Le rovine di Tarkosvskij e Stalker
di Fabrizio Falconi
A Piranesi e al suo mondo fantastico
di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in
tanti, negli ambiti più diversi.
Emmanuel Carrère, in un saggio di
parecchi anni fa (9) citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista
indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi
territori della Russia, Andrej Tarkovskij.
E lo faceva a proposito di uno dei
film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio
sulle rive del Volga), Stalker.
In quel film, Tarkovskij prendeva le
mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul
ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic
Strugackij nel 1971.
Stalker (girato tra grandi
difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979) racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore
alcolizzato, uno scienziato, e la loro
guida, cioè lo stalker (termine che
deriva dall’inglese to stalk,
avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto
pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza
dove vengono realizzati i desideri.
Nessuno sa cosa sia la Zona,
esattamente. Lo stesso Tarkovskij
perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i
festival ai quali Stalker partecipò,
chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo
disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore. E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona.
Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà
extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto
sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli
intrepidi stalker osano violarlo. Il
paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso:
come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute
di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente
spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro” che fanno pensare proprio al genio di
Piranesi.
Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona,
ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire
il tempo (10), che cosa simboleggia,
ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di
rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra
cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la
vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà
dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere
il fondamentale dal passeggero.
In queste poche righe Tarkovskij
dice già molto, suscitando molte nuove domande.
La Zona che è la protagonista del
suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade
spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna,
il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun
vero piacere.
Rivedendo il film oggi ritorna alla
mente il motto di Piranesi: sporcare per
trovare.
I tre uomini devono sporcarsi, e
parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro
cosa sia. E’ la sete di conoscenza, in
fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non
hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti
sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.
Se la Zona è la vita, come dice
Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i
piedi, come accade a chi vive. Solo chi
rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed
è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.
Attraversare il luogo della
catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire
il proprio desiderio.
Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso
gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente. E così mette in bocca allo Stalker il
racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che,
riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse
tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito
dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.
Cosa succede ai due viaggiatori,
allo scrittore e allo scienziato ?
Giunti sulla soglia della stanza,
nessuno dei due ha il coraggio di entrare.
Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo
angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare; ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare,
asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.
Il ritorno dei tre uomini appare
dunque come una sconfitta.
L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in
loro, di non aver procurato nessun cambiamento.
Ma non è così.
Dopo essersi separati nello stesso
bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che
seguiamo nel suo ritorno a casa.
Qui egli dà sfogo alla disperazione:
ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della
fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai
rispettivi pregiudizi.
E’ la constatazione della perdita
della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij. E’ proprio la mancanza di fede a negare ai
due viaggiatori la possibilità del cambiamento.
Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente,
ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è
protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso
delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi
poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed
una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo. La bambina ha dunque ricevuto in dono
misteriosi poteri ? Se non riuscirà a
camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo
sappiamo. Ma ascoltiamo, in sottofondo,
le inconfondibili note dell’Inno alla
Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il
film.
Lo Stalker, che ha attraversato la Zona, sembra, secondo
quanto ci dice Tarkovskij aver resistito.
Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la
fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini
sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal
passeggero.
E forse per questo la Zona ha esaudito
il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).
Le rovine dunque, sembrerebbe
suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo
quella di far rinascere, ma anche di salvare.
Un tema che stava personalmente a
cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista
libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.
Gli anni della realizzazione di
Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij. La notorietà improvvisa che gli ha portato
l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con
Valerio Zurlini per Cronaca Familiare)
con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli
ha creato in patria parecchi problemi. Andrej Rublev, il film seguente arriva
al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver
sopportato molti tagli. Ciò nonostante
la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il
Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.
Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi
in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima
sempre più irrespirabile. Il regime, pur
senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa
come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi
burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il
silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.
Ma Tarkovskij non può che seguire la
sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e
ostacoli sempre più gravosi prima Lo
Specchio (1974) che raggiunge il
culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia
puramente autobiografica, e poi Stalker, che
sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.
Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di
umiliazioni in patria. La distribuzione
dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori
dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione
direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene
presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito
a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Tarkovskij è un artista sempre più
ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno
dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il
regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e
Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul
letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a
Parigi la notte del 28 dicembre 1986.
Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi
diari (11) lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per
tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi
burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione,
di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e
comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da
raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…) Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da
buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della
lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo. (…) Bisogna ricominciare tutto da zero. Ne avremo la forza ? (12)
Le rovine di cui la trama di Stalker
è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij
descrive la catastrofica distruzione che
lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che
sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un
operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto
maldestramente dai laboratori della Mosfilm.
Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij
non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi. Riprende la penna in mano solo a dicembre di
quell’anno e il giorno 28 (28 dicembre,
lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo
di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella
sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker, in una delle scene più importanti:
La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce,
è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene
secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La
flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è
indurito, non vincerà. (13)
Sembra un vero manifesto dell’opera
di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo
proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello
scienziato.
La fragilità e la debolezza sono i
paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole
poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e
debole delle rovine ?
Si capisce così per quale motivo
Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo
film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana
dell’Abbazia di San Galgano - a popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.
La vita stessa del regista, durante
le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo
futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non
riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.
Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni,
scrive il 15 aprile del 1978 (14), i
medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto. Era proprio una cosa che non avrei mai
pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe
stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.
Il regista si riprende in fretta.
Due settimane dopo annota che l’infarto si
sta cicatrizzando.
Ma è solo il primo segnale di una
salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi
per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se
stesso.
Il viaggio in Italia, allora che
inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato
dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo
per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato
progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti
dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di
russo.
Per Tarkovskij è anche una occasione
di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino
per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.
Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO, si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.
Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO, si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.
In
quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni, nella
sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.
Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi,
alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia
straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua
moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi (A
sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e
settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto").
Il
31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio
primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.
Domani faremo l'esercizio individualmente. Gli esercizi, o le
tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo
deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due
frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un
fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con
Michelangelo.
Prima meditazione: Mantra.
E
il giorno dopo, 1 agosto:
Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad
addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio
giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu".
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto
lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto
di nuovo dei lampi blu. (15)
Fa
una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella
magica estate del 1979.
Appena sei anni dopo, nel dicembre
1985, appena terminate le riprese del suo ultimo
film, Sacrificio (Offret), sorta di testamento
spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui
crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a
Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone
sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.
I
diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si
rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene
almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese
Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale
del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei
famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla
Russia e ricongiungersi al padre.
Sono arrivati, Andrjusa e
Anna Semenovna ! scrive
a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa
pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di
nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente, Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto,
gli occhiali sulla federa, un libro (la
Bibbia?) accanto al cuscino. Gli
ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra
momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul
diario.
Eppure
anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce
inaspettata. L’11 aprile, quando la
malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e
i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive: Un’immensa
speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente
come felicità. La speranza che la
felicità sia possibile. Fin da
stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)
Un
mese dopo, Sacrificio viene
presentato al Festival di Cannes. La
giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le
polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria. Il figlio,
Andrei, va a ritirare il premio
sulla Croisette al posto del padre.
Nelle settimane successive, che gli
restano da vivere, Tarkovskij continua a
riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli. Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri,
scrive. E nonostante il termine
sacrificio, sacrificale, comporti un significato quasi negativo ed
esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato)
riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è
sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18) Sul tema del sacrificio, dell’incontro
tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni
uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita - e quello divino di Cristo, si giocano le
ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima,
“faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima
di morire.
Sono anche le considerazioni che concludono il
suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero
teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive: Il
nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il
pragmatismo. Il nostro mondo umano è
costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha
costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non
crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva,
nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza
dei fatti ? La risposta a questo interrogativo,
forse, è contenuta nell’antica leggenda
sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso
come base del film più importante nella mia biografia artistica (20). Un
monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e
innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di
quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella
forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo:
una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma
questo è forse un miracolo ? E’ soltanto
la verità. (21)
I
rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è
inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è
sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.
Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non
importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la
morte.
Note
9.
Emanuel Carrère, Troisième plongée
dans l’océan, troisième retour à la maison, in “Positif”, n.247, ottobre
1981.
10. La citazione è riportata da T.
Masoni – P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano 2001. p. 84.
11. I
diari di Andrej Tarkovskij, con il titolo scelto dall’autore, Martirologio, sono stati pubblicati per
la prima volta in Italia dalle Edizioni della Meridiana di Firenze, nel 2002,
curati dal figlio del regista, Andrej A. Tarkovskij e la traduzione dal russo
di Norman Mozzato. I diari coprono un intervallo di tempo che va dal 1970
all’anno della morte, il 1986.
12.
Op.cit. 26 agosto 1977, p. 218.
13.
Op.cit. 28 dicembre 1977, p. 219. La
citazione in realtà viene riportata così da A.Tarkovskij: Lao-Tze, epigrafe al Giullare Pamfalon di Leskov. Probabilmente è leggendo Leskov che
Tarkovskij si imbatte in questa frase di Lao-Tze.Che comunque è traduzione
piuttosto fedele dell’originale, confrontabile su Tao Te Ching LXXVI (trad. it. di Anna Devoto, Adelphi, Milano 1973,
p.164).
14.
Op. cit. 15 aprile 1978, p. 224.
15.
Op. cit. 29 luglio – 1 agosto 1979 p. 267.
16.
Op. cit. 11 aprile 1986, p.663
17.
Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno
“scandalo” la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di
Tarkovskij.
18.
Op. cit. p.682.
19.
Scolpire il Tempo di Andrej Tarkovskij è pubblicato in Italia da Ubulibri,
2002, a cura di Vittorio Nadai.
20.
Il film a cui si riferisce è l’ultimo, Sacrificio.
21. Scolpire il Tempo, Op.cit. p. 211.