16/06/11
'Considerate ciò che c'è sulla terra !'
10/06/11
Ervin Laszlo: "Stiamo provocando il divorzio uomo-natura. Siamo a un bivio: o una svolta sostenibile o sarà autodistruzione."
Credo sia molto istruttivo ascoltare la voce di Ervin Laszlo, grande filosofo ungherese, fondatore della teoria dei sistemi.
Ormai, secondo il filosofo, siamo completamente interdipendenti a livello planetario - potremmo dire che si è realizzata la profezia di Lao-Tse secondo cui un battito d'ali qui può provocare un terremoto dall'altro lato del pianeta - ed è quindi necessaria la formazione di una coscienza planetaria che attui la svolta verso un'economia sostenibile. L'uomo va infatti verso l'autodistruzione, continuando ad introdurre elementi non naturali nel mondo, come il nucleare.
Stiamo provocando, insomma, una sorta di divorzio uomo-natura nonostante non vi siano mai state nella storia tante possibilità a livello economico, manageriale e tecnologico per cambiare veramente il modello di sviluppo. Per Laszlo, allora, la rivoluzione deve partire dalla società, dai cittadini, che anche singolarmente grazie al web, possono aiutare a creare questa nuova coscienza planetaria.
Qui l'originale dell'intervista a Laszlo realizzata dal sito Affari Italiani nel corso del convegno dell'8 giugno a Milano intitolato: "Nutrire il pianeta di immaterialità".
06/06/11
Baumann ieri a Trento: "Stiamo disimparando a riconoscere il dolore, il dolore morale."
03/06/11
Tree of Life - Una bellezza che sussurra.
Ho visto il nuovo film di Terence Malick preparato dai pareri degli amici o conoscenti che l’avevano già visto, e che erano sostanzialmente spaccati in due fazioni: - capolavoro per gli uni; - polpettone intollerabile a base di melassa per gli altri.
Mi sono dimenticato di questi pareri quando il film è cominciato. E, come sempre mi accade di fronte ad un’opera, ho cercato di spegnere i pre-giudizi e lasciare aperti cuore e mente, per vedere cosa mi arrivava.
Tree of life è secondo me un film coraggioso e interessante, pieno di ‘anima’ se così si può dire, anche se non immune da pecche. Le pecche, in un film come questo, sono importanti quasi quanto le cose riuscite.
Tree of life è coraggioso e ambizioso perché iscrive una vicenda privata ordinaria – una famiglia media americana, padre madre e tre figli maschi – nel tutto della creazione.
Non c’è privato, dice Malick, perché è solo la nostra prospettiva molto limitata che ci porta a pensare di essere distinti dal resto del mondo, dalla storia intera del mondo.
E’ qualcosa che mi tocca molto da vicino. Quando sono diventato padre ho capito che io sono semplicemente un punto della linea. Ma il punto della linea – come è evidente anche dai fondamenti euclidei – E’ la linea stessa.
E’ la linea stessa, il punto, anche se ne è infinitesima porzione. E’ importante il punto. Perché ogni punto fa sì che la linea non sia spezzata. E sia, per l’appunto, una linea.
Il discorso religioso, secondo me, in questo film di Malick, non è centrale. Non lo è, nel senso che Tree of Life è un film di domande, e non di risposte.
Sono le domande che vengono recitate come un mantra in sottofondo durante il film – e che si rivolgono ad un Tu che non risponde – a fornire forse la cornice di una risposta possibile. Lo scopriremo alla fine.
Le domande della vita sono quelle di ognuno di noi. Sono quelle che riguardano i protagonisti di questa vicenda, dei quali scopriamo la storia, nonostante non vi siano che tre o quattro dialoghi in tutto il film. Eppure, è chiarissimo: la madre, figura bellissima, si immola, crede e contiene, è depositaria di ogni segreto e di ogni lutto. Il padre è il solito padre. Vuol bene, ma a un certo punto della vicenda, rovina tutto. Non è capace di controllare le sue ferite. Deve farsi schermo dell’autorità per imporsi. Deve farsi odiare, per essere. E i figli e la stessa moglie lo odieranno, come è giusto che sia.
Poi c’è l’imponderabile: uno dei figli muore a 19 anni. Lo sappiamo all’inizio del film, ma non sappiamo nemmeno perché. Sappiamo solo che succede e questo è l’importante.
Il vuoto inaccettabile di un dolore che non si può gestire, a cui non si può trovare posto, è il fardello che il fratello superstite – che da grande ha il volto di Sean Penn – si porterà dietro per sempre.
Come inscrivere ciò che è dato – e ingiusto, inaccettabile, come la morte di un figlio – in un contesto che abbia un senso, che non porti semplicemente alla conclusione più ovvia: ‘tutto è follia ?’
In questo senso il film di Malick non mi sembra né condito di melassa – non c’è, mi pare, nessuna consolazione preconfezionata – né volontaristico.
La domanda resta: a Malick non interessa dare risposte, interessa dire: ciò che ti turba NON è il tuo fardello, non è il tuo inciampo. Ciò che ti turba è la natura stessa del grande gioco in cui sei calato, in cui il tuo essere è heideggerianemente gettato.
Se non si capisce questo, dice Malick, se non si comprende l’esistenza di una storia e di un tutto, NULLA ha senso.
Il senso deriva dalla domanda che si ripete e nella stessa eco che produce, una eco che accompagna non solo l’uomo, ma il sorgere dei soli, la nascita del tempo, ogni cosa visibile e invisibile.
E’ solo grazie a questa eco – se le si permette di diffondersi – che la nostra crescita o maturità può trovare altre vie rispetto alla deriva nullista che sembrerebbe allora inevitabile. Il percorso di una Sapienza che questa eco contiene serve ad orizzontarsi. L’uomo non è mai stato del tutto solo con i suoi fantasmi. L’uomo è una storia. E nella storia ci sono gli uomini da cui ha imparato e quelli a cui imparerà. La vita è una meravigliosa e terribile prova che nessuno può vivere al posto nostro. La forza di una vibrazione finale ci impone di com-patire insieme agli altri. In questo – nei minuti finali del film è evidente, non è sogno, è cuore è realtà – nasce una nuova bellezza. Una bellezza che tutto contiene – anche il dolore, la perdita e la malinconia – una bellezza che sussurra: ‘nulla è perduto per sempre.’
Fabrizio Falconi
01/06/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 5
31/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 4
30/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 3
29/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 2
28/05/11
Hic iacet - Le parole della soglia - 1
LE PAROLE DELLA SOGLIA
Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.
Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.
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27/05/11
Requiem del corpo bambino.
Si perderà quel corpo bambino
vagherà senza pace nei pascoli delle colline eterne
desidererà
essere ascoltato, in piedi col suo volto bianco
laverà ogni lacrima
resisterà
per non essere un’altra volta dimenticato.
Ottenebrati e miserevole
i gesti e le parole
di chi non sa vegliare e cova
la disperazione come un frutto germinoso
che produce invece vermi
la vita non è un indizio
non è accidente e non è svista
è misura, distanza
vera attesa quieto rimpianto
il corpo bambino è ora un passaggio,
è me che invecchio, è il tempo incerto
del suo ritorno.
Fabrizio Falconi - maggio 2011 (proprietà riservata).
23/05/11
Due o tre cose su Elena, la bambina di 22 mesi dimenticata dal Padre.
Vorrei cercare di chiarire meglio alcuni pensieril sul tragico caso di Elena, la bimba di 22 mesi abbandonata in auto dal padre, che ieri è morta all’ospedale di Ancona, dopo giorni di agonia.
Di questo caso sento discutere tutta l’Italia, e anche io non ho fatto altro che parlarne, con i miei amici, le persone che ho incontrato, e in quel non-luogo che si chiama face book.
Ciò che mi ha sorpreso è innanzitutto è la grossolanità del pensiero, delle molte parole che ho sentito. “Non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana”, ammoniva Pavel Florenskij.
La grossolanità è frutto a mio avviso di una vicenda così inaccettabile che suscita in noi repulsione e volontà di essere possibilmente giustificata e liquidata in fretta.
La prima caratteristica di questa grossolanità è il riduzionismo psicologico, o meglio lo psicologismo che ho sentito in tutti i commenti, anche (soprattutto?) da parte di chi era rimasto molto colpito dalle circostanze della morte di Elena.
Siamo talmente intrisi di psicologismo e di freudianesimi – da ‘Io ti salverò’ in poi – che la reazione più comune che ho sentito in giro è stata quella di spiegare la dimenticanza del padre – un professionista, un professore universitario, un padre presente e premuroso anche se indaffarato – con una sentenza di tipo psicologico: ‘un vuoto di memoria’, un ‘black out della mente’, una ‘rimozione dell’inconscio’, ‘un rifiuto non avvertito’: insomma, una formuletta qualsiasi – della quale noi nulla di nulla sappiamo, non essendo alcuno di noi esperto in psicologia - in cui rinchiudere un evento altrimenti non comprensibile, non giustificabile.
Queste definizioni però hanno ai miei occhi, una componente fortemente liquidatoria: una volta assegnato al gesto una categoria (‘non era già successo, in fondo ??’) siamo con l’anima in pace.
Il secondo aspetto che mi ha colpito molto è stato – nei commenti delle persone – l’immediata compassione per il padre, autore del gesto. La compassione per il padre ha sopravanzato in TUTTI i commenti che ho sentito, la compassione per la bimba di 22 mesi e per la sua agonia di 5 ore in una macchina surriscaldata, legata al suo seggiolino.
Anche questo è – a mio avviso – molto indicativo: nella fretta di compatire il padre c’è sostanzialmente la premura di compatire se stessi. Nessuno di noi, evidentemente, si sente al sicuro, si sente di poter escludere a priori di poter essere un giorno al posto di quel padre. E dunque, l’assoluzione per il padre, equivale anche all’auto-assoluzione preventiva, in nome delle più varie ed indistinte (anche qui il pensiero è del tutto grossolano) motivazioni/giustificazioni/alibi: la vita di merda che facciamo, la fretta, la nevrosi, ecc.. ecc..
Insomma, il refrain è sempre lo stesso, ormai, che usiamo per le nostre vite ad ogni piè sospinto: la colpa non è mai mia. La colpa è sempre di qualcos’altro: della vita, della fretta, della nevrosi, delle circostanze, del destino cinico e baro.
Ciò che invece secondo me la vicenda della piccola Elena ci chiede, è quello di interrogarci profondamente sulla nostra natura (dis)umana.
Che cosa sono diventate le nostre vite se l’antropologia supera l’etologia: se la fretta, la nevrosi, la distrazione (tutte caratteristiche dell’uomo, non animali) supera, viene prima e annienta l’istinto primario che è quello della conservazione, della cura, e della difesa ad ogni costo dei piccoli (che è tipica di ogni specie di mammiferi animali e noi fino a parola contrario questo siamo: animali, del genere dei mammiferi) ?
Che cosa resta dei valori umani (quelli scanditi dalle grandi tradizioni filosofiche occidentali e orientali, prima ancora che da quelle religiose) se la vita di un figlio nel suo ‘atto mancato’ equivale a quella di una busta della spazzatura che abbiamo dimenticato di gettare dal finestrino andando a lavoro e ci è rimasta in macchina ?
A che serve tutto questo psicologismo, questo ridurre tutto a psico-analisi, questa sterile mitizzazione della mente umana, se alla fine non siamo capaci di riconoscere nemmeno la nostra dis(umanità) – che ha che fare più con le nostre anime che con la mente – e se nemmeno quelli che sono vicini a noi sono capaci di riconoscerla in noi ?
La psicologia non è solo un nuovo espediente che abbiamo oggi (in sostituzione dei vecchi riti del passato) per tacitare le nostre sempre meno rumorose coscienze ??
Fabrizio Falconi
20/05/11
Cimiteri deserti luoghi, strade piene di fiori. Un segno dei tempi.
Girando, noto da tempo questo strano fenomeno: i nostri cimiteri ormai sono luoghi abbandonati. Eppure le strade pullulano di altari laici, memorie, scritte, fiori sempre freschi per ricordare qualcuno che si è spento.
E questo implica un rovesciamento completo della nostra forma mentis: siccome ci è molto difficile pensare, credere alla sopravvivenza dei morti in qualche forma che coinvolga il loro corpo morto, preferiamo negare questo luogo, cancellarlo dal nostro orizzonte immaginario e concentrarci sul luogo dove la VITA ha tessuto il suo ultimo istante.
19/05/11
Trio di fine millennio III.
III.
Come stenti a Rio de Janeiro,
come magici rilenti
abbandonati spenti venti sempiterni,
accaldati venti dell’entroterra arroventato
tra le macerie polverose dell’Impero
crollate sfere disfatte, spezzate,
come il cavallo sfinito bloccato
dalla canicola secca della Camargue,
come tutta questa pesantezza,
scrematura acida dell’universo
inutile biancastra
disegno d’arguzia affatto divina.
Guado atteso, intermezzo
di storia e d’avventura
russare di sogni così forte
da svegliarsi e morirne,
passa e ripassa il nostro sbaglio
sulle federe, sui cuscini
sul rumore distante dei disastri
disattesi dolorosi di strada,
sormontato dalla nausea grigia
di gabbiani, faticosamente sospinti
da venti affievoliti, distratti
stupidi venti calanti.
Agogniamo approdi
e non sappiamo nulla
di tenerezze e maree,
del pallore di bimbo,
della figuretta spersa
tra le mani della folla,
in veloce passaggio, esangue,
sul punto di morire.
18/05/11
Trio di fine millennio - II
II.
E qualcosa di sbagliato deve esserci
nell’invenzione che non risolve,
nel dubbio che non scorda
e commemora i tempi dello sbaglio,
una parola messa a caso,
indossata sulla pelle e consumata,
reato commesso solo a tratti
e poi perso per strada, senza strappi.
Qualcosa di sbagliato che addolora,
l’indifferenza tua magnifica
come se non mansueti agnelli, ma tigri
i nostri avi avessero domato.
Nello sbaglio di chi ha dirottato
un bene, progetto o utopia
c’era il mio e il tuo,
serrate fila, martiri di vita,
in quello sbaglio abbiamo creduto,
confessato piagato rapinato
il nostro fratello ammalato,
consunto e imputridito
dallo stesso porto disceso,
con lo stesso nostro odore
le vesti di seta ed il cappello
e la nostra stessa superbia.
Di tutto quanto abbiamo speso male
non è rimasto niente,
la scocca silenziosa e immobile
della pendola in soffitta.
Cosa è mai la colpa,
se accanto a noi, distesa
nella nostra stessa umida tomba
la seppelliremo, tremanti ?
17/05/11
Trio di fine millennio - I
Trio di fine millennio
I.
Molto prima che i Romani
accendessero fuochi e sparsi
marmi in questa terra di sale,
molto prima che divenisse azzurra
e molto avanti al desiderio
sbagliato e creato e ancora sbagliato
in me, e ancor prima che tu nascessi
e qualcuno pensasse il filo più tenue
dei pensieri pensabili. Molto prima
che tu fossi mio padre, io tuo figlio
e molto tempo prima che il mio sguardo
cieco affiorasse dal gorgo.
Dunque molto prima di tutto
il viandante che aveva ferite
le lasciò disegnate sulla terra
e dalle sue ferite comunque fu generata
la più assurda delle sconfitte,
la più invisibile delle presenze,
la più inutile delle cose tentate
e nemmeno iniziate.
Molto prima di tutto
c’era qui un vecchio albero
dalle vecchie foglie fredde
mai cadute.
E intorno all’albero
frettolosi vortici di pioggia,
ombre e una radura,
l’echeggiante risposta
a una domanda mai posta.
Rispondere dell’albero
Del suo fantasma ritornato,
della radura, che forse l’ha ucciso.
16/05/11
Lessico dei poeti 6 - 'Pioggia'.
Il mistero di un grande poeta non può mai essere del tutto svelato. Questa banale considerazione vale per casi esemplari come Leopardi, che in un ‘recinto chiuso’ di vita, hanno saputo scavalcare l’infinito. In America qualcosa di simile è accaduto con Walt Whitman. Che per esempio, pur non avendo mai viaggiato oltre i confini del suo stato, è secondo alcuni, il più europeo dei poeti americani. E lo è, forse, anche in certe piccole sottigliezze. Partendo dalla semplice parola ‘pioggia’ , Whitman imbastisce un segreto dialogo che porta oltre confini impensabili:
E tu chi sei? Chiesi alla pioggia che scendeva dolce,
Qualcosa di diametralmente opposto, eppure di egualmente ‘catartico’ avviene nella poesia di Carlo Michelstaedter, l’infelice e geniale poeta goriziano, nato nel 1887 (cinque anni prima della morte di Whitman). In lui, pessimismo e desiderio di raggiungere quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana si coniugano in una sorta di tragico eroismo, che ben sintetizza il titolo di una sua poesia: VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE. Qui troviamo un canto alla pioggia, ben diverso da quello di Withman:
Cade la pioggia triste e senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell'ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttüosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d'acciaio vibranti.
Qui la pioggia è dunque non qualcosa che rinnova e ri-crea. Ma qualcosa che dilegua, fa perdere e morire, come in una specie di ‘voluttuoso oblio’.
La splendida la delirante pioggia s'è quietata,
con le rade ci bacia ultime stille.
Ritornati all'aperto
amore m'è accanto e amicizia.
E quello, che fino a poco fa quasi implorava,
dall'abbuiato portico brusìo
romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:
volti non mutati saranno, risaputi,
di vecchia aria in essi oggi rappresa.
Anche i nostri, fra quelli, di una volta?
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia.
La pioggia è cessata, e noi siamo sopravvissuti. Non soltanto: il rombo che è alle spalle ci consente di apprezzare, di guardare negli occhi quello che abbiamo, quel che di certo abbiamo costruito, e non è poco. Anche se le ombre non sono scomparse. I nostri volti, infatti, potrebbero far parte ancora di quella ‘schiera del passato.’
Lo stesso soprassalto, impaurito – da pericolo scampato, da senso disperatamente ritrovato – lo ritroviamo in una poesia di poco anteriore, della grande Antonia Pozzi (1912-1938), una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano. La pioggia è questa volta nera, ed è anche ‘uno scroscio pazzo’, è un retaggio della notte. Qualcosa che è venuta a stravolgere, a confondere, a straniare. Qualcosa alla quale forse non è estraneo comunque quel senso di Whitman: anche la follia, anche l’urlo del vento ai vetri fecondano, nella vita di un essere umano, nella vita di un poeta, il germe coraggioso della vita. E della poesia.
RISVEGLIO
Riemersa da chissà che ombre,
a pena recuperi il senso
del tuo peso
del tuo calore
e la notte non ha, per la tua fatica,
se non questo scroscio pazzo
di pioggia nera
e l’urlo del vento ai vetri.
Dov’era Dio?
Fabrizio Falconi
12/05/11
Lessico dei poeti 5 - 'Spirito'.
Spirito.
Spirito, indefinibile e Uno, è sempre incombente nel canto poetico, come voce altra, come via di fuga, come diagonale o verticale, rispetto al procedere orizzontale dei versi. Un’incursione rapida e imprevedibile che agita di visioni improvvise il tracciato dei versi. Rapidità, già: lo spirito è Rapido. Come scrive Elias Canetti: La rapidità dello spirito – tutto il resto che si dice dello spirito sono scappatoie che vorrebbero mascherare la sua assenza. Si vive per questi istanti di rapidità che zampillano come pozzi artesiani dalla desolazione dell’indolenza, e solo per amor loro si è indolenti e desolati ( La rapidità dello Spirito, Adelphi, 1994 ). Nei suoi aforismi, Canetti sembra proprio esser preda di questa rapidità, della folgore che giunge a spezzare e a dare senso e adeguatezza all’indolenza e alla desolazione, prigioni della vita.
E più avanti, nello stesso libro, Canetti, con la consueta terribile ironia, proclama: Mi irrita ogni verità che io non abbia trovato fulmineamente, in questo istante. E a chi, a cosa l’uomo può affidare una simile sfida impossibile ? Un presagio, una sembianza di verità, un conforto illuminante così, solamente la poesia può concederlo, se è capace di farsi canto autentico, sintonizzato con l’Essenza.
Allora il canto può farsi, è fatto, profezia. Dichiara il vero, scandisce come i grani di un rosario il nostro esserci qui, ora.
Sono diversi i poeti che di questa rapidità si sono fatti tramite, prestando ad Essa, parola.
Eugenio Montale, nella famosa poesia Nel sonno, tratta da
Entra la luna
d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube
che gonfia: e quando il sonno la trasporta
più in fondo, è ancora sangue oltre la morte.
Cos’è quella nube che gonfia ? Trasportata dal sonno, dal regno dell’incoscienza, quella nube è fatta della sua stessa immateria. Tanto è vero, che ha il potere di portare ancora sangue, l’elemento più materiale, più umano, oltre i confini della morte.
La nube è rapida, come lo Spirito. Trasforma le cose, le purifica, le rende diverse, le trasfigura in un istante.
Qualche volta l’attesa di questa trasformazione, impressa nell’essere umano, è un accorato richiamo, come in una poesia di Ada Negri, Tu mi cammini a fianco scritta in tempi molto oscuri, nel 1937:
Fino a quando l’ultima mia notte
(fosse stanotte ! ) non discenda, colma
solo di te dalle rugiade agli astri;
e me trasmuti in goccia di rugiada
per la tua sete, e in luce
d’astro per la tua gloria.
Rugiada e luce, sono i termini di questa prodigiosa trasformazione operata dallo Spirito invocato.
E di questa stessa rapidità, è un inno Dall’immagine tesa, una famosa poesia di Clemente Rebora, contenuta in Canti Anonimi:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e del mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e delle sue pene,
verrà forse già viene
il suo bisbiglio.
Dunque questa cosa che viene, e trasforma, e viene in un istante, può, anzi deve venire in un bisbiglio. Bisogna essere attenti, svegli, non perdere tempo, non perdere l’occasione. L’occasione di dire addio alla vecchia figura di sé, e risvegliarsi nuovi.
E’ un tema che ricorre in molta della poesia recente di Marco Guzzi. In Figure dell’Ira e dell’Indulgenza ( Jaca Book, 1997 ), egli dà voce e canto a quel Vento nell’urna che, offrendo meravigliosa sintesi al mistero dello Spirito, viene a far vivere di nuovo, a ri-cominciare, a cambiare e per sempre il quadro.
I.
C’è vento nell’urna cineraria
Dei miei giorni.
“Resurrezione
E’ l’oggi, è questa quercia
Impressa nella ghianda
Data ai porci.”
II.
Vivo nel giorno
In cui mi dissi addio.