05/09/16
La poesia della domenica: "Quando io morirò, nessuno saprà dire" di Anna Maria Ortese.
Quando io morirò, nessuno saprà dire
Quando io morirò, nessuno saprà dire
nessuno ricorderà la tua dolce bellezza
quando, vestito di celeste e di rosso,
stendevi la tua giovinezza su un prato
e la luna splendeva sulla tua fronte, gli occhi
ridenti e azzurri, la bocca rosa.
... Sei come una fanciulla e un soldato
Sei tenero e sei grave, fiducioso e sconsolato,
hai collere e scherno, e un sorriso timido.
... Presso la porta, sembrava che il sole
avesse sbagliato la strada, invece che l'orizzonte
avesse salito le scale di casa.
.... Eri là, splendente.
... Non posso dirti come sono in ginocchio
davanti a te, caro,
mio caro, mio splendore.
...Oh non è bella la casa che visiti,
non è importante la donna che ti aspetta,
non è questo un palazzo di cristallo,
né questa una signora.
... Ma tu, mio caro, mio tenero amore,
mia nuvola dorata, mio canto del mattino,
mio uccellino celeste, mio mazzetto di ciliege,
e anche spina per pungere, coltello per ammazzare,
tu non ti accorgi se non sono una signora.
...Tu cerchi l'erba. Oh, stenditi a riposare.
Anna Maria Ortese, tratto da Il mio paese è la notte, Empirìa, 1996.
03/09/16
Un Bukowski intimo alla Mostra del Cinema di Venezia, in un docufilm di Matteo Borgardt.
"I complimenti e la fama ti
infiacchiscono, l'odio invece ti fa attaccare ancora di piu' a
quello ami fare".
Parola di Charles Bukowski, protagonista di
You never had it - An evening with Bukowski, il documentario di
Matteo Borgardt costruito con i filmati della videointervista
realizzata con lo scrittore nel gennaio del 1981 dalla madre del
regista, la giornalista Silvia Bizio.
Il film non fiction,
presentato alla Mostra del cinema di Venezia come evento
speciale delle Giornate degli autori, regala un Bukowski intimo,
conviviale, che non nasconde le sue fragilita' e si confida
bevendo vino, fumando e facendo visitare alla reporter (anche
coproduttrice del film), diventata un'amica, la sua casa di San
Pedro in California.
Nelle immagini, che erano rimaste negli scatoloni per 30 anni
nel garage di Silvia Bizio, Bukowski parla d'amore, sesso, del
suo percorso d'autore, degli altri scrittori, che preferisce
evitare ("meglio gli idraulici e i venditori di auto usate"),
di quello che ha imparato negli anni.
Un racconto arricchito
dalle letture che fa di proprie poesie e dai disegni che
realizzava per i suoi libri. "Dopo aver passato la vita a bere e
scopare bene, ho capito che queste due cose non sono poi cosi'
importanti" dice sorridendo. Accenna anche a come la sua
difficilissima infanzia ("papa' mi picchiava con la cinta del
rasoio..."), gli sia servita per diventare scrittore."Mio padre
e' stato un maestro di letteratura?. Mi ha insegnato cos'e' il
dolore".
02/09/16
Il film del giorno: "Kundun" di Martin Scorsese (1998).
E' la storia dell'attuale Dalai Lama, già vista e già raccontata in molti altri film, l'ultimo dei quali, "Sette anni in Tibet" di Jean-Jacques Annaud (molto più scarso qualitativamente).
Scorsese invece della Patagonia sceglie il Marocco per ricostruire il Tibet e Dante Ferretti si scatena per rappresentare al meglio e in modo credibile la città di Lhasa e i grandiosi scenari tibetani.
Scorsese sceglie anche una lingua opposta rispetto ad Annaud - evitando il polpettone narrativo - raccontando con pochi dialoghi e per immagini, il senso di una spiritualità molto lontana dal cattolicesimo dal quale proviene - nella sua storia famigliare - il regista.
Ma il film funziona solo a metà e molto bene solo nella sua parte puramente cinematografica. Gli ultimi venti minuti sono da antologia del cinema, con il montaggio straordinario di Thelma Shoenmaker "costruito" sulle iterazioni musicali di Philip Glass e della sua splendida colonna sonora.
01/09/16
"Narcisismo - Tre riflessioni liquide" di Patrizia Manganaro (Recensione).
Un prezioso piccolo libro di Patrizia Manganaro, docente di storia della filosofia contemporanea e di filosofia del linguaggio presso la Pontificia Università Lateranense e grande studiosa del pensiero di Edith Stein.
Uno studio dedicato al fenomeno post-moderno del Narcisismo, muovendo i passi dal mito di Narciso, narrato nel terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio.
Il mito di Narciso, scrive la Manganaro, rende edotti sull'epoca attuale, visto che il presente è soprattutto visione.
Manganaro riporta qui una illuminate considerazione di Pierangelo Sequeri: "Nella postmodernità non è più Prometeo il primo santo del calendario irreligioso come voleva Marx. E nemmeno Dioniso, come voleva Nietzsche. E' Narciso."
Siamo cambiati dalle immagini e l'immagine liquida di Narciso è ombra, fantasma, icona, illusione, idolo, simulacro, figura, allucinazione, spettro, scintilla, miraggio dei nostri tempi.
Di qui il dramma dell'autocoscienza e dell'autoreferenza.
Ci aggrappiamo d'istante in istante in ciò che appare, narcotizzati, in non luoghi disumanizzati.
Una vera cultura del narcisismo che secondo Manganaro produce alienazione, disagio, crepuscolo.
Di questi fenomeni sono specchio gli intellettuali Narcisi dell'epoca attuale, ai quali la Manganaro dedica un ultimo bruciante, crudissimo capitolo.
A questo narcisismo, cioè all'egoismo, è possibile opporre un'autoreferenzialità buona: l'egocentricità, che vuol dire ripartire dalla intimità. Una forma di resistenza, di dissidenza, di protesta, per la costruzione - scrive Manganaro - di una polis e di una universitas più autentiche, al servizio dell'interumano: la pratica non ego-logica della ragione. Silenziosa, discreta, empatica: perché la felicità si dà per sottrazione.
Fabrizio Falconi
31/08/16
I misteri della Fontana delle Tartarughe, in Piazza Mattei a Roma.
La fontana delle tartarughe in Piazza Mattei (foto di Francesco Rosa)
I misteri della Fontana delle tartarughe di Piazza Mattei.
E’ un’opera d’arte giustamente ammirata in tutto il mondo, la Fontana delle Tartarughe, in Piazza Mattei, realizzata nel 1585 con molta probabilità da Giacomo Della Porta e da sempre molto amata dai romani.
La Piazza non poteva che chiamarsi in questo modo, visto che su di essa si affacciano ben cinque edifici che la potente famiglia romana fece costruire nel corso dei secoli, al punto tale che la zona veniva indicata popolarmente come isola dei Mattei.
Il fatto che questa meravigliosa opera non sia esplicitamente firmata e la rapidità con cui venne eseguita generarono diverse leggende popolari, che come sempre forse hanno la base un fondamento di verità.
Secondo la più celebre di questa, il duca Muzio Mattei, rampollo della celebre famiglia, che aveva perduto una parte notevole della sua fortuna al gioco, decise di sorprendere il futuro suocero con un coup de theatre e convincerlo a dargli in moglie la figlia, dopo una lunga resistenza.
Decise così, secondo le leggenda di far realizzare, nel tempo di una sola notte, la fontana proprio al centro dell’isolato dei palazzi che appartenevano alla famiglia Mattei.
La mattina dopo, convocati padre e figlia nella residenza nobiliare, senza dir nulla, li fece affacciare alla finestra, da cui si poteva ammirare l’opera appena realizzata, esclamando: Ecco che cosa è capace di fare in poche ore uno squattrinato Mattei !
Naturalmente, secondo la leggenda, l’espediente ebbe successo, eccome, e la giovane andò in sposa al Duca, con perfino le scuse da parte del suocero diffidente e la finestra, che era stata testimone del fatto, fu murata per porre fine alle chiacchiere.
La leggenda è però palesemente falsa, almeno per la tempistica delle date: la fontana fu realizzata infatti, come abbiamo detto, nel 1585 ed era quindi certamente preesistente al Palazzo Mattei antistante, che è del 1616.
C’è allora chi ha affermato che in quella fatidica notte non avvenne la vera e propria realizzazione della fontana (del resto del tutto inverosimile), ma il suo spostamento: l’opera cioè, era già stata realizzata, ma si trovava in un posto diverso e nascosto, nell’isola dei Mattei, e il Duca si limitò ad ordinare che fosse spostata nel centro della piazza, sotto le finestre del palazzo, per fare colpo sulla famiglia della sua amata.
Quel che è certo è che l’artefice della bellezza di questa fontana fu, oltre a Giacomo Della Porta, lo scultore Taddeo Landini, che realizzò le elegantissime figure dei quattro efebi di bronzo, i quali si ergono su conchiglie di marmo, poggiando il piede su altrettanti delfini, sempre di bronzo, i quali con la mano sollevata spingono nella vasca quattro tartarughe.
E’ noto che all’inizio, nel progetto originario, le tartarughe non dovevano esserci: a saltare nella conca della fontana dovevano essere invece quattro delfini, che non furono invece mai realizzati.
Le tartarughe furono aggiunte nel corso di un restauro della fontana, avvenuto nel 1658 per volere di Papa Alessandro VII e sono opera di Andrea Sacchi o molto più probabilmente di Gian Lorenzo Bernini.
E forse per questo, per il loro valore o semplicemente per la loro fama di animali-talismano, le tartarughe furono più volte rubate: la prima volta all’inizio del secolo scorso, nel 1906.
Per fortuna in questo, come negli altri casi, le tartarughe furono sempre ritrovate.
L’ultimo furto avvenne in pieno conflitto mondiale, nel 1944 e in quella circostanza fu addirittura uno straccivendolo a farle ritrovare e a riconsegnarle integre alle autorità, le quali però dopo l’ennesima sparizione (con ritrovamento) nel 1979, si convinsero che fosse giunto il momento di salvaguardare le tartarughe anche per la relativa facilità con cui potevano essere asportate da malintenzionati dal monumento. I quattro pezzi originali del Bernini furono messi al sicuro nei Musei Capitolini e sulla fontana furono poste delle copie, quelle che ci sono ora, in tutto identiche all’originale.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013, Roma.
Foto in testa di Francesco Rosa.
30/08/16
"Una storia comune" di Ivan Gončarov - (Recensione).
Pubblicato originariamente da Fazi nel 1999, torna in libreria ristampato, questo piccolo grande capolavoro di Gončarov, molto ammirato da Lev Tolstoj.
Una storia comune racconta le vicende di un giovane romantico e sognatore, Aleksandr Aduev, figlio unico, che si trasferisce dalla provincia, dove la madre lo ha sempre adorato e vezzeggiato, a San Pietroburgo, ospite in casa dello zio Pjotr, un pragmatico capitalista sposato con Lizaveta Aleksandrovna, una bellissima donna molto più giovane.
Aleksandr che crede convintamente nell’amore eterno, nell’amicizia indissolubile e soprattutto si reputa un grande poeta, si scontra immediatamente con la dura filosofia cinica dello zio, uno dei caratteri più indimenticabili della letteratura russa, che cerca di orientarlo verso una visione spietatamente realistica della vita.
Il romanzo è dunque una vicenda travolgente, che provoca il lettore con toni apparentemente leggeri, su ciò che di più essenziale riguarda la vita: ovvero il senso stesso dell'esistenza, in un continuo confronto-scontro tra gli ideali primari di Aleksandr, nutriti da un cuore puro e quelli del navigato zio, che sembrano prevalere sempre e comunque: la vita, sostiene, è sostanzialmente prosa e ha da essere vissuta prosaicamente.
Con spirito implacabile Gončarov sembra voler smontare pezzo a pezzo il convincimento secondo cui la vita deve continuare a nutrirci con qualcosa di intangibile e superiore.
Vinto dalle amarissime disillusioni amorose e letterarie, ad Aleksandr non giova nemmeno il ritorno nella casa avita, nel cuore della natura che lo ha generato.
Spinto dalla smania fa ritorno a San Pietroburgo e in un ultimo confronto con lo zio, tutto sembra nuovamente in bilico, perché anche a Pjotr la vita sembra aver presentato un conto definitivo, in forma di nemesi.
Ma il finale del geniale romanzo è completamente aperto, e a Goncarov non interessano le facili consolazioni.
Scritto in prosa e versi e pubblicato nel 1847, è il primo libro di una trilogia (a cui seguono il celebre Oblomov e Il burrone). Dimenticato per oltre un secolo a causa della sua mancanza di impegno politico e sociale, il libro viene oggi riscoperto come un grande capolavoro della letteratura russa dell’Ottocento, che conserva una brillante e amarissima modernità.
Fabrizio Falconi
16/08/16
ll libro del giorno: "Stanley Kubrick la biografia", di John Baxter.
Appena morto il grande Stanley Kubrick, fu completata questa biografia che ricostruisce la storia del maestro senza indulgere troppo nel pettegolezzo e nelle ovvietà, a proposito di un monumentale personaggio sul quale è stato scritto di tutto.
Notizie e aneddoti interessanti che raffigurano un genio ombroso, dittatoriale, comunque sempre purissimo.
Verso la fine del libro, disponendo di notizie sempre più scarse, il ritmo di allenta e la narrazione - all'inizio appassionante come un romanzo - si fa più faticosa.
Qui e là Baxter è costretto a lunghe divagazioni per sopperire all'esile consistenza delle scarne testimonianze.
Un libro comunque utile e dal grande valore documentale.
15/08/16
Poesia di Ferragosto - Atarassia (de tranquillitate animi) di Fabrizio Falconi.
Atarassia
(de tranquillitate animi)
Un cuore di giada vorrei
mantenere lo spazio aperto
soltanto
dentro di me, vivere di niente
come un comandamento.
Allontanare
il tuo bellissimo gioco roseo
intristirmi beato
al cardine dei miei anni
canuti, aspettare
il freddo guardarti da lontano
come si guarda
un errore che da sé
non si comprende.
Hai lasciato disordine
e tutte le ferite
resteranno brucianti
non così il mio cupo orizzonte
colorerà ogni spazio
della tua imperdonabile
assenza.
Fabrizio Falconi - inedito 2010 - © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
in testa: fotogramma da Zerkalo (Lo Specchio) di Andrej Tarkovskij, 1975.
14/08/16
Poesia della domenica - "Ricordare qui non basta", di Rainer Maria Rilke.
III.
Ricordare, qui, non basta, il puro
esistere di quei momenti sia
sul mio fondo, un precipitato
della soluzione smisuratamente satura.
Perché io non rammento, quello che sono
mi tocca per causa tua. Non ti invento
in punti tristemente raggelati
da cui fuggisti; la realtà stessa della tua assenza
è calda di te e più vera di una mancanza.
La nostalgia si perde troppo spesso nell'indistinto.
Perché dovrei espellermi, mentre forse il tuo influsso
mi è lieve, come il chiaro di luna a quel posto alla finestra.
Rainer Maria Rilke, composta probabilmente a Duino, nell'ottobre del 1911 e conservata nel lascito di Lou Andreas Salomé in una trascrizione fatta da Rilke nel suo periodo a Monaco (1919).
13/08/16
Le catacombe di San Valentino e gli immensi tunnel sotto la collina dei Monti Parioli.
Le catacombe di San Valentino e gli immensi tunnel sotto la collina dei monti Parioli
Quando si imbocca viale Maresciallo Pilsudski, venendo da viale Tiziano, si lasciano alla sinistra gli impianti sportivi dello stadio Flaminio e del palazzetto dello sport, mentre a destra, all’interno di un muro di cinta, passano del tutto inosservati i ruderi di un’antica basilica romana dedicata da papa Giulio I (nel V secolo d. C) a san Valentino, vescovo di Terni e martire.
La basilica, costruita intorno al sepolcro del santo, fu ampliata nell’VIIIsecolo d.C., ma ben presto cadde in rovina e oggi non rimangono che pochi resti.
Eppure, per tutto il Medioevo, a fianco all’edificio, esisteva anche un monastero nel quale trovarono ospitalità e rifugio i pescatori di fiume e i vignaioli della zona, che erano fuori del recinto cittadino, quando Roma era minacciata dalle scorrerie saracene e dalle guerre baronali.
Vicino ai ruderi esiste ancora oggi l’ingresso alle antiche catacombe.
Al di sotto e all’interno della collina dei monti Parioli, infatti, si estende un immenso cimitero sotterraneo che nel corso dei secoli ha restituito una gran quantità di sarcofagi, lapidi funerarie e iscrizioni, alcune delle quali oggi abbelliscono alcuni dei palazzi del quartiere considerato, tradizionalmente, il più ricco della Capitale.
La galleria più antica di questi sotterranei è stata allargata in forma di cappella e ornata di splendide pitture risalenti al VII secolo d.C., con scene desunte dal protovangelo di Giacomo, scritto nel 150 d.C.
Le diramazioni delle gallerie delle catacombe di San Valentino sembra siano estesissime.
Una conferma indiretta si è avuta qualche anno fa, durante gli scavi per l’erezione di un edificio in viale Parioli, al civico numero 16, quando gli operai si sono imbattuti in cunicoli sotterranei ben tamponati all’interno e asciutti, che secondo gli archeologi sono riferibili alle catacombe di San Valentino.
Sulla base di queste acquisizioni c’è chi ha teorizzato, non senza validi argomenti, che queste gallerie raggiungano, ricongiungendosi a esse, le catacombe di Priscilla, sulla via Salaria.
A partire dal Cinquecento, comunque, le gallerie sottostanti la collina dei Monti Parioli furono adattate a grotte e utilizzate come deposito per le botti di vino.
Più prosaicamente, negli ultimi decenni, le stesse grotte sono diventate un ricovero per diseredati di varie nazionalità: emergenza che ha indotto le autorità capitoline a serrarne gli ingressi con antiestetiche cancellate in ferro.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013.
Foto nel post, di proprietà dell'autore.
12/08/16
Donald Trump ? Ha successo perché siamo tutti più scemi. Una analisi di Richard Zimler.
L'Espresso ha pubblicato questo interessante intervento di Richard Zimler sul fenomeno Trump. Lo riporto qui sotto: Zimler, scrittore americano naturalizzato portoghese, è autore de "Il cabalista di Lisbona", "Gli anagrammi di Varsavia" e "The Night Watchman".
Un anno fa ho tenuto una conferenza sull’importanza della narrazione e per dimostrare la mia tesi sull’infantilizzazione del cinema americano ho fatto una ricerca sui primi film in classifica nel 2014.
Ecco i maggiori successi di quell’anno: “Capitan America”, “X-Men”,“Guardiani della Galassia”, “Interstellar”, “Cattivi vicini” “Tartarughe Ninja”.
Oggi, quasi tutti i film che ottengono i maggiori incassi in America sono rielaborazioni di fumetti, commedie adolescenziali
e fanta-western.
O si basano
su trame sciocche, stereotipate (il bene supremo contro il male implacabile). Spesso, come nel film “Lego Movie” sembra che siano state scritte per vendere giocattoli ai bambini.
Il problema però è che questi film vengono visti e apprezzati anche da decine di milioni
di adulti. Un gran numero
di uomini e donne fra i venti
e i cinquant’anni li trovano eccitanti.
Adesso - quasi fosse un destino - questi spettatori istupiditi hanno un perfetto candidato presidenziale: Donald Trump che sembra
la caricatura fumettistica di
un ricco furfante e parla come un vero briccone. Prendiamo, ad esempio, il suo piano per contenere gli immigranti messicani: «Vorrei costruire
un muro, e nessuno costruisce muri meglio di me, credetemi,
e lo costruirò senza spendere. Costruirò un grandissimo muro sul nostro confine meridionale. Ricordate queste mie parole».
Ma chi è? Capitan America
o un candidato alla presidenza? Tutte e due le cose, a quanto pare.
Altre volte, parla come
se si fosse calato nei panni dell’eroe misogino di un western: un John Wayne in abito elegante, per intenderci. Da qui le spacconate sul suo fascino sessuale: «Tutte le donne di “The Apprentice” hanno flirtato con me. C’era
da aspettarselo, del resto».
Per creare l’immagine del vero uomo, rude, spesso insulta le donne in modi che lui ritiene intelligenti. Così si è espresso, per esempio, su una giornalista che lo criticava: «Arianna Huffington è poco attraente, sia dentro che fuori. Capisco bene perché il suo ex marito l’ha lasciata per un uomo. Ha preso una saggia decisione».
Per un pubblico che trova un film come “Cattivi vicini” uno spasso, questo è umorismo.
A queste persone Trump appare un tipo divertente e intelligente. E le reti tv americane gli danno tanta visibilità proprio perché - come l’ultimo film della Marvel - con lui si può stare sicuri di ottenere buoni ascolti.
Quando la “Princeton Review” analizzò il lessico utilizzato
nei dibattiti dai candidati presidenziali del 2000, scoprì che George W. Bush aveva
il vocabolario di un bambino
di quinta elementare, mentre quello di Al Gore era un po’ più ricco, come quello di un ragazzo di scuola media.
Secondo la stessa analisi, nei dibattiti presidenziali del 1858, Abraham Lincoln parlava come un ragazzo di terza liceo, mentre Stephen Douglas come uno di quarta.
Nel tempo, il nostro sistema politico si è evoluto per fare appello a elettori che non sono in grado di comprendere un linguaggio più sofisticato di quello di “Toy Story” o di “Spider Man 3”.
Quest’anno, Donald Trump
e i suoi seguaci repubblicani sembrano aver portato il livello del discorso a un gradino ancor più basso. E non solo in termini di vocabolario.
10/08/16
E' morto Don Gianni Todescato. Un illuminato.
Quando ho saputo della morte improvvisa di Don Gianni, domenica scorsa, 7 agosto, a Piazza Navona, mi è tornato in mente quel celebre aforisma di Bertold Brecht, tratto da Vita di Galileo:
Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli imprescindibili.
Ecco, Don Gianni, per chi lo ha conosciuto era questo: un imprescindibile.
Perché ha lottato per tutta la vita, una lotta non violenta, saggia e illuminata, al servizio degli altri, portando luce nelle vite degli altri, in un mondo spesso votato al nichilismo.
Tra le molte doti di questo uomo raro, ve n'erano due che a mio avviso, lo rendevano unico: la capacità in primis di accogliere il dolore - e in generale la pesantezza del vito - e trasformarlo in leggerezza (mai in superficialità): una leggerezza come quella di cui parla Calvino nelle Lezioni Americane, il quale aveva ben presente che il mondo si regge su entità sottilissime.
Chi si avvicinava a Don Gianni con un peso - di qualunque natura nel cuore o nell'anima, aveva sempre l'impressione di sentirsene sollevato, dopo un breve colloquio con lui, anche dopo un semplice scambio di battute, una stretta di mano, un lungo sguardo.
La seconda dote è quella del cercatore di bellezza, di cui ha parlato oggi Don Nicola nella omelia ai funerali a Sant'Agnese: Don Gianni era un cercatore di bellezza, convinto dostoevskijanamente che nella bellezza delle creazioni umane (la musica, Bach, la scrittura, l'arte) e di quella della natura, si incarna lo Spirito, capace di salvare il mondo.
Ci mancherà a tutti il suo sorriso luminoso, la sua aura luminosa, la sua profonda umanità.
Lo ricordo ulteriormente con questo articolo comparso - tra i molti di questi giorni - su il Messaggero firmato da Alessandra Spinelli:
Teologia, filosofia, letteratura. Ascoltare l’omelia di don Gianni alla Messa di mezzogiorno a Santa Chiara era un’emozione intellettuale fortissima oltre che un balsamo per la fede e per la mente di quanti affollavano la chiesa di piazza Giuochi Delfici, credenti e laici, insieme. Media e alta borghesia, Roma Nord, Vigna Clara, quartiere bene di professionisti ma anche di impiegati che vedevano in quel parroco dal passo svelto e dal parlare profondo e sincero più di un prete. Un vero parroco che li ha accompagnati, tra battesimi e funerali, per ben 42 anni.
Don Gianni Todescato era arrivato su quella collinetta tra i pini della Cassia vecchia e la Camilluccia all’inizio degli anni Sessanta quando i palazzi di Vigna Stelluti cominciavano a venir su uno dopo l’altro. La rossa rotonda della chiesa non c’era, il giovane sacerdote diceva Messa in un piccolo fabbricato sul lato opposto dove ora ci sono i taxi. Poi la grande chiesa punto di riferimento per tutte le famiglie negli anni del boom economico e poi negli anni bui, il Settantotto, il rapimento Moro.
MORO E PAOLO VI
Proprio lo statista della Dc partecipava ogni mattina alla Messa delle 9 a Santa Chiara. Non era suo parrocchiano, perché il presidente della Dc, aveva come chiesa di riferimento San Francesco a Monte Mario, ma tutti i giorni era a Santa Chiara. Anche il giorno prima del rapimento. Don Gianni non ne voleva mai parlare ma con tutta l’emozione ricordava che «quel giorno gli aveva dato l’Eucarestia in privato, perché quella mattina aveva un impegno importante che non gli consentiva di assistere a tutta la Messa».
09/08/16
Hitler a Roma: un docufilm presentato a Venezia incentrato sulla figura di Bianchi Bandinelli.
nella foto Mussolini, Hitler e Ranuccio Bianchi Bandinelli in visita al Museo Nazionale Romano
Un docu-film sullo storico
dell'arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, costretto a far da guida
a Hitler e Mussolini nel primo viaggio in Italia del Fuhrer,
entra a far parte nel programma della 73/a Mostra del Cinema diVenezia, il programma dal 31 agosto al 10 settembre.
La Biennaledi Venezia presenta, in collaborazione con le Giornate degli
Autori - Venice Days, il film documentario di Enrico Caria
'L'uomo che non cambio' la storia', liberamente ispirato al
diario di Bandinelli "Il viaggio del Fuhrer in Italia", e
realizzato grazie alle immagini d'archivio dell'Istituto Luce -
Cinecitta'.
"Bianchi Bandinelli e' figura notissima fra gli storici
dell'arte e gli archeologi italiani - spiega il direttore della
Mostra, Alberto Barbera - Meno noto il fatto che, costretto a
far da guida a Hitler e Mussolini in occasione del primo viaggio
in Italia del Fuhrer, si fosse interrogato sull'opportunita' di
organizzare un attentato per togliere di mezzo gli ingombranti
dittatori. Caria ricostruisce con ironia e precisione
documentale l'incredibile vicenda, che suscita ancora oggi
interrogativi di grande attualita'".
Enrico Caria e' un regista, scrittore e giornalista italiano.
E' anche vignettista e giornalista per varie testate; e'
sceneggiatore per la radio, la televisione e il cinema.
Bianchi Bandinelli (1900-1975) ha notevolmente contribuito al
rinnovamento degli studi di archeologia e arte antica in Italia,
in contatto con la cultura europea del suo tempo.
Nel 1938 fu
incaricato dal Ministero della cultura popolare di svolgere la
funzione di guida in occasione della visita a Roma e Firenze di
Hitler.
Accetto' in seguito di tenere conferenze in Germania e di
svolgere un'analoga funzione per la visita a Roma di Hermann
Goering.
L'anno successivo rifiuto' la direzione della Scuola
Archeologia italiana di Atene, dalla quale era stato appena
rimosso il direttore ebreo Alessandro Della Seta, e nel 1942
rifiuto' un incarico del Ministero per l'insegnamento a Berlino.
Manifesto' quindi una decisa opposizione al fascismo, con la
partecipazione al movimento clandestino liberal-socialista. Nel
dopoguerra ha insegnato all'universita' di Roma fino al 1964.
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08/08/16
"Lettera a Simone Weil sulla primavera, l'attenzione e la Grazia" di Roberta de Monticelli
LETTERA A SIMONE WEIL SULLA PRIMAVERA, L'ATTENZIONE E LA GRAZIA
di Roberta De Monticelli
Premessa. Molti ricordano la bellissima apertura della poesia La porta :
Ouvrez donc la porte, et nous verrons les vergers
Io ho immaginato che quella porta sbarrata – il mondo stesso, secondo una pagina
weiliana – si trovasse qui, e che qui avvenisse il nostro incontro.
Solo, lei oltre quella
porta, oltre il muro che ho sognato correre tutto intorno a questo giardino – e io al di
qua della porta e del muro.
E mentre mi studiavo invano di articolare in poche frasi le
mille domande che ora, in sogno, finalmente mi era dato farle, un ritmo che non ha la
luce del suo verso ma forse appena un po’ dell’aria di questa primavera, mi ha presa
per mano, e mi ha aiutato a rompere il ghiaccio, cominciando con una piccola
canzone.
Quando il verde nuovissimo respira
e primavera oscilla alta sui muri
che cingono il giardino,
e l’aria è pura
luce di vento,
amica
ardua di grazia,
noi
parliamo camminando
lungo il muro
dalla curva dolcissima,
che gira
cerchia su cerchia, intorno a dove sei :
tu – dentro, oltre la porta, io
qui fuori,
lungo questo marciapiede
dove i miei passi
hanno un suono d’argento
come le tue parole, anima viva :
tu – già fuori dal tempo,
io camminando ancora ;
di qua e di là dal muro,
fianco a fianco
eppure tu nel vero
e io nel mezzo, la faccia al futuro.
Tu, amica, fosti accolta
oltre la porta chiusa
del mondo.
Antica Kore
rapita a primavera, tu sei morta :
eppure batte così forte il cuore
oltre la porta chiusa,
così alta si leva la parola
ch’io non so più
chi sia
il dio rapace e l’anima rapita
- così alta si leva e così nera
che più non so
se sia
orma, ombra, o ala.
Ascolto, e non so quanto mi separa
dal tuo profilo bruno :
sette cerchia di mura
o questa lama
questa ferita tua vicina al sole.[1]
Quando il verde nuovissimo respira
e primavera oscilla alta sui muri
che circondano dio
ascolto
e attendo anch’io, signora,
maestra d’armi, pulzella e guerriera :
attendo fuori dalla porta chiusa
l’ultima fioritura
- la grazia del tuo riso di ragazza.
Non è per nulla facile, Simone, « far buon uso » - come diresti tu – di questo po’ di
carta bianca che mi è concessa per discorrere con te.
In questa sorta di piccolo Eliso
dove ti immagino ospite, almeno a primavera – se anche l’eternità, come spero, ha le
sue stagioni.
Non è facile, ancora meno che «far buon uso » del silenzio, al quale per sua
vocazione la tua parola ci affida, al quale anzi la tua lingua mirabile ci apre,
letteralmente, fendendoci la mente come una spada affilatissima.
Non è facile parlare
di te, ma soprattutto non è facile parlarti. Non solo perché si preferirebbe continuare
ad ascoltarti, con larghe orecchie bianche come pagine. Ma perché con le tue parole è
come se sprofondasse in noi, tratto a fondo da loro, quell’io che viene in superficie
precisamente nell’atto presente di enunciarsi, nell’atto di parola.
In questo senso è
come se le tue parole non ammettessero replica o risposta, perché tu subito scompari
da loro e inviti a scomparire l’io che le accoglie.
Parlare è voler dire, dunque volere, e
agire : rinunciare all’attesa e all’attenzione. Parlare è apparire. E’ ricrearsi, non «
decrearsi ».
Di più. Conversare è forse per sua essenza cercare un legame – fra il tu e l’io, fra l’io
e il fondo, fra il presente e il vero, fra il tempo e l’eterno. Conversare è cercare una
connivenza fra tutte queste cose…. Ma a me pare che la tua parola sia venuta per
dividere, come una spada, tutte queste cose.
L’io penso e il fondo, il presente e il
vero, il tempo e l’eterno. Più in generale, a me pare, la tua parola è una spada che
divide l’apparenza dall’essenza, il fenomeno dalla realtà.
Tu stessa lo dici da qualche parte. E’ questa, in definitiva, l’opera di verità propria di
quello che tu chiami malheur. La cognizione del dolore – non trovo approssimazione
migliore al senso di quella parola – consiste in questo acquisto di realtà a spese
dell’apparenza, che ne viene strappata via, pura illusione.
« L’apparence colle à l’être
et seule la douleur peut les arracher l’une de l’autre », dici.
Ecco, la tua parola in
questo imita il dolore. E’ in qualche modo dolore che parla, pure splendendo come fa
una spada. E’ tranchante, taglia il fiato a ogni risposta – e anche solo alla speranza
che si fa domanda. E’ l’arma prima del distacco : divide l’anima dalla sua voce, e
invita all’esercizio del silenzio.
Perciò è così difficile, Simone, replicare a quello che tu dici. Eppure.
Questo testo è stato pubblicato per la prima volta da : Lorenzo Gobbi. PUBBLICATO DA LORENZO GOBBIWWW.LATTENZIONE.BLOG.COM
31/07/16
La poesia della domenica - "Ocra" di Fabrizio Falconi.
ocra
nel
pietoso ardore del pomeriggio
una
luce fiamminga era scesa su Roma
disintegrava
i tetri covoni d’ombra all’angolo
delle
piazze e il temporale naufragato lontano
prima
del silenzio inderogabile di un’altra
sera
sfortunata, di un chiudere le porte
alle
morte foglie di primavera, le nuove
erano
lampi improbabili nel vento asciutto
del
ritorno, erano misteriose vite nel momento
perduto
venuto al mondo,
vendite
di immortalità, cicli normali ed eterni
dentro
al triste sorriso dei giorni.
30/07/16
L'incredibile fascino di Roncisvalle (Dieci Luoghi dell'Anima).
Quando, spostandosi da est ad
ovest si attraversa la regione del Midi-Pyrénées, la più estesa dell’intera
Francia, sembra che il ventaglio di creste scure, a Sud possa davvero essere
impenetrabile, invalicabile. I Pirenei confondono lo sguardo, non forniscono
l’adito di valli profonde, come le Alpi.
Appaiono come una muraglia compatta e severa. Dai profumi del Mediterraneo, in pochi
chilometri, sovvengono nuove e inaspettate sollecitazioni: sono i venti
floreali dei Pirenei, arricchiti da
migliaia di specie che proprio un italiano, nato a Bagnocavallo, il dimenticato
Pietro Bubani, detto il Botanicus
Peregrinator, passò più
di vent’anni, nell’Ottocento, a
catalogare. E’ un vento fresco ed aspro,
il cui odore si mischia a quello di legna fradicia.
Non per questo la terra dell’immensa
Occitania, che abbracciava anticamente Mediterraneo e Atlantico - pianure verdi, spiagge sconfinate e oscure
montagne - smette di interrogare il
visitatore nel cuore della sua storia personale, e insieme collettiva. Si lasciano alle spalle le euforie zigane di
Perpignan e le eresie catare di Carcassonne, i racconti che lasciano
insonni, e sembra di penetrare ancora
più profondamente nel senso di un arcano che sempre chiama l’uomo a
interrogarsi sulla natura di Dio.
.....
Senza sbagliare, si può affermare che da qui in poi, i Pirenei
diventano ancora più presenti, ancora più vivi, con la vetta del Pic d’Orhy che si può
quasi toccare, perché l’aria è diventata
chiara, tersa, e il colore bruno e verde scuro delle montagne disegna un
contrasto vibrante con il topazio del cielo.
Il mare, infatti, non è lontano. Poche decine di chilometri sono lontane
le spiagge atlantiche decadenti e assolate di Bayonne, Biarritz,
St-Jean-de-Luz.
E allora si infittisce il mistero
riguardo al destino umano, che sembra scegliere sempre – per compiersi
pienamente - la strada più ardua, quella
più tortuosa. Gli uomini infatti, sia che si recassero in battaglia, sia che fossero in cammino per il pellegrinaggio
millenario sulla tomba di San Tiago, hanno privilegiato sempre, la via più
impervia. Forse le coste, all’epoca, costituivano una minaccia più grande, per
trappole o imboscate ? Ma queste scoscese e oscure strade che risalgono il
vallone fino a Saint-Jean-Pied-de-Port non erano altrettanto pericolose ?
Non sarebbe stato più sicuro, o se non
altro meno faticoso - per i pellegrini
delle tre vie francesi – la Turonense , Podense e la Lemovicense – transitare da Hendaye, e da lì
direttamente a San Sebastiàn, per poi
discendere su crinali certamente più docili verso il miraggio di Compostela
?
No. Il cammino degli eserciti e dei
pellegrini in cerca di Dio – lo stesso, sulle stesse strade – ha preferito
passare di qui, issarsi sui versanti ripidi che conducono su, da
Saint-Pied-de-Port, fino a Arneguy che è chiamata anche Aduana – i nomi
cominciano a indicare concretamente la direzione geografica intrapresa - e poi ecco: inaspettatamente, la moderna e
triste insegna di un distributore di benzina
Campsa è il benvenuto in terra di Spagna.
Da Valcarlos fino al passaggio dell’alto di Ibaneta, 1057 metri sul livello
del mare: è qui, in questi pochi chilometri, tra questi due versanti ampi e
ombrosi, che la storia di secoli, passati a rimasticare le chansons de
gestes , si è tramandata attraverso l’eloquio puro dei
trovatori, di bocca in bocca, di generazione in generazione.
Valcarlos non è che un piccolo borgo,
che soltanto per due giorni all’anno, la Domenica di Pasqua, e il 25 luglio - nella settimana che precede la festa
patronale di San Giacomo - improvvisamente si anima di centinaia di Bolantes,
coloratissimi ballerini e ballerine, i quali attraversano il villaggio nei
costumi tradizionali, tenendosi per mano. Il rosso è il colore predominante.
Rosse le gonne delle ballerine, rossi i fazzoletti degli uomini. Rosso come il
sangue che per molti secoli ha bagnato
le strade della Navarra.
A dieci chilometri da Valcarlos, proprio
a Puerto de Ibaneta, ecco il punto esatto: il passo dove l’antica e invincibile tradizione da sempre racconta la
triste sorte di Orlando, uno dei massimi e più popolari eroi della
cristianità, qui dove i suoi uomini
furono attesi, affrontati, e non
risparmiati, anzi, ferocemente sterminati.
I francesi hanno sempre chiamato questo
valico Col de Roncevaux,
ed in virtù della loro egemonia letteraria nei salotti d’Europa, questo nome è diventato da tutti riconosciuto
come il luogo della battaglia.
Così, anche se oggi non v’è che un brutto
monumento moderno a ricordo di un mito - alimentato e contraffatto nei secoli
da una schiera sconfinata di poeti francesi, spagnoli, italiani, tedeschi
- ogni visitatore di passaggio, si
ferma, cerca nell’aria una memoria o una traccia della lontana leggenda, alla
quale sa in fondo - anche magari soltanto confusamente - di appartenere, come gli appartiene ognuno che discenda da
una qualsiasi delle stirpi che abitano il
vecchio continente.
Non è che un sasso enorme e sformato
questo monumento, e non vi sono incise che un nome e due date:
Roldan -
778 – 1967
Neanche, dunque, l’occasione di
una ricorrenza vera e propria, eppure
nessuno si sottrae al rito di mettersi
in fila per la classica foto che ritrae il pellegrino all’inizio del suo Camino, davanti al
monumento a Rolando, sullo sfondo delle immense foreste di pino uncinato che
ricoprono le montagne.
Chi era Orlando, o Roldan, o Rolando, o
Hruodlandus come pare si chiamasse in realtà il personaggio storico, realmente
esistito, che diede origine al racconto ?
Chi era dunque ? E perché non possiamo dimenticarci di lui ?
29/07/16
Il Logogrifo di Athanasius Kircher - Un articolo di Federico Mussano.
Athanasius Kircher interpretò
l’enciclopedismo seicentesco
in modo eclettico: fu uno dei
maggiori personaggi del tempo
emanando un fascino che viene rilevato
anche oggigiorno, prova ne sono gli
scritti che continuano a essergli dedicati.
Qualche anno fa uscì “Vita del Reverendo
Padre Athanasius Kircher – autobiografia”
a cura di Flavia De Luca (La Lepre
Edizioni) che ricorda come, alla base
dell’incontro con l’erudito gesuita, ci
sia stata la sua frequentazione del Liceo
Classico Visconti, ospitato nel Collegio
Romano in cui Kircher visse dal suo arrivo
a Roma fino alla morte.
Recentemente
Fabrizio Falconi ha pubblicato “I fantasmi di Roma” (Newton Compton)
con un capitolo dedicato al Kircher e
alla vicenda del corpo sparito.
Altrettanto
sparito sembra il ricordo, anche
da parte degli appassionati di giochi di
parole in prospettiva storica, di alcune
sfaccettature dei suoi interessi enigmistici
(coordinati al più generale interesse
del gesuita per il linguaggio e gli alfabeti
ermetici ed esoterici): un’azione di recupero
di questa memoria è cominciata a
gennaio per opera del Leonardo (il trimestrale
dell’Associazione Rebussistica
Italiana) che ha mostrato un logogrifo
musicale (da denominare rebus a tutti
gli effetti, secondo l’odierna terminologia)
composto da Kircher con il titolo di
“Logogriphus musicus in forma Canonis
hypertriti, contrario motu” e con la soluzione
“FAma LAteRE nequit MIcat
VT SOL inclyta virtus”.
Questo gioco
non è incluso nelle tre opere da sempre
considerate il riferimento degli studi sul
Kircher legato agli enigmi e alle scritture
crittografiche (Oedipus Aegyptiacus, Artificium
cryptographicum, Polygraphia), è
invece nella Musurgia universalis in cui
notiamo anche un curioso utilizzo degli
scarti iniziali progressivi per spiegare il
fenomeno acustico dell’eco!
Passiamo da un religioso all’altro, dal
gesuita Kircher al carmelitano Zanetti,
vice priore della Chiesa dei Carmini a
Venezia e amico di Goldoni. Lo abbiamo
già incontrato su queste pagine a
marzo, nella panoramica sul logogrifo
de La casa nova decifrato nel 1893
(qualche anno dopo il tentativo di farlo
risolvere da dodicimila lettori, tanti
ne contava Il Pungolo della Domenica)
dal giornalista Valeri con la soluzione
“Marmontel / Roma; mar, monte;
arom; L” poi rivista in “Virginio Zanetti
/ Viterbo; bagni; olii; T” da Giorgio
Padoan.
Al di là delle altre ipotesi
presentate a marzo, si possono rivisitare
alcune supposizioni di Padoan (la errata
lettura della L e l’identificazione in
Zanetti del destinatario) ritenendo di
posizionare la lettera che «tu aggiugni a
quel che avanza» accanto alla base del
logogrifo così da ricavare “fra Virginio
Zanetti; S / Avignone; ferragosto;
fragranze”.
Continua così l’attenzione
verso il Goldoni enigmista: non solo
solutore (suo un sonetto del 1761 che,
come scrisse A.G.Spinelli, «spiega un indovinello dato dalla Gazzetta di Venezia»)
ma anche autore di anagrammi
del proprio nome (rettifichiamo quello
che a marzo avevamo definito anagrammoide:
in realtà La bella verità mostra un
anagramma, Loran Glodoci, così come
con Aldinoro Clog e Calindo Grolo si
entra in un mondo anagrammatico che
coinvolge anche Francesco Grisellini e
Domenico Lalli) e di enigmi (Il medico
olandese mostra l’indovinello doppio
sulla speranza e il timore).
Federico Mussano
tratto da Leggere Tutti, n.105 luglio-agosto 2015
27/07/16
Il libro del giorno: "Tutti i nomi" di Josè Saramago.
Il Signor Josè, scrittore ausiliario presso la Conservatoria Generale dell'Anagrafe, per caso si imbatte durante la raccolta di dati per la sua nascosta collezione di notizie su persone famose, nel "modulo" di una donna sconosciuta.
Il Signor Josè si mette sulle tracce della donna per cercare di scoprire tutto sulla sua vita ma non arriverà a conoscerla prima del suo misterioso suicidio.
Ma per l'oscuro funzionario sarà l'occasione per un illuminante chiarimento con il suo capo sui confini labili che dividono i morti dai vivi.
Geniale, ancora un altro geniale romanzo di Saramago, virtuosistico nella costruzione. Un romanzo che sembra parlare soltanto di nomi - di vivi, di morti - eppure nel quale non è riportato neppure un solo nome, tranne quello del protagonista, il Signor Josè, un ricercatore di anime, in bilico sopra i nonsensi apparenti della vita, e sulla sua innegabile sublimità.
Tutti i nomi
di José Saramago
Traduz. di Rita Desti
Ediz. Einaudi 1998.
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