30/07/14

L'incredibile proprietà dei "numeri amici". La matematica come archetipo.






C'è da perdere la testa intorno al mistero dei numeri . Uno dei più grandi enigmi dell'avventura umana, tuttora irrisolto, infatti è se i numeri siano stati inventati o siano stati scoperti.

E nel caso siano stati scoperti non si finisce mai di meravigliarsi di questa scoperta. 

Una vera stupefazione inducono anche nel principiante, le proprietà dei cosiddetti numeri amici.

Due numeri sono definiti amici dalla matematica, se ciascuno è uguale alla somma dei divisori dell'altro. 

Sembra difficile, ma tutti possono comprenderlo subito. 

Tutto nasce da un aneddoto, che non si sa se sia vero:  Qualcuno chiese un giorno a Pitagora se avesse un amico. Lui rispose "Ne ho due".   E nominò i numeri amici 284 e 220. 

Questi due numeri sono amici perché i numeri interi per cui 220 può essere diviso senza resto (1,2,4,5,10,11,20,22,44,55 e 110) danno la somma di 284; mentre i numeri interi per cui 284 può essere diviso senza resto (1,2,4,71 e 142) danno la somma di 220. 

I numeri amici possono essere solo un altro appassionante paragrafo della matematica, o avere qualche impiego utile. Per ora, nessuno lo sa. 

"Non è affatto un'impresa facile trovare tutte le coppie possibili di numeri amici, " scrisse Wolfgang Pauli, affascinato dall'enigma, negli anni '50.

Difatti solo poche centinaia di numeri amici furono note fino alla metà del Novecento. Con l'aiuto dei computer ad alta velocità siamo oggi arrivati alla decina di milioni di numeri amici conosciuti

La scoperta di questa coppia da parte di Pitagora è abbastanza stupefacente. Bisogna figurarsi una grande quantità di duro lavoro, culminato in un'ultima, geniale intuizione.

La coppia di numeri amici 284 e 220 è nota da molto tempo.

Nel Medioevo talismani con incisi quei numeri erano portati dagli innamorati a significare il reciproco attaccamento.

Nella Genesi, Giacobbe dà 220 capre a Esaù perché il numero, in quanto preso da una coppia di numeri amici, testimonia l'affetto di Giacobbe per Esaù.   

Cultori arabi della numerologia citano l'usanza di scrivere 220 sulla buccia di un frutto e 284 su quella di un altro, poi cibarsi di uno dei due e offrire l'altro all'amante: una sorta di afrodisiaco matematico. 

I numeri amici, in definitiva, con la loro perfezione simmetrica rappresentano un altro argomento a favore di chi ritiene che i numeri siano indubbiamente degli archetipi, qualcosa cioè che appartiene ad una realtà  simbolica profonda,  preesistente e prescindente dalla intelligenza individuale umana. 

29/07/14

Essere "equilibrati" non è tutto.



Foto di John Dominis per LIFE — Una acrobata salta la corda su Chicago, 1955 (John Dominis—Time & Life Pictures/Getty Images)



Tutti sono sempre e solo alla ricerca dell'equilibrio. L'equilibrio mondiale, l'equilibrio economico, l'equilibrio di coppia, dei matrimoni, l'equilibrio dei figli. 

Eppure, l'equilibrio di per sé non dice nulla. Molti equilibri sono fondati sulla più ripugnante sperequazione, sui compromessi, sull'ipocrisia, sul far finta di nulla, su due patologie che si compensano.. 

Non è l'equilibrio che andrebbe perseguito (che è un valore neutro), ma l'armonia. 

La Sonata n.3 bwv 1029 di Johann Sebastian Bach non è meravigliosa (solo) perché è equilibrata, ma perché è armonica. Una persona non è bella (solo) perché è equilibrata e tiene a bada come può i suoi conflitti interiori, ma se è armonica, se le parti di sé sono risolte, aperte e dialogano tra di loro.


Fabrizio Falconi

28/07/14

Doppio Sogno di Schnitzler ... e Kubrick.



Doppio Sogno nelle edizioni Adelphi


Merita sempre di riprendere in mano questo straordinario libro. 

Fatelo, questa estate. 

Sollecita le corde più profonde del nostro inconscio la storia immaginata (sognata?) dallo scrittore (e medico) viennese nel 1926 con il titolo di Traumnovelle: Fridolin e Albertine, "tranquilla" coppia borghese con figlia vivono una crisi coniugale.
Arthur Schnitzler

Lui trascorre una intera notte attraversando esperienze misteriose senza peraltro tradire materialmente la moglie): l'incontro con la figlia di un vecchio appena defunto, quello con una prostituta, la partecipazione ad una festa con molte donne nude e mascherate, la peregrinazione nel laboratorio di un costumista dove si aggirano strane figure.

Lei attraverso un complicato sogno, durante il quale prima tradisce il marito con un giovane danese conosciuto diversi anni prima, e poi assiste soddisfatta alla morte per crocefissione del marito. 

Verità, finzione, tradimento e realtà, inganni, comprensione come unica via - forse - per mettere un freno alle tenebre e ai fantasmi dell'inquietudine.

Il problema è che ciò che si comprende, passa per forza di cose dalla soggettività. E nessuno, a quanto pare può aiutarci.

Non è un caso che questa storia abbia ispirato a tal punto Stanley Kubrick da farne l'epitaffio simbolico della sua straordinaria carriera di film maker, con Eyes Wide Shut  (film imperfetto, esteticamente sublime, pieno di simboli oscuri), uscito nelle sale nel 1999 e che il grande regista non riuscì nemmeno a veder terminato)

Per quanto sia vasta l'oscurità, dobbiamo procurarci da soli la nostra luce, era il motto preferito di Kubrick. Un motto che anche Alfred Schnitzler avrebbe sottoscritto... a occhi (ben) chiusi.


Eyes wide shut

Fabrizio Falconi

27/07/14

La poesia della domenica - 'Pioggia' di Federico Garcia Lorca.




Pioggia


La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l'anima addormentata del paesaggio.

È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.

È l'aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell'anima tristezza di ciò che non sappiamo.

La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l'illusione inquieta di un domani impossibile
con l'inquietudine vicina del color della carne.

L'amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.

E son le gocce: occhi d'infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.

Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell'acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.

O pioggia silenziosa; senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!

O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.

Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.

La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all'orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.

O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da' all'anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell'anima addormentata del paesaggio!


26/07/14

Goebbels, Goering e .. Jung.


Il celebre aforisma: Quando sento qualcuno parlare di cultura, metto mano alla pistola (terribilmente attuale anche nel mondo analfabetizzato di oggi) è da sempre erroneamente attribuito (e anche oggi, nel mare magnum inconsapevole della rete) a Goebbels (il quale, però, come riferiscono le cronache storiche era fin troppo sofisticato per pensare e pronunciare una cosa simile). 

La frase, come si sa, fu invece pronunciata da Hermann Goering (un gerarca molto più rozzo e concreto del cerchio magico che contornò Adolf Hitler durante gli undici anni della sua dittatura), e originariamente recitava: Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver

Pare in effetti che Göring amasse ripetere questa frase, la quale tuttavia origina da una battuta di un dramma molto in voga in quegli anni e ispirato alla figura di Albert Leo Schlageter (una specie di "martire nazista"), nel cui testo un personaggio si rivolge all'omonimo protagonista esclamando Quando sento parlare di cultura [...] tolgo la sicura alla mia Browning! ( in lingua originale: Wenn ich Kultur Höre ... entsichere ich meinen Browning (Atto 1, scena 1).

Tornando a Goebbels, quella in testa è - a quanto mi risulta l'unica foto esistente che ritrae il Ministro della Propaganda nazista mentre sorride.

Fa parte di una celebre serie realizzata dal fotografo tedesco, naturalizzato americano (ebreo) Alfred Eisenstaedt e pubblicata da Life che ritrae Joseph Goebbels durante la sua partecipazione al Convegno della Società delle Nazioni a Ginevra nel settembre del 1933, e alla quale appartiene anche l'altra celebre foto recentemente colorizzata, nella quale Goebbels guarda minaccioso nell'obiettivo.  





Questa foto è giustamente famosa nel mondo e citata per la sua capacità di cogliere l'attimo dello scatto che rivela la ferocia del Ministro della Propaganda nascosta sotto l'apparenza delle buone maniere, allorquando Goebbels, poco prima dello scatto (o nel momento stesso) viene informato che colui che lo sta fotografando è un ebreo.   

E sempre a proposito di Goebbels, esiste un racconto (non confermato), proprio di questo periodo,  che viene riferito anche dallo studioso inglese Arthur I. Miller, nel suo libro L'equazione dell'Anima,  (Rizzoli, 2009), un saggio costruito intorno alle figure, alla corrispondenza e ai rapporti tra il fisico Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung.

Secondo questo racconto Joseph Goebbels, nel 1934, convocò  C.G.Jung (la vicenda non trovò mai una conferma ufficiale, ma fu riferita da uno scrittore amico di un paziente di lungo corso di Jung), a Berlino perché assistesse ad alcune cerimonie in cui erano presenti Hitler, il comandante dell'aviazione tedesca Hermann Goering e il capo delle temute SS Heinrich Himmler. Il compito affidato a Jung (all'epoca residente in Svizzera a Zurigo e già ritenuto un nume tutelare della psichiatria) era di stabilire se quegli uomini fossero pazzi e riferire le sue impressioni su quel manipolo di personaggi perché in tal caso "con una operazione segreta, sarebbero stati uccisi. e organizzato un colpo di Stato."  

Stando al racconto, Jung andò e ci mise molto poco per convincersi che in effetti erano tutti pazzi. Ma, temendo per la propria vita,  "si guardò bene dal riferirlo a Goebbels, perché non si fidava di lui e lo riteneva il più pazzo e il più pericoloso di tutti."

Chissà se l'episodio risponde al vero. In caso affermativo resterebbe la curiosità di sapere come si sarebbero svolti gli avvenimenti successivi nel caso di un responso esplicito di Jung.  Una delle tante sliding doors della storia, di cui non conosceremo mai gli  esiti alternativi. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

25/07/14

1979: Poeti a Sperlonga (Fabrizio Falconi)

La copertina di Poeti a Sperlonga

Nell'ormai lontanissimo 1979, era il Primo Festival Nazionale della Poesia Città di Sperlonga, nato per iniziativa di Enzo Giannelli.  
Come si legge nella prefazione di Marisa Conte fu una iniziativa quasi del tutto spontanea, com'era d'uso quegli anni, sulla scia di CastelPorziano, che si era svolto appena quattro mesi prima
Una rassegna  e non un premio. Una esibizione e non un confronto, un tentativo - oggi sembra perfino naive - di poesia lasciata libera dovunque essa penserà di nascere o andare; per le strade, sui palchi (come a Sperlonga), nelle case, nelle scuole (Marisa Conte): da questa esperienza nacque un libro-documento, ormai introvabile di cui pubblico la copertina in testa.
Per la cronaca, gli undici poeti che si esibirono in quei giorni - 29 e 30 dicembre 1979 nel palazzo del Comune dell'antica città, furono Leone D'Ambrosio, Enzo Giannelli, Luigi Gulino, Angelo Pizzuto, Marcella Salvemini,  Angelo Schiavo, Paolo Sorgi, Giovanni Trani, Aldo Zanecchia, Marisa Conte e Fabrizio Falconi, all'epoca appena ventenne, il cui ritratto è qui sotto, tra le pieghe di quel polveroso libro-documento.



Fabrizio Falconi con Enzo Giannelli, Sperlonga, 1979


24/07/14

La Torre delle Milizie - Il "punto di vista" più alto e originale di Roma.



Santa Caterina a Magnanapoli vista dalla Torre delle Milizie



La Torre delle Milizie, la più alta di Roma.
(foto di Fabrizio Falconi)

Anche Roma ha la sua Torre pendente, un possente edificio medievale, alto ben 51 metri che domina l’intera città, elevandosi alla fine della Via IV Novembre tra i Mercati di Traiano e il Quirinale. 

E’ la Torre delle Milizie che popolarmente è stata chiamata anche Torre di Nerone o Torre Pendente, a causa della sua inclinazione che si può apprezzare dalla sua vicinanza alla Chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli. 

L’appellativo Torre di Nerone invece, derivò da una falsa leggenda, essa sarebbe esistita già ai tempi dell’Imperatore e anzi, proprio dalla sommità di questa torre, egli avrebbe ammirato il panorama della città in fiamme, mentre, come tramanda la tradizione, suonava la sua cetra. In realtà invece la torre, pur essendo la più antica tra quelle di Roma, risale all’epoca di Papa Gregorio IX (1227-1241d.C.) e fu costruita su commissione della potente famiglia Conti dall’architetto Marchionne Aretino, per essere poi donata a Papa Caetani, Bonifacio VIII che la trasformò in residenza e fortificazione personale, per lui e per la sua famiglia per difendersi dagli acerrimi nemici, i Colonna. 

La torre originariamente era formata da tre piani rivestiti di laterizio, su una base quadrangolare di tufo già esistente e facente parte delle Mura Serviane: oggi ne restano soltanto due, perché il terzo, il più alto, fu abbattuto perché pericolante, quando l’edificio, passato alla famiglia dei Caetani, fu gravemente danneggiato dal terremoto che sconvolse Roma nella notte tra il 9 e il 10 settembre del 1348. 

 
Villa Aldobrandini vista dalla Torre delle Milizie

Alla torre, anche per via della sua mole imperiosa, del suo aspetto severo, sono state attribuite nel corso dei secoli molte leggende, una delle quali secondo cui essa era una sorta di periscopio, di occhio sulla città, di una ampia magica reggia, sotterranea, fatta costruire da Augusto per sorvegliare la sua città. 

La leggenda dice anche che l’imperatore, un giorno salirà sulla torre, resuscitando dai morti, e quel giorno indicherà il momento nel quale Roma tornerà ad splendere come faro di luce nel mondo. Quel che invece è certo, è che dal Cinquecento la Torre, dopo essere stata di proprietà dei Conti e del Cardinale Napoleone Orsini, entrò in possesso delle suore domenicane di Santa Maria a Magnanapoli, che vi rimasero per alcuni secoli, e le cronache del Settecento e dell’Ottocento raccontano delle monache che venivano avvistate ad una delle sei finestre della Torre, o sulla terrazza, uniche privilegiate a godere l’impareggiabile panorama sulla città.  

La scala medievale in legno di ciliegio che sale fino alla sommità (51 metri) della Torre delle Milizie.


Soltanto agli inizi del Novecento l’edificio fu dichiarato monumento nazionale, dopo che – a causa degli scavi nei cantieri per la costruzione della Via Nazionale – la Torre aveva aumentato la sua inclinazione, che rese necessario un massiccio restauro operato da Antonio Munoz nel 1914. 

Il Foro di Traiano visto dalla Torre delle Milizie

Dal 1927 la Torre fa parte dei Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali. La stabilità dell’edificio è messa parzialmente a rischio dall’intenso traffico della sottostante Via IV Novembre e per questo motivo la Torre continua ad essere oggetto di restauri e manutenzione, oltre che di monitoraggio.



La Torre delle Milizie imponente sul Foro di Traiano

23/07/14

I bambini di Silicon Valley (The Children of Silicon Valley) : un illuminante post di Robert P. Harrison sul mondo digitale.




Pubblico questo articolo scritto da Robert Pogue Harrison per il blog di The New York Review of Books.  E' un piccolo saggio pieno di spunti e riflessioni illuminanti sul nuovo mondo di Silicon Valley: Google, i social network, il sistema digitale che sembra aver inghiottito le nostre vite.  

The Children of Silicon Valley

Robert Pogue Harrison


In the new HBO comedy Silicon Valley, almost every new start-up representative at a high-tech conference ends his presentation with the programmatic words, “and this will make the world a better place.” When Steve Jobs sought to persuade John Sculley, the chief executive of Pepsi, to join Apple in 1983, he succeeded with an irresistible pitch: “Do you want to spend the rest of your life selling sugared water, or do you want a chance to change the world?” The day I sat down to write this article, a full-page ad for Blackberry in The New York Times featured a smiling Arianna Huffington with an oversize caption in quotes: “Don’t just take your place at the top of the world. Change the world.” A day earlier, I heard Bill Gates urge the Stanford graduating class to “change the world” through optimism and empathy. The mantra is so hackneyed by now that it’s hard to believe it still gets chanted regularly.
Our silicon age, which sees no glory in maintenance, but only in transformation and disruption, makes it extremely difficult for us to imagine how, in past eras, those who would change the world were viewed with suspicion and dread. If you loved the world; if you considered it your mortal home; if you were aware of how much effort and foresight it had cost your forebears to secure its foundations, build its institutions, and shape its culture; if you saw the world as the place of your secular afterlife, then you had good reasons to impute sinister tendencies to those who would tamper with its configuration or render it alien to you. Referring to all that happened during the “dark times” of the first half of the twentieth century, “with its political catastrophes, its moral disasters, and its astonishing development of the arts and sciences,” Hannah Arendt summarized the human cost of endless disruption:
The world becomes inhuman, inhospitable to human needs—which are the needs of mortals—when it is violently wrenched into a movement in which there is no longer any sort of permanence.
The twenty-first century has only aggravated the political, moral, social, and environmental concussions of the twentieth. There would be reason to applaud the would-be world-changers and start-up companies of Silicon Valley if they made it their business to resist or reverse this process of planetary upheaval, the way environmentalists seek to do with the wounds we have afflicted on nature. Sadly they have no such militancy in their souls, nor much thoughtfulness. With a few exceptions, our new tech armies rarely take the time to think through what they are doing. Or if they do, they tend to think in ways that only add to the turmoil and agitation.
Silicon Valley, and everything it stands for metonymically in our culture, has indeed affected billions of people around the planet. The innovations have come fast and furious, turning the past four decades into a series of “before and after” divides: before and after personal computers, before and after Google, before and after Facebook, iPhones, Twitter, and so forth. In the silicon age, “changing the world” means at bottom finding new and more ingenious ways to turn my computer or smart phone into my primary—and eventually my only—access to “reality.”
In truth Silicon Valley does not change the world as much as it changes my way of being in it, or better, of not being in it. It changes the way I think, the way I emote, and the way I interact with others. It corrodes the worldly core of my humanity, leaving me increasingly worldless. (I do not consider the Internet’s Borg collective, with its endless drone of voices, a world, any more than I consider social media a human society; those who do not see the difference have already been assimilated.) Thoreau wrote: “Be it life or death, we crave only reality.” If only that were unconditionally true. Alas, Silicon Valley has enriched its coffers thanks largely to a contrary craving in us—the craving to trade in reality for the miniature screen of the cell phone.
In “Change the World,” a splendid New Yorker article published in 2013, George Packer mentions an employee at a high-tech firm who refused to take time away from work to hear what President Obama, who was visiting the campus, had to say. “I’m making more of a difference than anybody in government could possibly make,” the employee reportedly told a colleague. There are not many places in the world—maybe only one—where an employee can expect an absurd utterance like that to be taken seriously, and where children, metaphorically speaking, believe that adults need their guidance and tutelage. Speaking of the pastoral campuses of companies like Google and Facebook, Packer writes:
A polychrome Google bike can be picked up anywhere on campus, and left anywhere, so that another employee can use it. Electric cars, kept at a charging station, allow employees to run errands.… At Facebook, employees can eat sushi or burritos, lift weights, get a haircut, have their clothes dry-cleaned, and see a dentist, all without leaving work. Apple, meanwhile, plans to spend nearly five billion dollars to build a giant, impenetrable ringed headquarters in the middle of a park that is technically part of Cupertino. These inward-looking places keep tech workers from having even accidental contact with the surrounding community.
These heterotopias, with their teenage dress codes, situate themselves neither inside nor outside the public sphere. The companies that create such “frictionless” environments for their employees expect them to have an unlimited devotion to their jobs. Almost everyone who works for one of these companies in fact overworks in optimal working conditions, at the expense of their private, social, and public lives. Villiers de L’Isle-Adam’s famous remark—“As for living, our servants will do that for us”—would make an appropriate motto for many of them.
The high-tech campus is the setting of Dave Eggers’s The Circle, which aspires to be the great dystopian novel of Silicon Valley and its dream of total connectivity. Reading this book makes one wonder whether Silicon Valley could ever inspire a good novel. It can inspire good comedy, as in Mike Judge’s HBO series Silicon Valley, whose caricatures are highly effective. People who work in Silicon Valley tend to love this show precisely because its over-the-top portrayals of the most infantile and socially dysfunctional aspects of the tech start-up culture are eerily on the mark. Silicon Valley captures a truth that masquerades as farce, yet farce and truth in this case are almost indistinguishable.
Eggers’s transpicuous allegories in The Circle have no such cutting edge. As one perceptive employee at Google remarked to me, it is hard to tell whether the novel wants to parody Silicon Valley or the clichés of its critics. Eggers is otherwise an excellent writer, which makes one wonder why this particular novel is so flat. From a literary point of view it seems colonized by the totalitarianism of transparency that its fictional high-tech company, with its presumptions of a higher moral mission, seeks to impose on its workers, and on the world at large, which of course it wants to change. Eggers’s story suffers from a similar syndrome as its protagonist, Mae Holland, a young college graduate who lands a desirable job at The Circle. She believes that her life is full of excitement, yet in truth the more engrossed she is in her work the more vapid she gets. When Mae’s childhood friend Mercer chides her at a family gathering for not being able to tear herself away from her cell phone, he infuriates her by pointing out something she refuses to believe: “Mae, do you realize how incredibly boring you’ve become?”
It’s not Mae’s fault. Becoming a boring human being is the fate of most people who keep the tech economy’s lights burning deep into the night. These industries may be among the most vibrant and dynamic in the world, yet those inside the hive are among the most tedious people in the room, endlessly plugging into their prosthetic devices. The bad news is that their employers excel at finding ways to make those devices, in their continuously updating versions, universally available.
You shall know them by their fruits, Jesus says in Matthew 7:16. From the point of view of the world we share in common, the fruits in question are altogether tasteless. I have seen young teenagers who just yesterday were ebullient, verbal, interactive, and full of personality turn into aphasic zombies within three months of getting a smart phone or an iPad. The new wine is dying on the vine, and Dionysos, the telluric god of ecstasy, is nowhere in sight. It is unlikely that the next big digital innovation will lure him back.

21/07/14

Nabokov, lo scrittore della felicità: arriva l'e-book di Lila Azam Zanganeh.


Lila Azam Zanganeh


Vladimir Nabokov scrittore della felicita' per eccellenza e della luce. L'autore di 'Lolita' era prima di tutto questo per la scrittrice di origini iraniane LilaAzam Zanganeh che lo racconta, con un originale intreccio tra romanzo e saggio, in 'Un incantevole sogno di felicita'. Nabokov, le farfalle e la gioia di vivere' (euro 6,99). 

Il libro esce in Italia in ebook ed inaugura la collana 'Mosaico' della casaeditrice digitale indipendente emuse con illustrazioni di Thenjiwe Niki Nkosi, nella traduzione di Stefania Riga, dopo la pubblicazione nel 2011 in versione cartacea per L'Ancora delMediterraneo. 

"Volevo far riscoprire Nabokov, la sua propensione alla felicita' e alla bellezza, il suo essere scrittore della consapevolezza e volevo avvicinare il maggior numero di persone possibili alla sua idea di letteratura e far capire che non e', come si crede, un autore difficile" dice all'ANSA Lila Azam Zanganeh, 37 anni, che e' nata a Parigi da genitori iraniani, ha fatto un master su Nabokov, insegnato ad Harvard, vive a New York e sta scrivendo, con Jesse Lichtenstein, una sceneggiatura su Nabokov per un film che sara' prodotto da Didier Jacob. 

 Il libro e' un viaggio in 15 tappe nell'immaginario nabokoviano, con molte citazioni dalle opere dello scrittore russo e con molti spunti immaginari, tra cui un'intervista inventata, impossibile al punto da sembrare vera, in cui si mostra un Nabokov lontano dallo stereotipo che lo associa al malessere morale e sessuale. 

Per 'Un incantevole sogno di felicita" ha avuto, caso raro e difficilissimo, anche l'approvazione di Dmitri Nabokov, il figlio dello scrittore e dell'adorata moglie Vera Slonim, morta nel 2012 e spauracchio di tanti nabokoviani. 

"All'inizio avevo paura di Dmitri, grande traduttore in inglese delle opere del padre, un uomo molto attento ai dettagli, un pO' misogino, ma alla fine l'incontro con lui, nel 2003, mi ha dato coraggio. Gli ho letto tutto il libro a voce alta, poteva distruggermi e alla fine mi ha dato i diritti delle opere e soprattutto mi ha detto che avevo trovato la voce di suo padre. Siamo diventati amici e sono rimasta vicino a lui fino alla fine" dice Lila che e' stata scelta anche per fare parte della Fondazione Nabokov per coltivare la memoria dello scrittore scrittore. 

"Nabokov - spiega Lila - diceva che ci sono diversi tipi di scrittori, il peggiore e' il maestro e il migliore e' l'incantatore, quello che trasforma il nostro sguardo. L'arte non ci insegna niente, ma attraverso la letteratura guardiamo meglio il mondo. La bellezza e' importante ed e' il sentiero verso il mondo dell'immaginazione che per Nabokov e' la realta' al suo livello piu' alto. Con questo sguardo entriamo nella luce" sottolinea Lila a cui non interessa l'autofiction che ora va tanto di moda, ma proprio questo rapporto con l'immaginazione. 

"Tutti i grandi romanzi sono dei racconti di fata". E cosi' in Lolita e nel libro preferito da Lila, 'Ada o ardore', la gioia deriva da un'esperienza estrema, dal desiderio spinto alla follia.

Il libro digitale - che in Italia ha ancora un mercato limitato - per la scrittrice e' "la forma perfetta per 'Un incantevole sogno di felicita". 

Fin dall'inizio lo avevo immaginato in ebook. Il libro e' nato visuale, ci sono tante immagini, disegni, anche un photoshop in cui io appaio di spalle come intervistatrice dello scrittore.

E' anche un oggetto ludico nel rispetto della verita' di Nabokov" sottolinea Lila che scrive in inglese, parla tantissime lingue e benissimo l'italiano che la mamma poetessa le ha fatto amare da bambina. 

"L'Italia per me e' la seconda patria. Da bambina l'ho girata tutta e rappresenta per me un universo favoloso. I piu' cari amici che ho a New York sono italiani". E ora Lila sta scrivendo un romanzo sull'amore che "e' una riscrittura, molto fantastica, dell'Orlando furioso' dell'Ariosto. 

20/07/14

Dico bugie ma non sono un bugiardo: la morale che cambia con la latitudine.





I comportamenti fanno l'uomo ?

Una volta, se ne era convinti. Una morale molto rigida, costituzionalmente basata sui principia affermava che un uomo che dice bugie è un bugiardo, un uomo che ruba è un ladro, un uomo che uccide è un assassino, un uomo che insulta un altro uomo perché ha la pelle di un colore diverso è un razzista

Da qualche parte del mondo è ancora così.

I popoli anglo-sassoni, i popoli del nord europa (quel che ne rimane, vista la globalizzazione rampante) hanno fondato antropologicamente i loro costrutti morali su secoli di protestantesimo:  una persona che dice bugie in privato  - e che è dimostrato che le dica -  è un bugiardo.  E' altamente probabile dunque che sia un bugiardo anche nella vita pubblica, e il legittimo sospetto vale già a screditarlo. 

Per questo l'apparentemente anacronistico rito del giuramento sulla Bibbia dei presidenti americani ha avuto, per Clinton e altri un effetto così radicale, e così incomprensibile per noi latini.

I latini, infatti, sulla base di stratificazioni antropologiche basate su secoli di cattolicesimo, hanno sempre creduto e professato un doppio binario della moralità:  vizi privati e pubbliche virtù. 

Posso anche dire bugie in privato, posso commettere atti immorali in privato, ma pubblicamente essere irreprensibile. Chi potrà giudicarmi ?  E se anche verrò giudicato, ci sarà un ministro di Dio capace di assolvermi (è un dovere della religione che professa). 

Questo vulnus mentale è talmente radicato in Italia che ormai coinvolge ogni sfera del vivere comune.  Da Guicciardini e Machiavelli, di strada ne è stata fatta tanta.

Con sincera stupefazione, oggi, personaggi pubblici (non necessariamente politici, di qualunque professione o attività), si schermiscono quando qualcuno pretende di giudicarli in base ai comportamenti che hanno esibito.  
Chi può giudicare ?
Il giudizio non è stato definitivamente sospeso ?  Non viviamo  in un mondo finalmente libero dai giudizi ? Non fu quel Tale a dire "chi è senza peccato scagli la prima pietra?"

Fabrizio Falconi



18/07/14

In un nanosecondo il mistero dell'Universo (e della poesia).


                                        

La poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell'Universo, scriveva Borges.
Oggi potremmo riaffermare il principio, visto che la scienza è arrivata a dirci molto – quasi tutto – sulla nascita dell’Universo. Naturalmente parliamo del ‘dopo’, cioè di quel che accadde da una infinitesimale frazione di secondo dopo il collasso che generò tutto.
Sul prima nulla sappiamo, e ci sono solo supposizioni.
Ma andiamo con ordine.
La teoria oggi più accreditata dai cosmologi sulla nascita dell’Universo è la cosiddetta Teoria dell'inflazione,  un sistema che fa vacillare la mente umana e che può essere così semplificata: 
Un protone – porzione di un atomo – è così piccolo che, immaginando il puntino di inchiostro della lettera i, quel puntino ne conterrebbe – di protoni - 500.000.000.000, ossia un numero superiore a quello dei secondi contenuti in mezzo milione di anni.
Ora per capire cosa avvenne al momento della creazione dell’universo bisogna ulteriormente ridurre questo protone fino a un miliardesimo delle sue normali dimensioni e costringerlo in uno spazio così piccolo da far sembrare incredibilmente enormi le precedenti dimensioni.
Poi, in questo minuscolo spazio, proviamo ad ammassare trenta grammi appena di materia. Bene, il nostro universo è pronto ad espandersi.
Da questo incredibilmente minuscolo di polvere – in base alla teoria inflazionistica – si passò in uno spazio di tempo durato un milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo (!!) da un oggetto che stava tutto in una mano,a qualcosa che era almeno 10.000.000.000.000.000.000.000.000 di volte più grande.
L’intera creazione dell’universo non ha richiesto – secondo questa teoria, oggi quasi unanimemente riconosciuta – più di tre minuti del nostro tempo (!).
In tre minuti infatti è stato prodotto il 98 per cento di tutta la materia esistente o che mai esisterà. 
In molto, ma molto meno di un secondo, una porzione infinitesimale di un granello di polvere si trasformò in un infinito universo, con galassie, costellazioni, buchi neri, miliardi di miliardi di miliardi di corpi celesti.
Ma – ammesso che l’uomo capisca, come sta facendo –  come si sviluppò l’universo, resta il mistero di cosa c'era prima e intorno a quel minuscolo granello di polvere, prima della sua inflazione, o esplosione.
A riguardo ci sono diverse teorie – nessuna ovviamente dimostrabile:
1. La prima ipotesi è che la cosiddetta ‘singolarità’ che diede origine al nostro universo, fosse il residuo di un universo precedentemente collassato e che quindi il nostro sia parte di un eterno ciclo di espansioni e collassi.
2. La seconda ipotesi è che il nostro sia solo una parte di molti universi molto più grandi – alcuni esistenti in altre dimensioni – e che i Big Bang avvengano di continuo in tutto lo spazio.
3. La terza ipotesi è che il Big Bang rappresenti una forma di transizione attraverso la quale l’universo è passato da una forma a noi incomprensibile a un’altra che riusciamo quasi a capire.
Andrei Linde, uno dei più famosi cosmologi moderni, della Stanford University, commentò, non senza evidente ragione nel 2001 al New York Times che queste domande si spingono molto vicino alla religione.
Fabrizio Falconi.

16/07/14

Una poesia per il Medio Oriente - 'Il peso della terra".




Il peso della terra 


Ho messo terra
Sotto i piedi di mio figlio,
la terra di Mazar e di Yonah,
la terra del sale e del tamarindo,
l’ho fatto crescere come una spina
nel deserto, l’ho reso forte
e combattente,
gli ho chiesto di non dimenticare,
l’ho fatto vero e battagliero,
triste come un uomo,
e preciso come il destino.

Ho messo terra
Sotto i piedi di mio figlio,
la terra di Isak e di Jacob,
la terra del dattero e del vento,
l’ho innalzato al senso del suo vanto,
un libro gli ho consegnato
e il metallo più resistente mai forgiato,
gli ho chiesto di non nascondersi più,
così è diventato: impavido
e minaccioso come un lupo,
ognuno lo teme adesso, ed è un uomo.

Abbiamo messo terra sopra
i nostri figli.
La terra del mare e del deserto,
Dormono adesso un sonno senza pace,
fanno la fila come la fanno
i morti,
piangono come quando erano bimbi
e nessuno li consola,
sotto la terra
del dattero e del tamarindo,
tutti li cercano,
e nessuno li trova.


Fabrizio Falconi, ©  tratto da Il respiro di oggi. 

Non si "deve" vedere tutto ! Curare ciò che entra dagli occhi.





La sottile dittatura globale sotto la quale viviamo ormai da qualche tempo ha imposto un nuovo paradigma. In effetti si vive ormai nella società della visione. 

Dove tutto non solo è consentito, e cioè visibile (e visibile per tutti e a tutti), ma tutto è anche raccomandabile o doveroso

Chi non vede o non vuole vedere è quantomeno fuori dal gioco e nel grande gioco della dittatura della visione è naturalmente un disfattista

La visione viene sollecitata, blandita, invitata, raccomandata, perseguita, propagata in ogni modo, grazie al Vaso di Pandora della tecnologia: su un campo di calcio una volta c'era una telecamera, oggi ce ne sono trentasette; in un solo scorrimento di una home di facebook, puoi gustarti cento video, cento immagini, dalle più orripilanti alle più suadenti; con i nuovi google glass puoi anche avere la tua visione soggettiva o la visione di un altro in un infinito gioco di aspetti narcisistici. 

E chi non vuole, chi si sottrae ? 

E' un inadeguato o un pauroso o un antico

La vecchia Cura Ludovico che Burgess e Kubrick avevano immaginato agli albori dei '70, costringevano il povero Alex (Malcolm Mc Dowell) a cibarsi di immagini di orrore e sesso, senza poter chiudere mai gli occhi.  I ferri lo costringevano a vedere.  Il veleno che gli iniettavano nel sangue serviva per associare a quelle immagini sensazioni di vomito e repulsione. 

La Cura Ludovico, però, falliva.   Alex, uscito pecorella dal trattamento, nelle ultime immagini del film è già pronto a tornare Lupo. 

Anche oggi siamo un po' tutti come Alex. Costretti a vedere tutto. Forse nella convinzione che vedere tutto ci renderà tutti più agnelli, più mansueti, meno bisognosi. 

Ma è difficile che andrà così. 

Gli occhi sono specchio dell'anima, recita un vecchio aforisma. Ma il senso dell'affermazione è bilaterale: non significa soltanto che ciò che è nell'anima passa, si vede attraverso gli occhi, ma anche il contrario e cioè che quello che entra dagli occhi va - passa, si vede - direttamente nell'anima. 

Per questo gli occhi hanno palpebre.  E' stato deciso così.  Vedere non è un dovere.  Vedere è e resta una libera scelta dell'essere, sempre. 
Chiudere gli occhi non vuol dire non vedere.  Chi chiude gli occhi, anzi, spesso ha gli occhi più spalancati degli altri che credono di vedere.

Eyes wide shut, diceva ancora Kubrick, nel suo testamento finale. 

15/07/14

La "donna scaltra" e l'origine della leggenda della Bocca della Verità.


Santa Maria in Cosmedin

La Bocca della Verità e la mirabile leggenda della scaltra donna.

Fa certamente impressione vedere in qualsiasi stagione, con qualsiasi tipo di condizione meteorologica,  l’incredibile fila di turisti che ogni giorno si dispongono in ordinata fila fuori dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in quello che una volta si chiamava Foro Boario, sin dalle prime luci del mattino, per sottoporsi al rito della Bocca della Verità,  l’antica usanza di fotografarsi mentre si infila la mano nella bocca del grande medaglione di marmo pavonazzetto che da tempo immemore si trova in questo luogo.  E certamente stride il contrasto tra l’entusiasmo esagerato per ammirare quella che è in fondo solo un’antica pietra e l’indifferenza di queste schiere di turisti (che compiuto il rito, se ne vanno via frettolosi) per la chiesa che la ospita, un vero gioiello dell’architettura medievale italiana. 

Ma tant’è: la fama della Bocca della Verità è aumentata con il tempo, sempre di più, in particolare dopo che anche Hollywood ha pensato bene di celebrarne il mito in quel famoso film che William Wyler diresse nel 1953, Vacanze Romane, nella scena con Gregory Peck e Audrey Hepburn entrata nella storia del cinema.
Il bello è però che a cospetto di tanta fama, il mistero intorno alla celebre pietra, non è ancora dissolto. Creduto per molto tempo di epoca etrusca, il grande tondo (5,80 metri di circonferenza per 1,75 metri di diametro) raffigurante la testa di fauno è stato invece, secondo nuovi studi, ritenuto più recente, sicuramente originale, ma di epoca romana imperiale e riconosciuto come uno dei tombini o chiusini di cloaca che adornavano la città di Roma nel suo massimo splendore, a complemento di una rete idraulica e fognaria unica al mondo.


Le fattezze del fauno erano sicuramente ispirate dunque ad una divinità fluviale, forse allo stesso Portuno, dio dei porti e del fiume, al quale peraltro i romani avevano edificato un grande tempio proprio lì nel Foro Boario, a pochi metri di distanza dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin.
Non si sa come e quando prese piede la leggenda di attribuire alla pietra un potere di stabilire la verità. Quel che è certo è che l’oggetto viene già ricordato nei Mirabilia Urbis Romae la guida per i pellegrini che visitavano Roma nell’anno Mille.  Fu in epoca medievale che la leggenda cominciò a svilupparsi, con la proprietà riconosciuta a questa pietra di scoprire – richiudendo le sue fauci intorno alla mano della colpevole – quando una donna avessi fatto fallo a suo marito.

A questo proposito cominciarono a circolare numerosi aneddoti riguardanti la pietra, che si diffusero – attraverso i pellegrini una volta che tornavano nei loro paesi – in tutta Europa.  Il più arguto dei quali arrivava a spiegare anche il motivo per cui, da un certo punto in poi, la Bocca della Verità avesse deciso di smettere il suo lavoro, di segnalare cioè le infedeltà che gli veniva chiesto di esaminare.  


Secondo questo racconto popolare, che fiorì a Roma probabilmente nel Settecento, la giovane moglie di un patrizio romano era stata sorpresa dai vicini di casa a ricevere assidue visite da un amante mentre il marito, molto indaffarato per ambasciate fuori città, si assentava.  Senza lasciarsi commuovere dalle lacrime, il marito tradito decise di richiedere la prova della Bocca della Verità in pubblico.

E nell’ora convenuta, una gran folla si radunò davanti alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin (anticamente la pietra non si trovava nell’atrio come ora, ma appoggiata sulla parete esterna dell’edificio).  Accadde però che prima della prova, un giovane si fece largo tra la folla e tra lo sconcerto generale si avvicinò alla donna ritenuta colpevole e cominciò a stringerla e a baciarla sulla bocca davanti a tutti.  Immediatamente lo sconsiderato fu portato via a forza di braccia dalla folla.

Tornata la calma, la supposta adultera si avvicinò fieramente alla pietra e infilando la sua mano nel grande foro della bocca pronunciò questa frase: “Giuro che nessun uomo mi ha mai abbracciato e baciato, all’infuori di mio marito e di quel giovane demente!”  

La mano rimase intatta, la bocca non si chiuse, il marito perdonò e la folla esplose nel giubilo.

Ma.. la donna era – come è fin troppo facile arguire – molto scaltra e aveva semplicemente trovato, insieme al suo amante, un espediente infallibile per trarre in inganno tutti, compresa la stessa Bocca.  La quale, dice la leggenda, offesa da tanto ardire, e consapevole di essere stata raggirata, decise da quel momento di non esercitare più il suo ruolo e di non chiudere mai più .. la bocca. 

14/07/14

Morta Nadine Gordimer: L'ultima intervista.





LA VOCE di Nadine Gordimer arriva distinta da Johannesburg, all'altro capo dell'Africa. Come sempre, è lei stessa a rispondere al telefono. Questa volta, però, è più flebile. A differenza dalle precedenti, faccio un po' fatica a capirla. "Non so quanto a lungo riuscirò a parlare", dice la grande scrittrice sudafricana, da poco novantenne. "Non mi sento moltobene".

Se vuole posso chiamare in un altro momento.
"Ma no, una volta vale l'altra".

Sono contento di sentirla per l'uscita italiana dei suoi Racconti di una vita, una raccolta di storie scritte tra il 1952 e il 2007, tradotte da Grazia Gatti e pubblicate come sempre da Feltrinelli. L'ultima volta che l'avevo intervistata, due anni fa, lo scrittore americano Philip Roth aveva appena annunciato la sua decisione di non scrivere più fiction. Così le avevo chiesto se lei avesse intenzioni analoghe...
"Ma io non sono Philip Roth!".

Lo so, lo vedo bene. A novant'anni sta dunque lavorando a un nuovo romanzo?
"Non so, non credo... Forse un paio di racconti. Non ho più l'energia, scrivere mi fa star male e sono troppo critica, troppo esigente verso il mio lavoro, non credo che accetterei qualcosa che non mi soddisfa".

Perché dice che scrivere la fa star male? Le causa troppa fatica?
"Ma no, ho male nel mio corpo. Sono ammalata".

Mi scusi, non avevo capito.
"Ho un cancro al pancreas".

Mi dispiace, non sapevo...
"... E mi procura molto dolore. Non si dispiaccia, quando ho scritto il mio ultimo romanzo non lo avevo, non era ancora incominciato, e quello che ho scritto non ha nulla a che vedere con la malattia. La mia energia era immutata, e anche la mia attività intellettuale. Guardavo alla vita come ho sempre fatto".

Mi dica lei se vuole andare avanti...
"Parliamo piuttosto dell'Italia e della mia fortuna di avere nel vostro Paese un editore e dei traduttori così meravigliosi. I miei libri sono tradotti in più di quaranta lingue, 42 o 43 direi, e la prima è stata l'italiano, grazie a Giangiacomo Feltrinelli. Da allora il mio rapporto con l'Italia è sempre stato molto forte, a cominciare dalla famiglia Feltrinelli: Giangiacomo, e naturalmente Inge, che è diventata una mia grande amica. Abbiamo passato bei momenti insieme, è venuta anche a trovarmi qui e poi ci siamo incontrate in Francia... E Carlo, che conosco da quando era un bambino piccolo. Gli sono molto affezionata. E poi, come sa, ho mia figlia Oriane che vive in Piemonte e insegna a Torino. L'Italia è il mio Paese preferito".

Quando è venuta l'ultima volta?
"Un paio di anni fa. Adesso non posso più affrontare viaggi lunghi. Ma ho visto il mondo, e le persone. E si può viaggiare anche leggendo, sia nello spazio che nel tempo. È questa la meraviglia della lettura: consente un'esperienza del mondo e di molte, molte vite. Ci informa: i romanzi e la poesia ci fanno conoscere lo spirito umano".

La meraviglia di cui parla ha bisogno di essere vissuta da chi scrive? O è sempre possibile, come a Jane Austen, descrivere perfettamente l'animo altrui pur con una conoscenza relativamente limitata del mondo?
"Certo, una qualche esperienza ci deve essere. Ma poi noi scrittori abbiamo una strana capacità di entrare nella vita degli altri. Una capacità empatica. È una dote che abbiamo in maggior misura di altri, di chi non è scrittore. Qualcosa che non so spiegare. Sappiamo avventurarci in terreni sconosciuti. Come nel mio ultimo romanzo, Ora o mai più, pubblicato due anni fa  -  un titolo che voleva significare che ognitempo è unico  -  , cerchiamo di fare uso della nostra capacità di penetrare la distanza. Di raggiungere universi che stanno oltre il mondo di cui disponiamo. Attraverso la lettura riusciamo a sapere di più, a trovare il senso da dare alla nostra vita".