola foto pubblica di questo viaggio, e di Fellini in Messico (io almeno non sono riuscito a trovarla).

Fabrizio Falconi - 2020