17/04/16
Poesia della Domenica: da 'Conseguito silenzio' di Paul Celan.
Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia
il millennio giovane si alza dalla neve,
l'occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.
Paul Celan, Conseguito silenzio
16/04/16
"Purity" di Jonathan Franzen (RECENSIONE).
Premetto: il nuovo Franzen mi ha deluso consistentemente.
E qui spiego perché. Non si tratta di discutere dello straripante talento di Franzen, della sua abilità e complessità stilistica, che gli hanno dato fortuna e celebrità (con tutto quel che ne consegue al punto che oggi è difficile parlare di lui, perché come ogni fenomeno troppo popolare, ci si distingue aprioristicamente in partiti a favore e contro). Da questo punto di vista credo che Franzen superata la soglia dei 55, non debba dimostrare nient'altro.
E il suo romanzo è come sempre un meccanismo di altissima precisione, perfettamente oliato, dove tutto funziona o sembra funzionare a dovere.
Nell'arco di 642 pagine - Franzen ha dichiarato recentemente di non riuscire a scrivere romanzi brevi, che il lungo è il suo formato naturale - Purity mette in scena di tutto: almeno quattro personaggi protagonisti (la prima, la ragazza chiamata Purity o Pip, in esplicito omaggio dickensiano), una ventina di personaggi secondari, trame e sottotrame che si rincorrono, racconti in prima persona, diari, messaggi, mail, flashbacks a profusione, ganci per lasciare il lettore in sospeso alla fine di ogni capitolo, sei parti, ciascuna funzionante come una novella autonoma, colpi di scena efficacissimi, come quello di pag. 265, che scoperchia il romanzo.
La storia è stata descritta ampiamente sui giornali, sugli inserti, sui siti: si comincia con la giovane Purity, ragazza neolaureata che vive in una sorta di casa-comune, in povertà, con i debiti accumulati per studiare che non sa come pagare. Della madre sappiamo che ama smisuratamente sua figlia ma per qualche motivo misterioso le nasconde l'identità del padre - e anche del resto della sua famiglia. Anche lei vive ai margini, con un lavoro di commessa, psicologicamente fragilissima.
La caratteristica di Purity, come già accadeva in Correzioni e in Libertà, è quella di lasciare ad un certo punto quello che si presume essere il protagonista, e andarsene apparentemente altrove (non è così ovviamente). Ecco dunque che a metà del libro, a pag. 352- ma era successo già precedentemente nella parte La repubblica del cattivo gusto - Purity viene abbandonata al suo destino, dopo che ne abbiamo seguito le tracce prima a Denver, come stagista per il quotidiano locale indipendente locali, e poi in Bolivia, adepta del Sunlight Project, una sorta di Wikileaks creata dallo spregiudicato Andreas Wolf (una sorta di via di mezzo tra Julian Assange e Snowden).
Nella seconda parte del romanzo Pip scompare. E tutta l'attenzione di concentra su Wolf (di cui abbiamo già conosciuto le radici, nella parte ambientata nella DDR dove abbiamo scoperto che è anche un assassino, anche se apparentemente per amore della giovane Anngret) e su Tom Aberant (due cognomi molto espliciti, il primo il Lupo, il secondo un Aber(r)ant), il direttore del Denver Indipendent, che ha conosciuto Wolf anni prima in Germania, e di cui custodisce l'inconfessabile segreto.
E' proprio questa la parte debole del romanzo. Franzen è superficiale, indugia con cinismo su Wolf e sulla sua lucidissima follia, e su Tom e le sue vergognose ipocrisie, tra la ex moglie psicotica, Anabel, e la nuova compagna, la giornalista in carriera Leila. Gira sostanzialmente a vuoto, con l'obiettivo fin troppo dichiarato di dimostrare che la purezza non esiste, i segreti fanno parte della identità costituiva di tutti, il web è un mondo sporco forse anche più del mondo che pretende di ripulire, le amicizie non esistono, tutti tradiscono tutti.
Il Gioco è esplicito, l'architetto del pregevole meccanismo (Franzen) è sempre al centro, esibendo le qualità della narrazione e compiacendosi di esse, mentre manca del tutto l'ironia (che in Libertà era felicemente dispensata) che rende pietoso il racconto, e possibile l'empatia del lettore.
Alla fine della lettura si ha un senso di vuoto: la storia non ci ha dato niente, c'è l'impressione che Franzen sia rimasto vittima del suo stesso meccanismo e che la preoccupazione di dire qualcosa (molto di quello che già si sa sulla solitudine, sul mondo di internet, sulle anime sempre più connesse e sempre più disorientate) abbia prodotto il risultato di non dire nulla (o almeno nulla di nuovo).
Gli amanti di Franzen ritrovano tutte le sue ossessioni (la mancanza e il dolore familiare, l'ornitologia, il sesso); in compenso i personaggi maschili sono terrificanti e il romanzo in molte pagine esprime una concezione totalmente maschilista del presente (le donne sono quasi tutte geishe devote in adorazione del maschio scopatore, o psicolabili irrecuperabili).
Insomma alla fine l'unica cosa che si ammira veramente è la struttura narrativa insieme alla brillantezza dei dialoghi, alla acutezza e alla genialità delle sentenze. Ma Purity è un romanzo che si avvicina di più a Donna Tart (e alla sua superficialità ben commerciale) piuttosto che ai grandi maestri del Romanzo Americano ai quali Franzen esplicitamente tenta e dice di ispirarsi (primo fra tutti l'inarrivabile Saul Bellow che in Purity viene continuamente evocato con uno dei suoi romanzi più grandi, Le avventure di Augie March): in effetti la differenza tra un Bellow e un Franzen è tutta qui. Bellow ha scritto una ventina di romanzi, tutti allo stesso livello di eccellenza e senza che il suo io (pure piuttosto consistente) divenisse mai l'esplicito referente della tecnica narrativa; Franzen, giunto alla terza prova della maturità scivola nell'ovvio e commette la presunzione di salire sulla ribalta più di quanto la sua nuova storia riesca mai a fare.
Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata
15/04/16
Il libro del giorno: "Il legno storto dell'umanita' " di Isaiah Berlin.
Ormai un classico, sempre ristampato da Adelphi:
Otto saggi scritti da Berlin tra il 1959 e il 1990, sulla rivoluzione delle idee, dal 1792 (la rivoluzione principe) ad oggi.
Il nostro evo, da Platone in poi, si è basato su concezioni universali della storia universale: tutti gli uomini sono legati da una stessa radice e da uno stesso destino. L'età dell'oro è alla portata, se l'uomo saprà superare gli ostacoli che egli stesso ha disseminato lungo la sua strada, aprendo le porte al vizio, al peccato, all'egoismo.
Nell'inizio dell'ottocento questa concezione è entrata in crisi. Sturm un drang, Romanticismo, effetti della Riforma, pensatori come Herder e De Maistre, hanno evidenziato che NON ci sono VALORI UNIVERSALI e i valori validi, riconosciuti, possono, anzi entrano in conflitto tra di loro, generando guerre ideologiche per conquistare una supremazia assoluta.
Il risultato di questa crisi è il Novecento, con le sue aberrazioni nazionalistiche. Il pensiero di Berlin è lucido, chiarissimo, divulgativo, saggio: l'uomo di oggi è sperso, non ha più sistemi.
L'unico modo per garantire il progresso è un faticoso equilibrio delicato tra i diversi valori o codici di riferimento. Dall'uomo, che secondo Berlin è un legno storto, non si potrà mai ricavare qualcosa di definitivamente diritto.
13/04/16
Cartier-Bresson e Roma - Storia di una foto.
Henri Cartier-Bresson, Rome, 1953
Era partito come un gioco. Stupiti dalla bellezza di questa foto di Cartier-Bresson, siamo partiti alla ricerca del luogo in cui fu scattata.
La didascalia della Agenzia Magnum, proprietaria dei diritti della foto non aiutava, recitando laconicamente Henri Cartier-Bresson, Rome, 1953.
Quel che si sa per certo è che tra il 1951 e il 1971, durante un ventennio, il grande genio viaggiò spesso in Italia e tornò spesso a Roma.
Questa foto fa parte di una serie scattata nello stesso luogo. Con una certa fatica, grazie all'aiuto di preziosi amici, siamo riusciti a trovarlo. Le tracce portavano a Trastevere. E infatti l'angolo ritratto è proprio quello della piccola Piazza dei Ponzani (sulla foto originale, la dicitura della targa non si legge chiaramente), nel cuore di Trastevere.
Ci sono tornato stamattina per un sopralluogo. E sono riuscito a ritrarre più o meno la stessa angolazione (anche se purtroppo oggi il luogo è sopraffatto da sporcizia, macchine parcheggiate una sull'altra, ecc...)
Anche il bar è rimasto al suo posto, anche se oggi in parte ricoperto di edera:
I proprietari del bar sono a conoscenza della illustre foto che immortala il locale nel 1956. E hanno anche provveduto ad affiggerne una riproduzione all'interno:
Ho anche parlato con alcuni abitanti della zona. In effetti sembra che Cartier-Bresson in quella estate del 1953 soggiornò proprio in Piazza dei Ponziani, probabilmente ospite di un amico architetto (oggi scomparso).
Realizzò diverse foto in questo luogo, una anche dall'interno dello stesso bar.
Certo il contesto oggi è ben diverso. Ma esiste ancora stoicamente la vecchia fontanella (vicino ad un albero che doveva già esserci all'epoca), dall'alto lato della piazzetta e che è quella alla quale sicuramente la ragazzina immortalata dalla foto ha portato la grande bottiglia di vetro per riempirla, che porta sulle spalle.
Insomma, un angolo della vecchia Roma di CB, che resiste nonostante tutto...
Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.
12/04/16
Trovare un quadro in soffitta e scoprire che è (forse) di Caravaggio.
Una tela scoperta nella soffitta di
una casa nel Sud-Est della Francia e un'opera "autentica" di
Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio.
Lo sostiene l'esperto
Eric Turquin, che oggi ha tenuto una conferenza stampa a Parigi.
"Questa illuminazione particolare, questa energia tipica del
Caravaggio, senza correzioni, con una mano sicura e i materiali
pittorici fanno sì che la tela sia autentica" ha detto Turquin.
Sul dipinto "ci saranno più controversie che expertise" ha
aggiunto l'esperto, i cui colleghi sono molto più prudenti.
La tela, che raffigura una Giuditta nell'atto di tagliare al
testa di Oloferne, era stata scoperta nell'aprile 2014 dai
proprietari di una casa nella regione di di Tolosa, che avevano
aperto un sottotetto per porre rimedio a un'infiltrazione
d'acqua, ha raccontato Turquin all'AFP.
Il dipinto è poi
transitato dall'ufficio di un banditore, che ha contattato
Turquin in qualità di esperto.
Il ministero della Cultura il 31 marzo aveva "respinto il
certificato di esportazione richiesto per la tela attribuito
forse a Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, in attesa di un
parere degli esperti.
Per il ministero la tela merita di essere
"mantenuta sul territorio come una testimonianza molto
importante del caravaggismo, il cui percorso e la cui
attribuzione restano da approfondire".
11/04/16
Le incredibili proprietà solari del Pantheon. DUE VIDEO.
In molti, dopo la pubblicazione della foto che ho realizzato il giorno 7 aprile alle ore 13 (12 solari) al Pantheon, testimoniante l'incredibile fenomeno del 'cerchio (o meglio, semicerchio) di luce che si forma sopra il portale di ingresso, mi hanno chiesto di tornare sull'argomento, riguardante le straordinarie proprietà del Pantheon - ricostruito da Adriano nel 138 d.C.
Pubblico quindi qui due video molto semplici, e didascalici con animazioni, realizzati dall'Istituto Politecnico di MIlano, ricordandovi quindi che il prossimo appuntamento per verificare le proprietà solari del Pantheon è il 21 aprile - data della fondazione di Roma - sempre alle ore 13 (12 solari).
foto in testa: Fabrizio Falconi.
10/04/16
La poesia della domenica: "Ti ricordi gli storni" di Toti Scialoja.
Ti ricordi gli storni che a stormi
nei tramonti dei nostri bei giorni
quando i treni si fanno notturni
attorniavano Terni e dintorni?
Bei tramonti che accesero Terni
rispecchiandone il fuoco dei forni
mentre i cieli diventano inferni
taciturni se ruotano stormi.
Neri stormi sui monti di Terni
che di sera perdendo i contorni
frastornavano i nostri ritorni
con l’eterno stormire degli orni.
Son trascorsi gli autunni e gli inverni
sono andati e tornati gli stormi
sulla Nera su Terni su Narni
sulle pere forate dai vermi.
Toti Scialoja
08/04/16
Incontro (gratuito) con il grande William Kentridge, Lunedì prossimo a Palazzo Barberini.
E’ l’artista di rilievo internazionale William Kentridge l’ospite di Massimiliano Finazzer Flory per il quarto appuntamento de «Il Gioco serio dell’Arte», X edizione. Autentico «uomo rinascimentale», artista a 360 gradi, attivo nella pittura e nel disegno, nel teatro e nel cinema, nella performance e nelle installazioni, Kentridge attribuisce da sempre un’indispensabile valenza sociopolitica alla propria opera, facendone un oggetto culturale utile alle riflessioni su grandi temi del contemporaneo, come la convivenza tra le razze, la sopraffazione e la tolleranza, il conflitto e la pacificazione - che nel Sudafrica, da dove Kentridge proviene, ha conosciuto criticità, drammi e possibili soluzioni.
Dunque un interlocutore di speciale prestigio per un confronto di grande interesse sul tema che Finazzer ha scelto per questa decima edizione de «Il Gioco serio dell’Arte». “Mai come oggi -dichiara Massimiliano Finazzer Flory- abbiamo bisogno dell’arte per comprendere la nostra realtà che non è divisa tra politica, economia, comunicazione… ma si chiama realtà proprio perché tiene insieme fenomeni diversi e ovviamente in modo asimmetrico e variabile. Impossibile dunque avere un modello oppure una visione diretta di questa realtà. Ecco perché serve l’arte. Perché attraverso essa noi possiamo con rappresentazioni, mediazioni, disegni o messe in scena ottenere conoscenza e dialogo che non sono altro che gli ultimi due residui non bellici della nostra cultura. In questi termini ho invitato William Kentridge perché si possa discutere di tecnologia e realtà per chiederci dove sia più presente l’uomo per scoprire forse che la sua rappresentazione con l’arte è più credibile delle informazioni che abbiamo dai media”, anticipando alcuni argomenti sui quali si confronterà con Kentridge, la cui presenza, in questi giorni a Roma, assume un significato ancor più importante a meno di due settimane dall’inaugurazione della monumentale opera-installazione che ha concepito sugli argini del Tevere: Triumphs and Laments, al tempo stesso un omaggio senza precedenti, una celebrazione grandiosa, ma anche una rappresentazione originalissima dei grandi momenti di Bene e Male che la Città Eterna ha vissuto nel corso della propria storia. E aggiunge Finazzer Flory : “William Kentridge non è solo l’artista che ha dato vita al disegno per proiezione ma la sua opera è tale perché mette in discussione il nostro pensiero come disegno non lineare. Invitare Kentridge, dunque, significa offrire il disegno storto della storia. In una rassegna il cui tema quest’anno è migranti la presenza dell’artista sudafricano è anche una nota di polemica contro l’estetizzazione e la retorica della sofferenza e della morte che invade la nostra comunicazione. Utilizzare il cinema di animazione di Kentridge per scuotere le coscienze per rappresentare la denuncia sociale significa in altri termini preferire le ombre della realtà, l’ambiguità al tutto chiaro. Come del resto ha ben scritto Kentridge “se c’è qualcosa che l’arte deve fare è renderci coscienti di un precetto: mediare sempre”. La sfida della cultura europea che riguarda un’idea di integrazione fondata su legami profondi potrebbe avere in questo artista un punto di riferimento, un esempio, un’azione”.
William Kentridge, artista, regista teatrale e di film di animazione, è nato a Johannesburg, Sudafrica, da famiglia ebraica. Suggestionato dall'orrore della segregazione razziale e dalle problematiche connesse - abusi nell'ambito del lavoro, barriere razziali, aspirazioni libertarie dei neri - Kentridge ha affrontato l'argomento in molte sue opere, traendo ispirazione tanto da quadri di Goya e di Hogarth quanto dalle pellicole dell'Espressionismo tedesco e dai film di S.M. Ejzenštejn. Si è servito del disegno a pastello o a carboncino per i filmati d'animazione, rivelando innovative capacità tecniche.
Della sua ricca attività teatrale si ricordano i lavori svolti in collaborazione con la Handspring Puppet Company, tra cui Il ritorno d'Ulisse e la regia de Il flauto magico di W.A. Mozart. Kentridge ha partecipato a manifestazioni internazionali quali le Biennali di Venezia, Istanbul, Johannesburg, L'Avana, Shanghai. Numerose mostre l’hanno visto protagonista nei più prestigiosi musei del mondo.
Kentridge sta ultimando l’installazione Triumphs and Laments, straordinario progetto per la città di Roma: un fregio – lungo 550 metri – composto da 80 figure alte fino a 10 metri, realizzato con una pulizia selettiva della patina biologica accumulata sui muraglioni nel tratto del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Triumphs and Laments racconta la storia millenaria di Roma in una sequenza non cronologica, volgendo lo sguardo sia ai trionfi che alle sconfitte. L’inaugurazione è prevista il 21 aprile del 2016, in occasione del Natale di Roma.
Il Gioco serio dell’Arte, nato nel 2006, per volere de Il Gioco del Lotto – Lottomatica, è ideato e condotto da Massimiliano Finazzer Flory e presentato presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, guidate dal nuovo direttore Flaminia Gennari Santori. Quest’anno, la rassegna culturale viene nuovamente ospitata a Palazzo Barberini, che risplende nella sua bellezza dopo i recenti lavori di restauro realizzati anche grazie ai fondi de Il Gioco del Lotto.
“Migranti sono i pensieri che si connettono ad altri pensieri. Migranti, oggi come non mai, sono le nostre identità” suggerisce il regista e attore Massimiliano Finazzer Flory, ideatore de Il Gioco Serio dell’Arte, nel presentare il tema di questa edizione. “Migranti sono i quadri, le opere d’arte, adesso anche i musei e con loro gli uomini che attraverso le arti uniscono culture e costumi”.
La X edizione del Gioco Serio dell’Arte, “Migranti”, vuole rappresentare una casa d’accoglienza per tutti coloro che desiderano darsi convegno per celebrare una visione dell’arte totalizzante, alla ricerca del segno culturale in ogni gesto e in ogni attimo della nostra vita. La manifestazione è incentrata sull’incontro/dialogo con personalità di statura nazionale e internazionale, sul tema prescelto per ciascuna edizione. La parola intesa come momento artistico del vivere. La conversazione come scintilla della percezione e come provocazione intellettuale.
lunedì 11 Aprile 2016 ore 18.30
Palazzo Barberini, Via delle Quattro Fontane 13, Roma
Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Per informazioni www.giocodellotto.it - www.finazzerflory.com
Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma
Palazzo Barberini
Roma - Via delle Quattro Fontane 13
07/04/16
Torna in Italia la "Testa di Augusto" rubata negli anni '70.
E' pronta a tornare a casa sua, a
Nepi, una testa in marmo di Ottaviano, futuro imperatore
Augusto, rubata negli anni '70 e ora ritrovata in Belgio.
Il
prezioso reperto romano sara' ufficialmente riconsegnato
all'Italia e alla cittadina laziale dal museo reale d'arte e di
storia di Bruxelles con una apposita cerimonia, il prossimo 28
aprile.
Una storia a lieto fine, fra quelle dei tanti tesori
nazionali trafugati e scomparsi per anni, oltre che una
testimonianza concreta di una collaborazione fruttuosa fra le
autorità belghe e italiane.
"Per noi si tratta di un ritorno importante - spiega Pietro
Soldatelli, sindaco di Nepi - visto che si tratta di un pezzo
ben conservato, che penso potrà essere visibile al nostro museo
gia' da maggio".
Il museo belga aveva regolarmente acquistato la scultura nel
1975, da un antiquario di Zurigo, non risultando all'epoca il
pezzo come mancante.
Da allora la testa in marmo del futuro
imperatore romano è rimasta al sicuro a Bruxelles nella
'galleria dei ritratti', di fronte ad un ritratto di Livia e
vicino a quello di Druso.
La comunicazione del furto di fatto e' avvenuta solo di
recente, grazie ad una vecchia fotografia scattata dall'Istituto
di archeologia tedesco che custodiva l'origine del reperto: il
togato che ornava negli anni '70 il portico del palazzo comunale
della piccola città laziale non era acefala, ma sfoggiava un
ritratto di Augusto velato.
Una volta appurata la reale
provenienza "il museo di Bruxelles ha dato subito la sua
disponibilita' alla restituzione - racconta Soldatelli - e lo
stesso re del Belgio ha dato il via libera all'operazione di
rientro", che sara' festeggiata da una analoga cerimonia anche in
Italia.
Alta quaranta centimetri e mezzo, leggermente girata verso
destra, la testa ritrovata presenta i tratti di un uomo giovane
e magro, una delle prime rappresentazioni di Ottaviano (68
a.C.), il futuro imperatore Augusto (27 a.C. - 14 d.C.),
all'epoca in cui si batteva per recuperare l'eredita' di Cesare,
suo padre adottivo, prima della decisiva vittoria di Azio (31
a.C.).
Il giovane Ottaviano e' togato e con la testa coperta,
ritratto sia come sacerdote (pontifex) che come uomo pio.
06/04/16
Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. (Pietro Zullino - "Cinzia con i suoi occhi").
Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. Succede anche questo nell'editoria italiana. Pietro Zullino, che ho avuto la fortuna di avere come amico, scrisse questo suo libro qualche anno prima di morire.
E' un romanzo fiume, dedicato a Lucio Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi.
Zullino ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e passionalmente coinvolto, enormemente attuale nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica.
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio).
Sono dunque ben pochi quelli che hanno avuto il privilegio di leggerlo.
Nell'attesa che qualcuno - di quelli che contano (ma cosa contano?) si accorga di lui, è già stata fatta una traduzione in americano moderno del romanzo.
E a Pietro e alla sua opera è stato dedicato post-mortem un volume di studi a cui ho contribuito proprio con questo testo, su Cinzia.
Che qui ripropongo.
Testo scritto per PIETRO ZULLINO, UNA VITA PER LA SCRITTURA, Carabba, 2014
Cinzia
con i suoi occhi
di Pietro Zullino: “Chi ama può vagare”, il romanzo di una ribellione
di Fabrizio Falconi
La
fortuna dei libri di Pietro Zullino presso i maggiori editori italiani –
Mondadori e Rizzoli tanto per citare soltanto i più blasonati – durò oltre un
decennio, a cavallo tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80.
A
partire da quella data, qualcosa si spezzò: a Zullino, come ad altri autori di
quegli anni, che si erano concentrati, nella loro produzione, sulla adesione
profonda agli ideali interiori (autenticità, fedeltà, vero) invece che
all’inseguimento delle mode del momento e dei diversi conformismi del mondo
editoriale italiano, capitò di sentirsi sempre più ai margini, sempre più fuori posto, sempre meno in sintonia con
i gusti prevalenti.
Zullino, con la sua propensione per lo studio,
con il suo rovesciamento dei canoni storico-accademici, con il suo spiccato
senso per la colta provocazione che gli permetteva di leggere la realtà
contemporanea con occhi sempre nuovi, sentiva di non appartenere alla folta
schiera dei narratori per una stagione. Il
suo sguardo era rivolto all’oltre, ciò che gli premeva era la continuazione
dell’indagine del contesto storico-politico come conformazione ed estensione
delle contraddizioni individuali umane, quelle cioè celate nel cuore di ogni
uomo.
Da
questo punto quindi l’esplorazione del mondo classico e delle sue radici era
per Zullino il terreno ideale per dare corpo a quella esplosione multiforme di
ripensamenti sulla realtà che si vive (nell’oggi) e su quella che si immagina,
se è vero che proprio nei reconditi del mondo antico, e in specie nella vicenda
della Roma imperiale, è possibile rintracciare i segni sensibili e tutte le
contraddizioni del presente storico e antropologico, come scriveva Ungaretti a
proposito di Virgilio che – diceva - ci accompagna non più come un emblema ma
come uno dei fatti della nostra vita (1).
I
fatti della nostra vita, dunque,
quelli che più interessavano Zullino e che nei primi anni del 2000 lo portarono
a cimentarsi in un lungo, estenuante progetto rappresentante la summa di una meticolosa ricerca capace
di coniugare lo studio e l’esercizio linguistico – da sempre cifre
caratteristiche della sua opera – con la pura narrazione, con il disegno di un
amplissimo (e definitivo) affresco su quel mondo, il mondo degli amati classici
latini, di quei cantori che prima e
forse meglio di tutti gli altri seppero scendere nei recessi dei fondamentali
umani.
05/04/16
Il libro del giorno: "I racconti di Belzebù a suo nipote" di Georges I. Gurdjeff
Il primo dei grandi libri scritti dall'armeno Gurdjeff dopo il 1924, filosofo, scrittore, mistico e "maestro di danze" , una delle personalità più rilevanti del Novecento. Un impressionante, ridondante affresco visionario che ricostruisce la storia del mondo dagli albori fino alla civiltà indiana, tibetana ed europea, vista dagli occhi di Belzebù, essere superiore, navigatore spaziale, emissario del Creatore Unico sul nostro pianeta, e raccontata al nipotino Hassin, ansioso di conoscere particolari sulla vita degli abitanti del pianeta Terra.
Gurdjeff stupisce, sconcerta. La sua è una visione del mondo, della vita e dell'universo realmente nuova, del tutto inedita, che ribalta ogni luogo comune e ogni consolidata certezza.
Lo scienziato Ouspenskij sistematizzò, teorizzandola, l'opera di Gurdjeff, attribuendo valore filosofico ad un'opera per molti versi poetica sulla natura umana, interpretata attraverso una smodata voglia di classificare, enumerare, nominare, che rende difficile e estremamente affascinante questa lettura.
Gli uomini sono esseri tricentrici, tricerebrali che hanno smarrito la loro via (non praticano più i loro "doveri esserici") e si sono abbandonati alle cristallizzazioni dell'utilizzo dell'organo kurdabuffer che porta: odio, invidia e ogni altro tipo di bassezza umana.
Da rileggere oggi, di straordinaria attualità.
I racconti di Belzebù a suo nipote
di Georges I. Gurdjieff (Autore),
M. Fumagalli (Traduttore), R. Cervetti (Traduttore)
Neri Pozza Editore
Neri Pozza Editore
04/04/16
Una grande mostra dedicata a Mario Monicelli e al suo cinema.
Alla Galleria d'ArteModerna e Contemporanea di Viareggio si è appena inaugurata 'Mario.
Chiara Rapaccini e Andrea Vierucci per Monicelli', terza mostra
del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016 che ha aperto i
battenti ieri per proseguire sino al 10 aprile, tra
Lucca, Viareggio e Barga.
Proprio il 3 aprile, al cinema
Centrale di Viareggio, che Monicelli aveva eletto come sua citta'
d'adozione, verra' riproposto in sala L'Armata Brancaleone, del
1966.
Introdurra' la proiezione Chiara Rapaccini, compagna di una
vita del regista. La mostra, che gli rende omaggio, proseguira'
fino al 16 maggio.
L'esposizione e' nata dall'incontro tra l'artista Chiara
Rapaccini, in arte Rap, e il fotografo Andrea Vierucci.
L'incontro, avvenuto sul set di un servizio fotografico per la
rivista Ville Giardini, ha segnato l'inizio di un'amicizia e un
sodalizio artistico che li ha portati nel corso del 2015, anno
dedicato al centenario della nascita del cineasta, a collaborare
con entusiasmo a diversi progetti.
Le opere di Chiara Rapaccini
sono diventate, tra le altre cose, protagoniste di
un'installazione surreale, ambientata all'interno di una
fabbrica abbandonata nella laguna di Orbetello, che Vierucci ha
poi fotografato.
Alla GAMC di Viareggio i due artisti scelgono
di raccontare il cinema italiano attraverso le arti.
Le foto di
scena dei set di Monicelli si trasformano in teli dipinti,
graffiati, ricamati, fotografati in un'archeologia industriale,
per tornare, come in un gioco dell'oca, al filmato proiettato
sul muro del museo.
Dai tessuti di cotone, un giovane Mario
Monicelli sorride, giocando con i suoi cappelli. Intorno,
leggeri, fluttuanti, i volti di Toto', Anna Magnani, Gassman e
Mastroianni.
L'unione tra architettura, cinema, pittura e fotografia
sembrano magicamente ritrovare un unico filo conduttore nelle
immagini di Andrea Vierucci che ha raccolto con grande
coinvolgimento emotivo oltre che professionale il lavoro di
Chiara Rapaccini.
Per i suoi teli, Chiara Rapaccini si e'
ispirata alle fotografie del suo archivio privato scattate dai
piu' grandi fotografi di scena degli anni '60, '70, '80, '90, sui
set dei film di Mario Monicelli.
Queste foto erano state gettate
via, insieme ad altri documenti preziosi, dallo stesso
Monicelli, come "documenti del passato di nessun valore".
Chiara
le ha recuperate, e negli anni le ha catalogate, ordinate,
archiviate, lasciandosi ispirare dai forti contrasti del bianco
e nero della pellicola e dalla straordinaria forza espressiva
del lavoro dei maestri della fotografia di scena, Secchiaroli,
Strizzi, Doisneau.
03/04/16
Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."
E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo".
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico...
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti.
«E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».
Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».
Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo».
Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».
Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».
Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci».
Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».
In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto».
02/04/16
I Coldplay utilizzano una poesia di Rumi nell'ultimo album (e Obama).
Alla traccia 7 del nuovo - bellissimo - album dei Coldplay, nel brano intitolato Kaleidoscope, alcuni avranno riconosciuto, recitata dalla profonda voce del cantante blues Coleman Barks, una delle più celebri poesie di Rumi, poeta mistico persiano, fondatore della confraternita sufi dei dervisci, La locanda.
Eccone il testo in Italiano:
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandata
come guida dell'aldilà.
Nella stessa canzone, alla fine, I Coldplay utilizzano un frammento della voce del presidente Obama: non di un discorso, ma mentre canta "Amazing Grace" al funerale del reverendo Clementa Pinckney , uno delle nove vittime della sparatoria giugno 2015 a Charleston, South Carolina.
Chris Martin, il frontman del gruppo, parlando a The Sun , ha spiegato, " Abbiamo un piccolo frammento del presidente mentre canta 'Amazing Grace' in quella chiesa. A causa del significato storico di quello che ha fatto e anche perché il significato di quella canzone è più o meno: "io mi sono perso, ma ora mi sto ritrovando" E' un messaggio ispiratore di per sé, ma è reso ancor più forte in connessione con le altre parole che Obama ha condiviso durante l'elogio per Pinckney , in cui ha toccato la violenza armata, razziale tensione, e il significato della fede nel mondo terrificante di oggi.
31/03/16
Einaudi: una mostra a Milano celebra una grande casa editrice.
La storia dei 50 anni più gloriosi
della casa editrice Einaudi raccontata attraverso i suoi libri,
la sua grafica, il suo lavoro editoriale.
Nella Galleria del
Gruppo Credito Valtellinese nel Palazzo delle Stelline a Milano è
aperta la mostra "I libri Einaudi 1933-1983", un viaggio tra la
letteratura e il design che presenta al pubblico la collezione di
libri di Claudio Pavese.
"Abbiamo voluto - ci ha spiegato -
ripercorrere tutti questi momenti della casa editrice, però
mettendo a disposizione del pubblico finalmente per la prima
volta, e non solo esposte ma anche in catalogo, tutte le 92
collane della casa editrice. Teniamo presente che l'Einaudi negli
anni Sessanta è stata ritenuta la più grande casa editrice al
mondo".
E dunque nelle teche esposte è possibile trovare i Narratori
contemporanei Pavese, Hemingway e Sartre; oppure i Coralli di
Joyce e Robbe-Grillet, o ancora la prima edizione italiana, nei
Supercoralli Einaudi, di un romanzo mitico come "Il giovane
Holden" di Salinger, con la copertina di Ben Shahn, accanto al
"Partigiano Johnny" di Fenoglio.
Senza dimenticare Bruno Munari,
figura chiave nella storia einaudiana, Samuel Beckett, presente
come narratore, commediografo e poeta e, naturalmente, Antonio
Gramsci.
Ma accanto a questi mostri sacri, e qui sta forse la
parte più viva della mostra, con una reale adesione all'idea di
cultura popolare.
"Citiamo alcune collane come esempio - ha aggiunto Pavese - I
Libri per ragazzi, che hanno accompagnato l'infanzia di
generazioni di lettori. La collana Tantibambini, che tanti ancora
si ricordano di Bruno Munari, un gioiello assoluto di editoria,
oppure altre collane come la Biblioteca di cultura storica, una
delle più longeve della casa. O i Saggi Einaudi, nella quale sono
passati testi fondamentali come Dialoghi con Leucò di Pavese, in
prima edizione, come Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, e
così via".
La sensazione, uscendo dalla mostra, è quella di avere
ripercorso la storia di un editore che pubblicava Musil e Walter
Benjamin, certo, e che lo faceva utilizzando il lavoro dei
migliori grafici, dando all'oggetto libro quella capacità di
resistere, anche oggi, non solo come prodotto culturale, ma anche
come vera e propria opera d'arte. Pronto, nonostante tutto, ad
affrontare il futuro.
fonte askanews
30/03/16
"Pastorale americana" di Philip Roth (RECENSIONE).
Ho letto Pastorale Americana, uno degli ultimi Roth che mi mancava da leggere, negli stessi giorni in cui a Roma è accaduto un brutale fatto di cronaca, l'omicidio a sangue freddo - per sapere cosa si prova - di un ragazzo, da parte di altri due, apparentemente tipi normali, provenienti da ottimi genitori e ottimi padri, i quali hanno pensato bene subito dopo l'efferato crimine, a cadavere ancora caldo, di andare in tv in prima serata (o scrivere sul proprio blog personale) a difendere questi figli e rivendicarne la bontà, la probità, l'innocenza.
C'era dunque parecchio da meditare, mentre si scorrevano le pagine (423) di questo grande romanzo americano, nel quale Roth descrive la discesa agli inferi di Seymour Levov, detto Lo Svedese, aitante e perfetto americano (ebreo figlio di figlio di immigrati dall'est europeo), con perfetta moglie (Miss New Jersey) al fianco, che scopre nell'unica figlia Merry, una pluriomicida, bombarola contestatrice in fuga da tutto, ritrovandola più avanti nella storia in miseria, finita in una sorta di comune giainiana, sempre più disperata e sola, e del tutto immune ai richiami dell'affetto familiare.
La catastrofe descritta da Roth è perfetta, e si dipana principalmente intorno all'argomento della rimozione dell'ombra. Seymour è in buona fede, crede "ai valori", al modello di vita americano, crede nelle cose giuste, e la vita gli ha sempre dato ragione premiandolo con riconoscimenti e onori (nello sport, nell'amore, nel lavoro). Ma questa perfezione è sterile, la famiglia perfetta - si sa - genera mostri (come è il caso anche delle famiglie romane di cui sopra, a quanto pare) e il piccolo mostro Merry - insieme ai suoi compagni d'avventura prima fra tutte la perfida Ruth - sa il fatto suo: sa come distruggere l'icona perfetta dalla quale proviene, sa come minarne ogni certezza, ogni convincimento, ogni sicurezza, ogni appiglio, ogni immagine ideale a dosi di deflagrante realtà.
Roth tiene in pugno il lettore e lo spreme fino alla fine, essendo qui la sua scrittura al culmine di una abilità non fine a se stessa.
Semmai, anzi, la scrittura risente anche troppo dell'obiettivo che sta a cuore a Roth. La sua voce parteggia fin troppo apertamente per qualcuno dei personaggi, come Ruth, la messaggera incaricata di scaricare addosso a Seymour il suo completo fallimento, o come Jerry il fratello cinico dello Svedese.
A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.
Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale, mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.
Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.
Fabrizio Falconi
Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997
A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.
Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale, mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.
Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.
Fabrizio Falconi
Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997
29/03/16
"Scenari" - lo scritto di Pasqua di Fabrizio Centofanti
Si cominciava a parlare di scenari. Ormai era chiaro che le profezie non riguardavano solo il Vaticano, l'attacco tremendo alla Chiesa che l'avrebbe costretta a rinnovarsi, ma un'area molto più vasta, e forse il mondo intero.
I cento anni di dominio di satana sarebbero finiti coi fuochi d'artificio di una guerra totale, che avrebbe seminato la morte e innescato un meccanismo di autodistruzione che solo il Pantokrator, il Signore che tiene i fili e le trame della storia, avrebbe frenato al tempo giusto.
Già parlavamo di ritorno all'essenziale, di valori che sarebbero riemersi, dopo la grande parentesi di confusione e di non senso, in cui ogni capriccio era un diritto, ogni voglia dell'io una legge da imporre con la forza o con la persuasione occulta.
Stavamo toccando il fondo del liberismo e del libertinismo, la democrazia era ormai diventata una facciata che nascondeva il governo assoluto di pochi potentati e lo sfruttamento di una massa inconscia di obbedienti manichini manovrati dall'alto.
La cultura procedeva con parole d'ordine cui tutti dovevano piegarsi; lobby intoccabili proclamavano del tutto indisturbate il loro verbo lascivo, viscido, sfuggente, e nello stesso tempo categorico e rigido, intollerante riguardo al pur minimo accenno di dibattito.
Un'idea valeva l'altra, perché tutte finivano nel grande calderone di una dittatura invisibile e implacabile, fondata sull'apparente libertà dei social network, degli squallidi spettacoli dei media, proni alla ferrea volontà delle multinazionali del pensiero unico.
Persino la fede era gestita da un'industria sofisticata e aggiornata del politically correct, dell'adeguamento al mondo.
Era sempre più chiaro che la corsa verso il nulla sarebbe sfociata in un esito al contempo sorprendente e prevedibile: si sarebbe compreso, finalmente, che il male è male, e fa male.
Da questa coscienza elementare si sarebbe generata la nuova civiltà; una bella mattina, ci saremmo guardati negli occhi dal fondale di un mondo totalmente rinnovato.
testo di Fabrizio Centofanti
Qui il suo blog La poesia e lo spirito.
foto in testa di Fabrizio Falconi
28/03/16
Palmira è libera ! Una mostra a Mantova "Salvare la Memoria" con i reperti di Palmira e di altre zone di guerra.
Le notizie della liberazione di Palmira da parte delle forze governative di Damasco, hanno riacceso la speranza, in quei luoghi flagellati dalla guerra e dalla occupazione dell'Isis.
Assume ancora più rilevanza la splendida mostra organizzata a Mantova:
È una mostra idealmente dedicata al Direttore del sito archeologico di Palmira Khaled Asaad, quella che si può ammirare al Museo Nazionale Archeologico di Mantova fino al 5 giugno, con il titolo “Salvare la Memoria”.
Ma anche al non meno prezioso, e spesso anonimo, esercito di “Monuments Men” che ovunque nel mondo si vota al recupero di un patrimonio di arte che è storia di tutti.
Un patrimonio violentato da guerre, come quella in Siria appunto, ma anche da terremoti, alluvioni e da tutti quegli eventi che, ferocemente e improvvisamente, si sovrappongono al fisiologico effetto del tempo su ciò che è testimonianza del nostro passato.
Una grande storia raccontata, nei tre piani dell’Archeologico di Mantova, da immagini originali, documenti, filmati, reperti (simbolicamente preziosi quelli provenienti da Palmira), testimonianze dirette.
Un laboratorio, aperto al pubblico, mostrerà dei restauratori all’opera su testimonianze di una villa distrutta dal terremoto del 2012 nel mantovano.
Protagonisti di vicende di salvaguardia e difesa del patrimonio artistico mondiale incontreranno il pubblico nel corso di incontri calendarizzati nel periodo della mostra.
Il progetto “Salvare la Memoria” è un’iniziativa del Polo Museale della Lombardia, a cui si affiancano il Comune di Mantova, l’ISCR, l’ICCROM, l’Università degli Studi di Milano, l’Università IULM, Monuments Men Foundation, Palazzo Ducale- Mantova, Diocesi di Mantova, Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Ad affiancare Elena Maria Menotti e Sandrina Bandera, che ne sono curatrici, è un ampio e qualificatissimo Comitato Scientifico.
A contrapporsi alla violenza della distruzione c’è la forza della restituzione. Come racconta questa affascinante mostra e come ricorda, non a caso, il suo sottotitolo. Non caso ad accoglierla è Mantova, città devastata dal terremoto del 2012. Quell’evento causò, tra l’altro, il crollo del cupolino della Basilica di Santa Barbara e produsse seri danni ad uno dei luoghi simbolo della città, la Camera degli Sposi in Palazzo Ducale, rendendolo a lungo non visitabile.
E con quello di Mantova, altri terremoti, dal Friuli ad Assisi, a Bam, L’Aquila, sino al Nepal. Come dimenticare poi l’alluvione del 1966 a Firenze e l’esercito degli “Angeli del fango”? O, su altro fronte, l’attentato all’Accademia dei Georgofili?
Le distruzioni scientemente provocate dagli uomini non si sono rivelate meno catastrofiche di quelle naturali.
Distruzioni ereditate da guerre del passato recuperate molto tempo dopo, come è accaduto per Vilnius dove le distruzioni perpetrate dalle truppe di Pietro il Grande, sono state sanate solo dopo il 1989.
Rievocando la Prima Guerra Mondiale, l’attenzione è proposta su Mantova, Milano, il Veneto. Ancora Mantova, nella Seconda Guerra Mondiale, insieme a Milano - con focus sulla sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, e su Cenacolo, Brera e Poldi Pezzoli - , le figure e l’azione di Pasquale Rotondi e di Modigliani e Pacchioni per la messa in sicurezza delle grandi opere d’arte italiane.
Ma anche le vicende dell’obelisco di Axum, con le immagini della traslazione a Roma dall’Etiopia e della sua restituzione.
A questa sezione della grande mostra ha collaborato, tra gli altri, la Monuments Men Foundation di Dallas.
Tra i troppi conflitti recenti, la mostra propone quelli in Kosovo e in Afghanistan, evidenziando gli interventi di restauro dell’ISCR e la ricostruzione del ponte di Mostar.
Le cronache quotidiane documentano le distruzioni in Iraq e Siria.
Le immagini delle distruzioni di Palmira hanno colpito l’opinione pubblica mondiale. Da ricordare che in quell’area archeologica era attivo il progetto “Pal.M.A.I.S.” dell’Università degli Studi di Milano, così come ed Ebla l’Italia era presente con una propria missione archeologica. Per scelta delle curatrici, in questa sezione le immagini saranno esclusivamente “positive”: proporranno le attività di ricerca archeologica svolta. Nessuna immagine di distruzione, ma un puro segnale grafico a simboleggiare la temporanea, forzata interruzione di un percorso di ricerca, recupero e valorizzazione.
La grandezza di Palmira sarà testimoniata da reperti originali concessi dai Musei Vaticani. La mostra, inoltre, suggerirà di approfondire la grande storia della Mezzaluna Fertile visitando la Collezione Mesopotamica custodita in Palazzo Te.
L’attenzione del visitatore viene attratta anche su altri fenomeni presenti durante i conflitti, quali gli scavi clandestini, evidenziando i casi di Apamea, Umma e Zabalam, con l’utilizzo di foto satellitari.
Mentre scorrono le immagini della “Giornata Unesco di lutto per la distruzione dei beni culturali”, la mostra porta l’attenzione sul farsi strada di una nuova consapevolezza. Citando come esempio la salvaguardia dei monumenti anche nel caso di grandi opere di ingegneria: emblematico è stato l’innalzamento dei templi di Abu Simbel per consentire l’invaso della diga di Assuan.
Questa è una mostra che vuole ostinarsi a guardare avanti, a valorizzare il bello dell’uomo: ed ecco l’attenzione sui “blue shields”, il Comitato Internazionale dello Scudo Blu (ICBS) fondato nel 1996, "per lavorare per proteggere il patrimonio culturale mondiale minacciato da guerre e disastri naturali". E sull’attività davvero fondamentale del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, soprattutto in Iraq, i nostri “Caschi blu della cultura”.
Una mostra per non smarrire la memoria e condividere con i nostri cari, con le famiglie, con gli amici, con i compagni di classe significative e potenti immagini da non dimenticare e un patrimonio di cui essere fieri.
Orari:
martedì, giovedì e sabato dalle ore 14 alle ore 19
mercoledì, venerdì e domenica dalle ore 8.30 alle ore 13.30
Per informazioni:
museoarcheologico.mantova@beniculturali.it
Tel. 0376.320003
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