Di Andrei Makine, è da poco uscito presso l’editore Einaudi, Il libro dei brevi amori eterni.
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Murielle Lucie Clément. – Andreï Makine, la sua idea di letteratura è mutata, da quando è iniziata la sua carriera, una ventina d’anni fa?
Andreï Makine. – In linea generale no, ma si tratta anche di capire cosa lei intenda con “idea di letteratura”.
M. L. Clément. – La sua idea personale e generale di letteratura.
A. Makine. – Il posto che la letteratura occupa in questo mondo, il posto che la letteratura occupa rispetto alle espressioni artistiche non letterarie, rispetto alla filosofia? Il campo va ben delimitato. La letteratura era, per me, una specie di sacerdozio. Si entra nella letteratura come si entra in ordine religioso. Ma senza alcuna connotazione ascetica o religiosa. Un impegno totale. Un altro modo di vivere. Proust diceva:” Leggere è assentarsi dalla vita”. Un libro è un altro modo di vivere. E’ possibile accedere in modo completo a questo modo di vivere? Non credo, perché siamo dei semplici esseri mortali e dunque siamo interessati a numerose altre attività. Tanto più che, grazie a Verlaine, la letteratura è diventata quasi una battuta: “E tutto il resto è letteratura!”
La visione che ne hanno i russi è abbastanza originale. Non hanno creato grandi sistemi filosofici, e hanno rimediato a questo con la creazione letteraria. Essere scrittore, in Russia, significa essere anche un pensatore e un filosofo. Questo confine, che troviamo in Francia e in Germania, tra letteratura e i grandi sistemi filosofici come quello di Cartesio, di Hegel o di Kant, là non esiste. I russi, dunque, sono dei sincretisti, e ciò può essere utile. Gli ha permesso di evitare lo sviluppo pletorico di una letteratura leggera, che è sempre stata indicata come belletristika. Una parola, “belle lettere”, che in francese suona nobile, ma in russo è un peggiorativo e ingloba tutto ciò che è avanspettacolo, romanzetto da leggere in treno, tutti i generi minori, i romanzetti facili. E che sono sempre stati disprezzati, in Russia. Quale sarebbe, allora, il ruolo della letteratura, come definirla? Una specie di soteriologia. La letteratura è soprattutto questo. Dopo i miei primi lavori, il mio modo di vedere la letteratura si è diversificato, se non altro proprio grazie all’influenza che, soprattutto, hanno esercitato le cose che ho scritto. Ci sono campi, come il teatro, che un tempo mi sembravano inaccessibili. Non avrei mai pensato di scrivere un pezzo di teatro, e invece l’ho scritto. Ho scritto dei saggi, anche se non mi consideravo un saggista. E, infine, non avrei mai pensato di scrivere un testo, che l’attualità mi ha spinto invece a scrivere, come Cette France qu’on oublie d’aimer.
M. L. Clément. – Ci può raccontare come è diventato scrittore?
A. Makine. – Bisognerebbe scrivere un libro intero per raccontare la nascita di una vocazione. Riandiamo per un istante al significato etimologico di questa parola, la vox, la voce che ti parla. Non nel senso che si sentano delle voci e che ne si venga illuminati. La chiamata viene lanciato da realtà inconfutabili, a cui si pensa senza pensarci, pur pensandoci: l’eroe, la morte, la brevità della vita, la fugacità del nostro essere, la sofferenza, la morte dei nostri cari, il Male, il Bene, insomma, tutti i grandi interrogativi che si pone l’umanità e che esigono una risposta da parte nostra. E bisognerebbe trovare un modo appropriato per raccontare tutto questo in modo non scolastico, né oscuro, né alambiccato. Trovare un linguaggio semplice per dire la morte, l’eroe, la sofferenza, il Bene, il Male ecc. E così, senza star lì ad architettare la cosa, si ritorna a questo, ai grandi sistemi filosofici, per parlare in modo esatto.
M. L. Clément. – Non ha veramente risposto alla mia domanda. Come sono cominciate le cose? Com’è che è diventato scrittore?
A. Makine. – Sì ma, vede, io sono stato talmente tante cose. Lei avrebbe potuto chiedermi, com’è stato com’è che a dodici anni è diventato un facchino in un mercato kolkoziano, o un pastore e poi un soldato e così via. A un certo punto ho pensato di voler diventare uno sportivo di professione. Siamo tutte queste facce. Nabokov era un professore universitario. Questa era la sostanza del suo essere, della sua vocazione? Forse un modo per sbarcare il lunario, come sono stati per me i mille mestieri che ho fatto.
M. L. Clément. – Glielo chiedo perché, prima, lei è stato uno studente universitario e ha scritto una tesi di dottorato e degli articoli di critica letteraria. Forse avrei dovuto porre la domanda in modo diverso e chiederle come lei è diventato un romanziere.
A. Makine. – L’analisi letteraria è un aspetto sussidiario rispetto alla creazione letteraria. Immaginiamo un campione di Formula 1 che, per esempio, s’interessi anche di meccanica. Questo gli dà qualcosa. Conosce meglio il motore, come funziona, i suoi limiti, ma non rimpiazza il suo talento di pilota. Un giorno, forse, quando avrà perso il suo ingaggio, potrà saltare dall’altra parte e diventare un meccanico. Succede lo stesso con la vocazione letteraria.
M. L. Clément. – Come scrive un romanzo, che è poi quello che lei fa, soprattutto. Ecco, vorrei sapere come nasce un romanzo di Andreï Makine. Parte per prima cosa dall’idea di un personaggio? O c’è una storia che le parla, al principio… ?
Intervista realizzata da Marie Lucie Clément per Le Nouvel Observateur.
A. Makine. – Semplifichiamo le cose. C’è di sicuro una parte di verità vissuta, c’è un’idea, c’è una presenza umana, la presenza di un certo tipo di carattere che la colpisce per un suo aspetto insolito o, al contrario, per la sua estrema banalità, e che chiedono di venir descritti. Questo processo germinativo a volte si riduce a un tono musicale, perché tutto è armonia a questo mondo. La si può esprimere con equazioni matematiche o con formule chimiche o con un ritmo, dal momento che tutto è ritmato, tutto è cadenzato, in questo universo, e così si comincia a sentire questa cadenza, questa misura che inizia a ritmare la sua vita e ad assumere l’aspetto di un mistero cifrato. Questo messaggio in codice si concentra in quel personaggio o in una giornata o in una situazione. Un po’ come –per rifarsi ancora a un’immagine molto banale– una goccia di rugiada è in grado di riflettere tutto un mondo. Una goccia di rugiada molto importante, anche se non lo è nella sua espressione materiale. E’ un prisma che le permette di vedere la luce composta dal suo spettro, esattamente come si scoprono i colori di un arcobaleno. Così, si tratta di trovare questa goccia di rugiada che può essere un uomo, una situazione, un dolore o un amore.
M. L. Clément. – Prende appunti oppure stabilisce un piano?
A. Makine. – Prima, tutto comincia con una lunga maturazione. Porto la cosa dentro di me. Come una musica interiore. Un ritornello, un rondeau che torna e ritorna sugli stessi temi. Un tema si sviluppa fino a diventare un soggetto, un carattere, uno scenario, un intreccio, per usare il linguaggio di un freddo analista.
M. L. Clément. – Quali sono, da un punto di vista letterario, le sue influenze più dirette?
A. Makine. – Tutto ci influenza. Semplicemente, e spesso, senza distoglierci davvero da quello che pensiamo sia il nostro cammino. Ho letto molta filosofia e dunque sono stato di sicuro influenzato da Marx, Hegel, Spinoza o Bergson. Ogni lettura ha presa su di noi, anche le letture sbagliate. Quando si è giovani, si leggono magari romanzetti da viaggio in treno, o dei gialli, che sono un genere minore, e venirne effettivamente influenzati, ma solo perché ci si dice: ”Non scriverò mai roba del genere! E’ roba disgustosa!” Spesso, dunque, non facciamo che smarcarci da certe cose.
M. L. Clément. –Ha l’impressione che uno scrittore migliori, a volte, con l’esperienza?
A. Makine. – E’ una domanda a cui ha già risposto Hemingway: « La creatività è fatta per il cinquanta per cento di lavoro e, purtroppo, per il cinquanta per cento di talento.» E’ una frase terribile. E’ allo stesso tempo stupida e vera. Mi sono sempre sentito disarmato, di fronte alle scienze esatte. Ci sarebbe una predisposizione “genetica” alla creazione letteraria ? Ho ricevuto una compensazione, grazie alle scienze “non esatte”?
M. L. Clément. – Uno è un bravo scrittore perché lavora oppure perché ha del genio…Forse, bisogna possedere talento e lavorare soprattutto moltissimo?
A. Makine. –Un pittore russo venne rimproverato per l’abbondanza della sua produzione. Allora lui rispose: « Cari amici, ci ho messo quarant’anni per imparare a fare un quadro in quaranta ore. »
M. L. Clément. – Lei come scrive? Voglio dire, scrive al computer, con la macchina da scrivere, oppure con una matita o una stilografica, a mano ?
A. Makine. – Tutti gli appunti li prendo a mano. Ho bisogno di un contatto fisico. Ma non è una cosa che valga per tutti.
M. L. Clément. – Questa è una domanda che può sembrare un pochino mistica, ma vorrei sapere se lei ha dei rituali che accompagnano la sua scrittura.
A. Makine. – No, no. Per niente. E’ una domanda che viene regolarmente fatta agli scrittori. Allora cominciano a raccontare che cominciano a scrivere con la stilografica alla tal ora. Quando si comincia a ritualizzare qualcosa di così profondo e violento come la scrittura, vuol dire che non si è più nella verità. Accade lo stesso a livello religioso. Una pesante ritualizzazione dimostra che l’ordine religioso è stato contagiato da qualcosa di falso.
M. L. Clément. – Ma, se non ha un rituale, ha allora una sua disciplina?
A. Makine. – Prendo appunti tutti i giorni, ma posso anche attraversare tutta l’Australia senza mai pensare alla mia penna. Non sono schiavo della mia penna, non sono uno scrittore con orari da ufficio.
M. L. Clément. – Insomma, scrive senza nessuna disciplina.
A. Makine. – Bisogna lavorare e tornare a lavorare. E’ l’unica disciplina che abbia un senso.
M. L. Clément. – Pensa che tutti possano diventare scrittori? Glielo chiedo perché le scuole di scrittura creativa stanno nascendo come funghi.
A. Makine. – Impadronirsi dell’arte di scrivere non è, in sé, negativo. Perché no? Ma, di nuovo, dobbiamo definire cosa è uno scrittore. Potrebbe essere un uomo capace di rendere tangibili tutti i grandi interrogativi di cui ho parlato: l’amore, la morte, il piacere, la fugacità dell’essere, il Male, il Bene. Entriamo in un libro. Se ne riemergiamo con un senso leggero di soddisfazione oppure di disagio oppure se ciò che abbiamo letto ci lascia addosso un’emozione scialba e neutra, bè, era una lettura davvero necessaria? Ho già parlato dell’ ”utilità” di questo genere di libri. Sono stati scritti perché gli scrittori capiscano come non bisogna scrivere. La letteratura d’intrattenimento, del resto, sta perdendo tutto il proprio interesse, perché ci sono industrie del divertimento molto più efficaci, ed è il caso della televisione, del cinema, di Internet. Ci si può divertire in modo più vario. Ciò detto, stiamo vivendo, secondo me, un tempo benedetto per la poesia, la vera poesia e la vera letteratura, dal momento che tutto ciò era vi era, di adiacente, è stato annesso da queste nuove forme di divertimento. Dunque possiamo concentrarci sull’essenziale. L’essenziale è appunto questa soteriologia, che fa sì che ogni libro debba proporre una strada verso la salvezza.
M. L. Clément. – Ma non pensa che, alla fin fine, la letteratura da intrattenimento svolga una funzione per chi rifiuta il divertimento televisivo, il cinema o Internet?
A. Makine. – Sì, in quel caso è meglio leggere dei gialli, perché no. Ma, parlando in tutta franchezza, le devo dire che sono sempre più convinto di una cosa: se si possiede un solo grammo d’immaginazione, una sa sola pagina di una rivista permette di descrivere perfettamente un delitto. Ho appena letto, in treno, di un delitto che c’è stato in Germania. Una donna ha assoldato un attore perché fingesse di essere suo marito che, a quanto sembra, aveva trucidato. Basta una pagina. Il resto ce lo possiamo inventare, anche meglio dell’autore di quella pagina. Il problema dei gialli è che sono robaccia. Abusano della nostra pazienza, dal momento che ci vogliono almeno duecento pagine, perché una cosa si possa chiamare un libro. Mentre in una sola pagina di giornale abbiamo già capito tutto, dell’intrigo. Possiamo immaginare come la donna ha fatto sparire il marito in una colata di cemento, o l’ha gettato in un fiume e perché l’ha fatto. Altrimenti, per dirla in soldoni, è tutta fuffa che non trovo interessante. E poi, come dire?, le generazioni si susseguono e ogni generazione ha bisogno di un proprio romanzo sociale, di un romanzo psicologico, di tutti quei generi letterari che si ripetono attraverso i secoli. Perché ripetere?
M. L. Clément. – Sì, glielo chiedo, perché nella musica ci sono diversi stili: l’opera, la canzone, il jazz, e l’importante non è tanto lo stile, quanto il livello raggiunto da ogni stile e così pensavo che, anche per voi specialisti di letteratura, forse potesse esserci in letteratura la possibilità d’avere livelli diversi. Ci potrebbero essere ottimi thriller, cioè. Sono rari, lo ammetto, ma…
A. Makine. – Certo. Conan Doyle ha scritto cose molto belle. Chi potrebbe negarlo? Ma il nocciolo della letteratura è la scienza della salvezza. Insomma, che si sperimenti in questa direzione, e in molti modi. Perché no? Questo ci permetterebbe di imparare nuove cose. La vita è breve. Perché perdere tempo a leggere un giallo di trecento pagine? Quale è lo scopo di un giallo? Di prolungare l’attesa, no? La suspence. Fare un po’ paura, metterci dentro delle situazioni che si ribaltano, metterci dentro dei protagonisti ben caratterizzati, perché è un genere che semplifica i personaggi.
M. L. Clément. – Non trova che il cinema è troppo autoritario?
A. Makine. – Il cinema è totalitario perché ci impone tutto, anche il colore degli occhi dei personaggi. Ma sono convinto che i gialli di cui stiamo parlando non sono tanto meglio. Ora, se lei vuole prendere un criminale e farne un personaggio alla Dostoievski è tutta un’altra faccenda. Ma in quel caso tutta la materia propria di un romanzo giallo diventa sussidiaria rispetto a qualcosa di molto più importante. Come ha potuto, questa donna, ammazzare suo marito? Su Facebook ha un viso d’angelo, una graziosa tedeschina bionda, le si impartirebbe la comunione anche se prima non si è confessata. Ma un giornalista fa un’inchiesta e scopre che questo angioletto gestiva diversi centri dove si fanno massaggi, se non si vuole usare la parola bordello. Suo marito aveva avuto sentore del suo vero lavoro? A un certo punto il nostro giallo comincia a cambiare e si trasforma in un romanzo psicologico, sociologico, un romanzo che indaga su una situazione esistenziale. I romanzetti da stazione, i romanzi d’amore, come vengono chiamati, non sono altro che l’abbozzo di una vera creazione letteraria.
M. L. Clément. –Devono trasferirsi a un livello superiore?
A. Makine. – Secondo me, sì. Se proprio si vuole descrivere un delitto, tanto vale scrivere Delitto e castigo ! Perché imboccare un così bel sentiero per fermarsi solo dopo pochi passi?
M. L. Clément. – Un’altra domanda, forse abbastanza diretta. Pensa che l’ispirazione esista davvero?
A. Makine. – Ci sono stati di coscienza assolutamente magnifici, abbastanza rari, che sono come una condizione di ascolto. Mentre sta scrivendo, ecco che si ha l’impressione di vivere una profonda consonanza con la realtà –un sentimento oceanico, come direbbe Mauriac. Forse è questo, che definiamo ispirazione. Come se lei stesse inspirando l’universo nel senso concreto, fisiologico del termine, come se il suo cervello non fosse più nient’altro che una cassa di risonanza che consente di ascoltare la musica delle sfere. Sono istanti rari e preziosi, anche se non ci si può mettere lì ad aspettare che arrivino, altrimenti passeremmo tutto il tempo immersi in questa attesa profetica. Non è questo quel che conta. Ciò che conta è una fatica quotidiana che forse ci permette di raggiungere i medesimi risultati.
M. L. Clément. – Secondo lei, ci sono cose, in un romanzo, che possono mettere davvero a disagio i lettori? O, detto più precisamente, cosa la mette personalmente a disagio, in un romanzo?
A. Makine. – Di quale lettore stiamo parlando? Di quei lettori così anomali che sono gli scrittori?
M. L. Clément. – Parliamo di lei, per esempio.
A. Makine. – Mi mette a disagio la capacità umana di creare, di continuare a creare questo fiume ininterrotto di romanzi. Sì, questo mi lascia perplesso. Mi chiedo: ”A che scopo?” Perché vi vedo, in questo, una sorta di inanità totale, di totale futilità. Ci saranno sempre dei libri che salgono in vetta alle classifiche. Ci saranno sempre personaggi femminili che ameranno personaggi maschili che non le amano invece più, e poi che si separeranno e che poi moriranno… Questo vissuto che l’umanità ha sempre vissuto e che viene di continuo ripubblicato. Suicidi, partenze, separazioni, tutto questo teatrino, questa tragicommedia umana che l’uomo descrive con così tanto compiacimento. L’umanità è innamorata di se stessa. Balzac o Tolstoi hanno già descritto mille volte e in modo magistrale questo vissuto.
M. L. Clément. – E quindi quale è la sua speranza ?
A. Makine. – Che questo ambito letterario subisca una drastica riduzione. L’umanità è prigioniera dall’accelerazione dei tempi. Prima che apparisse la televisione, non c’erano altri mezzi in grado di rendere l’immediatezza del vissuto socio-psicologico. Gli scrittori si sentivano come obbligati a fotografare il quotidiano. Mentre oggi, con le nuove tecnologie, il mondo è descritto. Immaginiamo per esempio il contadino di un tempo che abitava all’estremo confine della Siberia, o all’estremo confine della Provence o in qualche angolo della profonda provincia francese. Non aveva la possibilità di vedere l’immagine del mondo. Oggi questa immagine del mondo è ovunque. E dunque perché scrivere di questo mondo? Un tempo, i romanzi erano dei messaggeri. Vi si trovava il rendiconto del vissuto collettivo. Ma, oggi, c’è ancora bisogno di questo? Ormai il nostro mondo è pieno di cose rimasticate in permanenza, di questo vissuto piccolo borghese e “people” come si dice oggi. Ogni telespettatore sa quale star si è fatta fare il botulino, si è fatta rifare le labbra perché siano più carnose o si è fatta rifare il seno. Viviamo nell’immediatezza della vita di tutto il mondo. Tutto il mondo, grazie a Internet, è connesso a tutto. Dunque, vede. Se ci mettessimo a calcolare chi si connette, chi fa delle ricerche, chi scrive, chi compone testi, scopriremmo che la cosa riguarda metà della popolazione, mentre l’altra metà è impegnata a leggere tutte quelle cose. Siamo tutti immersi in questa bolla comunicativa permanente che rende il romanzo d’intrattenimento perfettamente inutile. Che, tuttavia, occupa il novanta per cento del pubblicato.
M. L. Clément. – Non è necessario, insomma. Allora devo fare ricorso a una diversa metafora. Nella musica classica indiana si dice che le scuole musicali sono necessarie, anche se i talenti sono così mediocri da non permettere ai geni di nutrirsene e di fiorirvi.
A. Makine. – Lo si è detto spesso a proposito dei gialli e dei romanzi di genere. Se lei oggi entra in libreria, troverà cinque romanzi sulla vita che fanno i professori in Francia, una dozzina di romanzi centrati sull’attualità politica, sul mondo del lavoro, sulla vita delle minoranze ecc. Questo è sempre esistito ed esisterà sempre e dunque i miei discorsi si traducono in pii desideri. Ma resta il fatto che tutti questi problemi sono già stati affrontati dai giornali, dai reportage, in televisione. E allora tanto vale leggere l’inchiesta pubblicata da Florence Aubenas ( una giornalista francese rapita in Iraq nel 2005, che si è immersa per sei mesi nel mondo del precariato per raccontare una condizione ampiamente ignorata. NdT). Il suo libro è ben scritto, con un bel taglio giornalistico. Ma leggere il romanzo dello scrittore Rossi che ha inventato un mondo che conosce molto poco e che lui affabula completamente o la signora Bianchi che ha appena compiuto vent’anni, ma ci descrive la Seconda Guerra mondiale…
M. L. Clément. – Letteratura, insomma, non è descrivere dei fantasmi o per lo meno non è romanzare il mondo.
A. Makine. – In nome di cosa? Romanzare in nome di cosa!?
M. L. Clément. – Bè, apparentemente, se leggo Makine, leggo anche Makine che scrive di una guerra che non ha conosciuto.
A. Makine. – Indubbiamente.
M. L. Clément. – Dunque c’è un romanzare un’idea o una conoscenza…
A. Makine. – Ecco ! Qualcosa che poggia su una conoscenza, su una testimonianza.
M. L. Clément. – Sì, ma lei vuol dire, in questo modo, che ciò che è importante non è ciò che si dice, ma il modo in cui si scrive?
A. Makine. – Certo, e così torniamo al punto di partenza. Il punto è che migliaia di romanzi sono scritti molto male. E non è neppur giusto dire che sono scritti male: sono scritti in modo piatto. Una scrittura che non conduce da nessuna parte; che si limita a constatare un certo numero di verità, che poggia su una immaginazione abbastanza mediocre, su una realtà vista male, mal percepita, mal conosciuta… Una ragazza abita nel 16 arrondissement e conosce un ragazzo che abita nel 6 arrondissement. I due si amano, poi si drogano un po’, poi si lasciano e poi si ritrovano…A cosa serve? Che interesse ha? Sono cose che già vediamo coi nostri occhi. Ce lo possiamo inventare da soli. Sarebbe nient’altro che un supplemento di effetti sonori, in un mondo che già sta diventando sordo per il troppo rumore.
M. L. Clément. – Infatti speravo che lei mi spiegasse che interesse può avere tutto questo. Ma secondo lei non ha alcun interesse.
A. Makine. – Oggi no! Come le dicevo prima, nel XIX secolo questo aveva l’utilità di un’illustrazione, era una cosa istruttiva…Prenda Octave Mirabeau, per esempio. Chi lo conosce più? Ha scritto dei romanzi sociologici sulla vita della Chiesa. A quell’epoca era importante. Perché? Affrontava argomenti che non tutti potevano conoscere ma, soprattutto, vista la mancanza di comunicazione di quel periodo, lui era un messaggero. Erano libri che contribuivano a sviluppare la coscienza del pubblico rispetto a cose che altrimenti sarebbero sprofondate nel silenzio.
M. L. Clément. – Ma, oggigiorno, non è necessaria una differenza tra medium? Un conto è leggere tranquillamente e un altro venir sommersi dalla televisione, anche se l’argomento affrontato è lo stesso. Se lei per esempio non ha la televisione e non le piace Internet, le rimangono almeno i libri. Non c’è una certa utilità, in questo?
A. Makine. – Indubbiamente. In ogni libro, anche nel più mediocrissimo, si può trovare un intreccio carino, un modo di presentare il personaggio che è interessante ecc. Ma sono piccole gocce in un tale oceano di piattezza e di idiozia che ogni uomo più o meno dotato può inventarsele da solo. Non ha bisogno di passare attraverso un romanzo.
M. L. Clément. – D’accordo. Dunque non pensa che questi romanzi, di una tale nullità…
A. Makine. – Deboli! Sono deboli! Abbiamo pochissimo tempo. E se ne abbiamo da dedicare alla letteratura, dobbiamo leggere l’essenziale.
M. L. Clément. – Non pensa che certi romanzi siano troppo difficili per certe persone?
A. Makine. – Certo. E qui c’è un grande passo che gli scrittori devono compiere. Bisogna affrontare questi interrogativi, come la morte, l’amore, il Bene, il Male, al di là di ogni gergo filosofico. La letteratura è chiamata a essere sensuale, sensitiva, carnale, tangibile. Se non sa donare l’immagine immediata di tutti questi grandi temi, una presenza tangibile, la scrittura non vale niente…
M. L. Clément. – La letteratura, secondo lei, non deve descrivere necessariamente la realtà, dunque. Ma vi è pur sempre una parte romanzesca, una parte d’invenzione…
A. Makine. – Non bisogna neppure essere eccessivamente restrittivi. Ci sono ottimi romanzi che si basano su un fatto reale. E poi: il diktat della parola “realtà”. Non ho la pretesa di conoscere La Realtà. La letteratura è la ricerca del mondo reale, la cui visione iniziale deve venir superata nell’atto dello scrivere.
M. L. Clément. – Torniamo a una domanda più personale: scrivere per lei è un piacere o una sofferenza?
A. Makine. – Ambedue, di sicuro. Si prova sollievo, dopo aver terminato di scrivere un libro. Ci si dice: “Il mondo che ho creato esiste. Vive. Gli altri lo giudichino come vogliono, ma esiste.” E’ un mondo che possiede la realtà delle opere increate, esattamente come, fatte le debite proporzioni, ce l’ha una creazione divina.
M. L. Clément. – Conserva i suoi brogliacci? Una domanda troppo pragmatica, temo.
A. Makine. – No. Butto via tutto. C’è molta spocchia, nel volerli conservare in archivio. Come sa, c’è questa polemica a proposito dell’ Originale di Laura. Nabokov amava le mistificazioni. Ha recitato per un paio di volte la commedia dei manoscritti bruciati, che sua moglie salva dalle fiamme. Era un attore e conosceva bene gli ingranaggi della pubblicità libraria. L’unico problema è che si perde un sacco di tempo dietro a questi giochetti. Si dovrebbe consacrare tutto quel tempo alla letteratura. Se potessi dare un consiglio ai miei colleghi, direi che bisogna fare di tutto per evitare di costruire il proprio personaggio. Se viene creato a vostra insaputa, tanto meglio o tanto peggio. Ma mettersi lì a costruirlo, come ha fatto Nabokov con le sue farfalle…Sono cose troppo futili.
M. L. Clément. – Per tornare alla sua scrittura. Quando lei si rilegge, taglia molto?
A. Makine. – Mi rileggo diecimila volte. L’alba di ogni giorno inizia con una rilettura, con un ritorno più o meno profondo verso ciò che mi sta davanti.
M. L. Clément. – Pensa che conoscere la biografia d’uno scrittore sia utile per capire la sua opera?
A. Makine. (ride) – E’ obbligatorio ! Uno scrittore, del resto, comincia a esistere solo quando un professore universitario scrive una sua buona biografia. Fino a che questo non accade, non si è altro che una crisalide, un embrione. Dunque, quando un grande professore universitario ha scritto una bella biografia, e soprattutto quando i testi sono stati ben ben spiegati grazie ai pensieri dell’autore, ecco che, forse, lo scrittore comincia ad avere qualche possibilità di fare il suo ingresso nella posterità. Scherzo, naturalmente!
M. L. Clément. – Pensa che, se un professore universitario si mette a spiegare l’opera dello scrittore, comparandola con la sua biografia, possa scoprire cose che lo scrittore stesso ignorava?
A. Makine. – Certo. Anche se non dobbiamo mai dimenticare una cosa. Tutte quelle magistrali scoperte non rimpiazzeranno mai la profonda rivelazione del nostro essere che ogni lettore ha il diritto di aspettarsi, da un libro.
Intervista realizzata da Marie Lucie Clément per Le Nouvel Observateur. Traduzione a cura della scuola creativa Rablé
Andrei Makine è nato nel 1957 in Russia, ma vive da molti anni in Francia (dove ha vinto il Premi Goncourt e il Premio Medicis) e scrive in francese. Oltre ai due libri già menzionati, La donna che aspettava (Einaudi) e Il testamento Francese (Mondadori), in Italia sono uscite altre sue opere presso l’editore Passigli (segnaliamo tra queste Il delitto di Olga Arbélina e Confessione di un alfiere decaduto)
Ma che bella intervista! grazie per averla proposta.
RispondiEliminaUn caro saluto.
Iraida
Grazie cara Iraida . Son contento che ti sia piaciuta,
RispondiEliminaf.