Emmanuel Carrère con la moglie Hélène Devynck ai tempi della loro relazione
Leggendo in questi giorni Vite che non sono la mia, pubblicato in Italia nel 2009 (da Einaudi e poi ristampato da Adelphi), non si può non ammirare, ancora una volta, la capacità di scrittura e di racconto di Emmanuel Carrère, anche se, tra una pagina e l'altra, affiora costante per tutto il volume il fantasma, in realtà piuttosto concreto di Hélène Devynck, l'ex moglie dello scrittore, a sua volta giornalista anchor-woman e produttrice televisiva.
Come nello stile che lo ha reso famoso, Carrère raccontando le vite di altri che non sono lui - in questo caso persone incontrate casualmente durante e dopo lo tsunami dell'Oceano Indiano del 2004, dal quale Carrère e la moglie si salvarono per circostanze fortuite, la sorella morta precocemente di tumore della moglie, a Parigi, e il collega giudice di questa - racconta anche molto, anzi moltissimo di se stesso e delle persone che gli sono vicine, in primis, la moglie Hélène.
Ma quel che racconta Carrère di se stesso e di ciò che accade nella sua vita è tutto vero?
La domanda sarebbe peregrina - visto che ogni autore, anche nella pratica ormai molto diffusa della cosiddetta autofiction, inventa, se non fosse che Carrère ha più volte spiegato di pretendere da se stesso una fedeltà assoluta a quanto racconta, anche a costo di mettersi più a nudo di quanto vorrebbe (o che vorrebbe comunque visto che piovono da anni su di lui accuse di megalomania e narcisismo).
Questo va bene per sé, ma per gli altri?
Le note vicende seguite all'uscita dell'ultimo libro, Yoga (sempre pubblicato da Adelphi) - nel quale lo scrittore racconta duramente la sua depressione profondissima seguita al fallimento del suo matrimonio, le cure a base di elettroshock, il ricovero in una clinica di rehab, ecc.. - hanno riaperto la questione, visto che nuove accuse sono arrivate, roventi, proprio dalla ex seconda moglie Hélène.
Hélène Devynck, subito dopo la pubblicazione del libro è andata giù assai pesante con un lungo intervento pubblicato sul Vanity Fair francese, nel quale accusa palesemente, in primis, l'ex marito di aver violato l’accordo tra loro due stipulato dopo il divorzio e presenta “Yoga” come una “storia falsa”.
Ricordiamo qualche passo di quell'intervento:
Emmanuel ed io siamo vincolati da un accordo che lo obbliga ad ottenere il mio consenso per utilizzarmi nel suo lavoro. Non ho acconsentito al testo così com’è apparso, nonostante l’autore e il suo editore siano ben consapevoli della mia determinazione a far rispettare questo contratto.
Negli anni in cui abbiamo vissuto insieme, Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, persino la mia sessualità: era innamorato e la mia persona era rappresentata in un modo che si addiceva ad entrambi.
Ma dopo il divorzio, dice Hélene, le cose sono cambiate e Emmanuel aveva acconsentito ad assumere un impegno a lungo termine: da quel momento in poi avrebbe dovuto chiedere sempre il consenso di lei per poterla rappresentare e non avrebbe dovuto mai inserirla contro la sua volontà. Per sempre, per tutta la durata della sua vita letteraria e artistica. Impegno che ricade anche sulla rappresentazione della figlia.
Ma proprio mentre Emmauel accettava il patto, mentiva, nascondeva che stava disegnando il mio ritratto. L’ho capito solo pochi giorni dopo la firma di questo accordo, quando ho ricevuto il manoscritto di Yoga con questa nota: “Che io scriva libri autobiografici non deve essere una sorpresa per voi. (...) Questa storia sarebbe incomprensibile se non dicessi nulla sul contesto”. Il contesto, in questo caso, ero io”.
Hélène accusa esplicitamente Carrère di aver mescolato deliberatamente realtà e finzione.
Questa storia, presentata cioè come autobiografica, è falsa, dice Hélène, organizzata per servire l’immagine dell’autore e totalmente estranea a ciò che la mia famiglia ed io abbiamo passato al suo fianco con omissioni in cui l’autore dice di “essere scivolato, deliberatamete”.
Il lettore può credere che dopo Saint-Anne (l’ospedale psichiatrico in cui Carrère è stato ricoverato per quattro mesi ndr), Emmanuel se la cavi con due mesi di viaggio per incontrare le disgrazie del mondo, quelle dei giovani rifugiati sull’isola greca di Leros. I due mesi sono durati solo pochi giorni, in parte in mia compagnia. Ma soprattutto, è stato prima dell’ospedale, ancor prima che si facesse la diagnosi del suo comportamento folle e aggressivo, che io cercavo, con i mezzi a disposizione, di contenere. L’episodio dilatato si presenta come una via d’uscita dalla depressione, un ritorno alla vita. L’opposto della realtà. E potrei moltiplicare gli esempi.
Yoga è una favola, l’uomo nudo, onesto, sofferente, che è tornato dall’orlo del baratro.
I lettori sono liberi di credere o di dubitare. L’autore è libero di raccontare la sua vita come vuole, come può. Volevo avere la libertà di non farne parte, di non essere associata a uno spettacolo presentato come autentico ma nel quale non mi riconosco perché non l’ho vissuto.
E' difficile, leggendo queste parole, non riconoscere la ragione in quello che afferma Hélène.
Fino a che punto arriva il diritto di raccontare "le vite degli altri"? Se si professa fedeltà ai fatti, come si possono mescolare ad essi invenzioni arbitrarie? Se si verifica che diverse cose raccontate nel libro non sono vere, ma frutto di invenzione, come si può credere alla fedeltà degli altri fatti? Se invece, tutto è scrittura e tutto è letteratura, non si dovrebbe rispettare la scelta di chi non vuol far parte del "contesto"?
Domande che ronzano nella testa durante la lettura e che rovinano abbastanza il grande piacere di leggere un gran bel libro come questo.
Fabrizio Falconi
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