Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (1./)
Raimon Panikkar, che ha peregrinato tanto,
propone il pellegrinaggio come simbolo della vita ma non come la vita stessa,
perché il pellegrinaggio deve essere non solo esteriore, ma anche interiore.
Sono le parole che furono pronunciate nel
1977 per il conferimento della laurea
honoris causa dell’Università di Girona, nella Catalogna, al grande filosofo e
teologo spagnolo. (1)
E in effetti, se si potesse riassumere in
una sola parola la vicenda umana di Raimon Panikkar, si potrebbe usare il termine:
pellegrinaggio. Un continuo, utile errare per un uomo che ha
fatto dello studio, dell’approfondimento, della conoscenza, lo scopo della sua
vita, fino a renderlo – come egli è considerato oggi – “una delle più grandi figure spirituali del
nostro tempo, vero punto di incontro fra Oriente e Occidente”. (2)
Il pellegrinaggio era inscritto già
nel dna di Panikkar, visto che egli è
nato il 3 novembre del 1918 a
Sarrià, un quartiere di Barcellona, da padre indiano - Ramuni Panikkar, nato a
Malibar, di orgine aristocratica e con passaporto britannico - di religione
hindù, e da madre catalana - Carme
Alemany, morta nel 1975 - appartenente
ad una famiglia borghese cattolica. Il
padre di Panikkar, alla ricerca di un paese neutrale nel conflitto mondiale appena
iniziato, si era trasferito in Spagna
nel 1916. Dal matrimonio con Carme erano
nati quattro figli cresciuti in un clima di armonia, seppure nella differenza
evidente delle due tradizioni familiari.
Educato dai gesuiti di Barcellona,
Panikkar si dedicò sin da giovane allo studio delle scienze, della filosofia e
della teologia, spostandosi in diverse università europee. Poi, allo
scoppio della guerra civile spagnola - per il pericolo che incombeva sulla sua
famiglia - si trasferì con i genitori e
i fratelli in Germania, per fare poi
ritorno in Spagna nel 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale.
Questo fece di Panikkar, sin dai
primissimi anni dell’infanzia, un viaggiatore, un pellegrino senza dimora
fissa, con frequentazioni di città e ambienti universitari che gli resero
famigliari tradizioni e culture diverse, preparando il terreno per la sua
teologia – sviluppata nella maturità - che
Panikkar definì cosmoteoandrica,
indicando con questo termine la interrelazione di tre dimensioni, la realtà
materiale (cosmos), il divino (theos) e l'umano (anthropos): i tre mondi -
umano, divino e cosmico - pur
distinguibili e gerarchicamente ordinabili, per Panikkar, non erano e non sono cioè
separabili; così come non si può parlare
di un uomo che non abbia un corpo materiale, allo stesso modo non ha senso
parlare di un Dio auto-sussistente, privo di qualsiasi corporeità e di
qualsiasi rapporto con il mondo.
Questa visione del mondo, e di Dio, oggi
paradigma del pensiero filosofico di Panikkar, si spiega con un percorso di
vita lungo e complesso, che una volta egli stesso ha riassunto in questi
termini: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista
senza aver smesso di essere cristiano.”
Il
che potrebbe renderlo, agli occhi del mondo - che oggi appare sempre più
insofferente alle contaminazioni culturali e sempre più alla ricerca di forti
identità nazionali o locali (magari anche soltanto apparenti, di facciata) - un incomprensibile coacervo vivente, un simbolo
di sincretismo religioso.
Niente di più
lontano da quello che Panikkar si riconosceva, visto che è stato ordinato
sacerdote cattolico nel 1946, e che nel mondo cattolico – nonostante (o forse proprio
in virtù di questo) la sua forte apertura nei confronti delle grandi religioni
orientali – è diventato un autorevole punto di riferimento.
Il suo avvicinamento alla Chiesa cattolica è
stato graduale e coerente: già al ritorno dal viaggio in Germania, infatti, nel
1940, Panikkar si era unito ad un gruppo di secolari - i quali aspiravano ad
una pienezza di vita cristiana nello svolgimento dei loro compiti professionali
– che avrebbe fatto parlare molto di sé e che si sarebbe poi chiamato Opus Dei. E proprio dal fondatore di quella
organizzazione religiosa - Escrivà de
Balaguer - con il quale Panikkar intrattenne
una lunga relazione di amicizia, gli
venne la proposta di ricevere il sacerdozio.
Una scelta, quella di aderire all’Opus
dei, che se oggi appare a qualcuno contraddittoria con lo sviluppo della
sua teologia, pure non è stata mai rinnegata dal diretto interessato. Non sono pentito di quella scelta della mia
vita… ha scritto nel testo di rievocazione della sua vita che compare nel
sito ufficiale del centro studi che porta il suo nome, la linea
della vita non è retta, né spezzata.
A testimonianza che la linea “non sia
spezzata” è il fatto che pur nella continuità delle peregrinazioni, Panikkar
non ha mai interrotto, nel corso di una vita molto movimentata, lo stretto
legame con la Chiesa Cattolica
e con Roma in particolare. A Roma arrivò
infatti la prima volta nel 1953, fermandosi per un anno per terminare gli studi
di teologia, presso l’Università Lateranense, per poi farvi ritorno nel 1961, quando cominciò a tenere i corsi come libero
docente di Filosofia della Religione all’Università di Roma. Ma a Roma partecipò anche al Sinodo e alle
attività preparatorie per il Concilio.
Le cronache raccontano che quando Paolo
VI, nel corso dei lavori per il Vaticano
II, lo ricevette in udienza chiedendogli su che cosa stesse
riflettendo, Panikkar rispose con questa frase eloquente: Sto pensando a come essere cristiani in India senza essere
culturalmente greci e spiritualmente semiti. L’imperativo, era dunque, già
all’epoca, per il filosofo catalano, quello, di spogliare il cristianesimo del suo manto mediterraneo.
Eppure un aspetto piuttosto curioso di
questa scoperta della centralità del mondo induista è che Panikkar – nonostante
i molti viaggi già compiuti da studente e con la famiglia – si recò per la
prima volta in India, soltanto nel 1954, quando già aveva compiuto trentasei
anni. Era una “missione apostolica”, ma
era anche la prima volta che metteva piede nella terra dei suoi padri, e
sicuramente, l’impatto emotivo con quella terra
- fortissimo – era stato preparato da anni di studi e di conoscenza del
mondo nel quale affondavano le sue radici famigliari paterne. In quella occasione dovette realizzare con
precisione ciò che già stava meditando nel suo cuore, e cioè – come
scrisse in seguito - che stiamo
assistendo alla crisi del mito che ha prevalso in Occidente: il mito che una
sola cultura sia sufficiente per abbracciare l’intera gamma dell’esperienza
umana: in base a tale mito re, imperatori, papi, presidenti, governi
ed eserciti in buona fede, hanno fomentato il progetto di unificazione
politica, religiosa o economica del mondo.
Ora il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.
(1./segue)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
1.
La Laudatio
in onore di Raimon Panikkar fu pronunciata dal professor Josep-Maria
Terricabras della Università di Girona.
2.
La
definizione è di Julien Ries (Arlon, Belgio, 1920), quello che oggi è riconosciuto
il più grande storico delle religioni vivente.