Da qualche giorno mi girava intorno la bellezza ultrasensibile della parola 'ineluttabilità', e ragionavo sulla parola 'lutto' che sembra contenere: perché in fondo 'ineluttabilità' è anche qualcosa che non può essere elaborato come lutto, come distacco o mancanza.
La radice etimologica però ci spiega che le due parole hanno origini dissimili e diverse.
'Lutto' viene dalla stessa radice di 'lugubre' che è il latino lugere, ovvero piangere (che ha una radice ancora più suggestiva in leug, 'rompere', e nel tedesco loch 'strappo'), mentre ineluttabilità deriva da luctari, lottare.
Quindi il lutto è qualcosa che si rompe e provoca dolore, l'ineluttabile è qualcosa contro cui non si può lottare.
Eppure chiunque l'ha sperimentato, sa che un lutto (chi ha perso un genitore, un compagno, un amico, un figlio) è per sua natura ineluttabile. Cioè è qualcosa contro cui non si può lottare.
O meglio, esiste una fase, nel lutto, nel quale si lotta con le unghie e con i denti contro quel dolore divorante, e lo si rifiuta.
Questa è per esattezza la
seconda fase del lutto, nella definizione classica di
Elisabeth Kübler Ross, quella della rabbia (come è noto le fasi sono 5:
negazione o rifiuto;
rabbia;
contrattazione o patteggiamento;
depressione;
accettazione).
Un lutto dunque, dovrebbe terminare sempre con una accettazione. Che è il mezzo attraverso il quale una persona continua a vivere, ad avere riconoscibilità sociale (oltre il lutto) e a sopravvivere.
L'esperienza insegna però che la Mente sfugge a ogni catalogazione: le sue risorse sono illimitate anche nella risposta agli stimoli esterni (che in questo caso sono la perdita di una persona cara).
Le risposte dunque sono le più varie, e non accade di rado che un lutto sia realmente inaccettabile e inaccettato.
In questi casi l'elaborazione non si completa: la persona rimane monca, come mutilata, incapace di accettare il distacco, di viverlo profondamente e com-prenderlo.
Un lutto ineluttabile è perciò per noi quel lutto che resta come tale e senza che contro di esso si riesca a lottare, ma nemmeno si riesca ad accettare.
Nessuna efficace lotta per ristabilire il sopravvento della coscienza e per inquadrare questo sentimento nella ragione, riesce. Ci si ferma ai bordi, senza essere capaci di fluire dall'altra parte. Ci si affida a pratiche e terapie nella speranza che i farmaci o i suoi surrogati riescano a far fuoriuscire dal tunnel nel quale ci si sente prigionieri: la mancanza di quella persona che è parte di noi, che c'è ancora ma non c'è, che è finita da un'altra parte dove noi non possiamo arrivare, dove noi non possiamo (più) toccarla.
Il fenomeno mi sembra in crescita - e si allarga anche ad altri tipi di lutto (non solo la morte di una persona, ma anche il suo allontanamento, la perdita amorosa, ecc..) e ciò è dovuto anche allo spaventoso ridimensionamento di quegli 'ammortizzatori' sociali che fino a qualche generazione fa aiutavano nella elaborazione del lutto: i segni esteriori, la riconoscibilità dell'ambiente intorno, il tempo assegnato alla persona rimasta 'orfana'.
Oggi chi vive un lutto è spesso lasciato nella più completa solitudine.
La morte è un argomento fastidioso, che si evita nei consessi sociali, che si preferisce non nominare. Il distacco dalla persona è brutalizzato da pratiche terrificanti: il morto viene chiuso, seppellito e congedato nel modo più frettoloso possibile. I cimiteri sono luoghi che vengono evitati, al morto si preferisce pensare come ad una entità astratta. Il corpo morto non ha più nessun valore, nessun significato.
Questa mancata elaborazione esteriore rende sempre più difficile la vera elaborazione interiore.
Il lutto ineluttabile diventa così sempre più diffuso, sempre più pericolosamente reale nel conto delle nostre vite.
Fabrizio Falconi-© riproduzione riservata 2015.
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