12/04/14

Jung: "la luce nasce sempre dalle tenebre." Chi non sopporta la discesa nell'oscuro e nel brutto non creerà mai la luminosa bellezza.





Carl Gustav Jung spiegò nel 1942 il suo interesse, che si faceva sempre più insistente, sull'attraversamento delle cosiddette ombre dell'inconscio, i territori più oscuri della personalità individuale. 

Attirando l'attenzione sugli aspetti oscuri dei sottopiani psichici, non agisco per pessimismo; desidero, al contrario, far comprendere che, malgrado il suo aspetto pauroso, l'incosciente esercita un fascino potente, non solo sulle nature morbose, ma anche sugli spiriti sani e positivi.

Alla base dell'anima c'è la natura, e la natura ha in sé la vita creatrice.

E' vero che la natura distrugge ciò che essa ha creato, ma distrugge per costruire nuovamente. 

I valori che il relativismo distrugge nel mondo visibile ci vengono restituiti dall'anima. Dapprima non vediamo che la discesa in tutto ciò che vi è di oscuro e di brutto;

ma colui che non sopporta tale spettacolo, non creerà mai la luminosa bellezza.  

La luce nasce sempre dalle tenebre notturne, né mai la timorosa aspirazione umana è riuscita aggrappandosi al sole a trattenerlo nel cielo. 


Carl Gustav Jung, Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna, pref. di G. Jervis, traduz. di A.Vita e G.Bollea, Einaudi, Torino, 1942. 

11/04/14

Pozzo di San Patrizio a Orvieto. Un mistero .. di lettere.





Avvenne che la fuga del sacco di Roma fece ritirare il Papa nella sua partita in Orvieto, dove la corte infinitamente pativa disagio d'acqua. Talché venne pensiero al Papa di fare murare di pietra un pozzo in quella città, con larghezza di XXV braccia, e due scale intagliate nel tufo l'una sopra l'altra a chiocciola, secondo che 'l pozzo girava, e che si discendesse sino in sul fondo per due scale a lumaca doppie in questa maniera: che le bestie che andavano per l'acqua, entrando per una porta, calassino sino in fondo per la lumaca deputata solamente a lo scendere, et arrivate sul ponte dove si carica l'acqua, senza ritornare indietro, pas- sassino a l'altro ramo della lumaca che si aggira sopra quello della scesa, e se ne venissino suso, et per una altra porta diversa e contraria alla prima riuscissino fuori del pozzo. Cosa ingegnosa di capriccio e maravigliosa di bellezza

Così Giorgio Vasari descrive il Pozzo di San Patrizio ad Orvieto, opera di Antonio da Sangallo il Giovane, una delle perle architettoniche più preziose concepite dal genio italiano nel corso di duemila anni di storia. 

Si scende, si gira, si sale, si gira, tredici giri avvolgendosi su se stessi, metà a scendere, metà a salire.  Si dice che ogni mezzo giro nasconda una lettera, tredici giri, ventisei lettere, l'intero alfabeto.

Per ogni lettera una parola.  E' un grande DNA scavato nel tufo, il tempo di percorrerlo è il tempo di un desiderio in ventisei parole che scendono e salgono sull'alfabeto. 

Talvolta, di notte, il pozzo restituisce voci, parole impazzite, idiomi confusi, forse i desideri smarriti di visitatori distratti. Qualcuno ha raccolto queste strane sequenze, sette vaganti desideri alfabetici. 

Come ha fatto Maria Sebregondi in un numero della rivista Leggere (n.5/ottobre 1988).

Ne riporto soltanto uno, intitolato desiderio amoroso. 

Ardori baloccanti, cupide delizie, estesi fruscianti giacigli. Haremi, imbambolata jouissance, kamasutra liquoroso, metamorfosi nervose.  Oriente, profumi quintessenziali, risate scintillanti trascinano utopiche voluttà. Wow! Xanadu, Yemen, Zanzibar... 




10/04/14

Intervista a Thomas S. Eliot: "Essere poeti, il rischio di perdere tempo inutilmente."




Questa conversazione ha avuto luogo a New York, nell'appartamento della signora Cohn, amica di Eliot e di sua moglie. Eliot era di ritorno da un viaggio a Nassau, era abbronzato e leggermente ingrassato, così comincia il libro intervista di Donald Hall, pubblicato per la newyorchese Penguin e tradotto in Italia da Minimum Fax, con l'introduzione di Pasquale Panella, che si diverte a giocare con l'ingombrante personaggio di Eliot, uno dei monumenti della poesia mondiale: Eliot come stai? E dove Eliot, tu stai? Sono domande queste? Si sono domande. Possiamo rispondere a tutto, non è vero Eliot? Rispondere con le parole che dicono qualcosa, che dicono la cosa veramente, il nome e la posizione della cosa.

E' un libro molto interessante. T.S. Eliot offre le sue parole a chi vuole scrivere versi, a chi inizia a scriverli.

Nelle prime poesie c’è un problema di inesperienza – avere da dire più di quel che si sa dire e volere rendere in parole e ritmo qualcosa, ma non avere abbastanza controllo sulle parole e sul ritmo per renderlo in una forma immediatamente accessibile.

Questo tipo di oscurità si presenta quando il poeta sta ancora imparando a usare il linguaggio. Sei costretto a dire le cose in maniera difficile. L’unica alternativa è non esprimerti affatto, in quella fase.

Credo però sia terribilmente pericoloso dare consigli generici. La cosa migliore che si può fare per un giovane poeta è analizzare dettagliatamente una sua poesia: discuterne con lui se necessario, dargli la propria opinione e, se ci sono conclusioni generali da trarre, lasciare che lo faccia da sé. Ho capito che le persone hanno un diverso modo di lavorare a seconda dei casi e percepiscono la realtà in modo diverso. Non si sa mai se quella che si sta facendo è un’affermazione universalmente valida per tutti i poeti o una che puoi applicare solo a te stesso. Credo non ci sia nulla di peggio che cercare di plasmare la gente secondo la propria immagine. (…)

Per me è stato molto utile esercitare altre attività, lavorare in banca, o anche fare l’editore. E penso anche che la difficoltà creata dal fatto di avere meno tempo a disposizione di quanto ne avrei voluto mi abbia dato una grande urgenza di concentrazione

Il pericolo che si corre, quando non si ha niente altro da fare è, di norma, quello di scrivere troppo, invece di concentrarsi e perfezionare piccole porzioni di testo. (…)

Nessun poeta onesto può mai essere sicuro della validità di ciò che ha scritto. Potrebbe aver perso il suo tempo inutilmente”.

09/04/14

Sprecare la vita . Smettere di esercitare il controllo (Bukowski).





Smettila di voler avere tutto sotto controllo. Sappi che tutto - ogni cosa (e a maggior ragione ogni persona) continuerà sempre a sfuggirti, perché così deve essere.    E' ciò che continuo a ripetermi, per l'evidenza stessa delle cose. 

In questo transito terrestre, nulla ti è dato di durevole, nulla ti è dato per sempre, nulla è tuo veramente. 

Per quanti sforzi tu faccia, per quanta convinzione ci metterai, tutto continuerà a sfuggire dal tuo controllo. 

Ed è da questa smania che nasce tutto lo scontento. La lamentazione quotidiana, il rimprovero, l'assillo

Charles Bukowski, con il suo tono sardonico, ineffabile, così lo ha descritto una volta. Nel suo stile che assomiglia a una pietra. 


 
Sprecare la vita

Lamentele infime e triviali,
costantemente ripetute,
possono far ammattire un santo,
per tacere di un bravo ragazzo
qualunque (me)
e il peggio è che chi
si lamenta
nemmeno si accorge di farlo
a meno che non glielo dici
e perfino se glielo dici
non ci crede.
E così non si conclude
niente
ed è solo un altro giorno
sprecato,
preso a calci
mutilato
mentre il Buddha
siede nell'angolo e sorride.






08/04/14

Kant aveva ragione. Rivoluzionaria ricerca in Francia: "Quantità, tempo e spazio sono innati e non derivati dall'esperienza."







Non capita tutti i giorni, anzi nemmeno tutte le settimane e nemmeno tutti i mesi, che una tesi filosofica fondamentale sia confermata sperimentalmente. Eppure questo è appena successo, grazie a un lavoro appena uscito sull'ultimo numero dei Proceedings of the National Academy of Sciences of the Usa (in breve PNAS) co-firmato da una delle più note e autorevoli psicologhe cognitive: Elisabeth Spelke di Harvard. 

Insieme alle colleghe Véronque Izard, Coralle Sann e Atlette Streri del Laboratorio di Psicologia della Percezione del CNRS e dell'Università di Parigi Descartes, hanno confermato la tesi Kantiana che spazio, tempo e numero sono innati.

La Spelke ha indagato per anni e riportato in numerose pubblicazioni le radici cognitive dell'aritmetica e della nostra percezione dello spazio. Me lo conferma in un'intervista in esclusiva. 

Mi dice, infatti: «Le mie collaboratrici ed io avevamo recentemente scoperto che i neonati sono sensibili ai numeri e che bimbi appena più grandi, a cinque mesi, notano la correlazione tra numeri crescenti o decrescenti e spazi, rispettivamente, più o meno grandi. Volevamo, quindi, meglio indagare l'origine di questa capacità. Ovviamente, nel mondo che ci circonda, numeri, lunghezze e durate vanno insieme. Serie più numerose di oggetti occupano maggior spazio e sequenze più numerose di suoni durano più a lungo. Ci siamo chieste se queste correlazioni sono apprese o invece innate. Ora lo abbiamo fatto studiando i neonati, che ancora non hanno potuto avere esperienze di queste correlazioni».

Effettuare esperimenti di natura cognitiva su bimbi molto piccoli, in particolare su neonati a solo due o tre giorni dopo la nascita, sembrerebbe presentare formidabili difficoltà. 

Chiedo alla Spelke come hanno fatto. «Arlette Speri ha condotto questi esperimenti pionieristici a Parigi, in un reparto maternità, quando i bimbi sono svegli e attenti. Si pone loro di fronte un grande schermo e si fanno loro udire sequenze di suoni più o meno numerose, ciascuno di durata più o meno lunga, per uno o due minuti, prima che sullo schermo appaiano gruppi di oggetti più o meno numerosi, oppure linee di diverse lunghezze. La durata del loro sguardo viene rigorosamente misurata, mentre le serie di suoni continuano. Come noi, i neonati prestano maggior attenzione, cioè guardano più a lungo, eventi tra loro correlati, in questo caso, sequenze di suoni più numerosi, o che durano più a lungo, abbinate a un numero corrispondente di oggetti, oppure a linee più lunghe».

Vale la pena, per rendere questi esperimenti a noi palpabili, precisare che i numeri delle ripetizioni di sequenze acustiche (tipo tu-tu-tu... oppure ra-ra-ra-ra..., oppure tuuuu-tuuuuuu... oppure raaaaa-raaaa-raaaa...) variano tra quattro e diciotto e sullo schermo appaiono, in corrispondenza, o senza corrispondenza, quattro triangolini gialli, oppure sei o dieci cerchietti rosa e così via.

Faccio l'avvocato del diavolo e chiedo alla Spelke perché questi risultati mostrano che spazio, tempo e numeri sono innati. Risponde:

Continua a leggere qui. L'articolo originale di Massimo Piattelli Palmarini.

Massimo Piattelli Palmarini - Corriere.it 

07/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (4.fine)




Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (4./fine)


Ma anche negli ultimi anni della vecchiaia, Panikkar, non ha perso di vista il momento storico, le sfide che al cristianesimo vengono imposte dal rapido sviluppo dei tempi.  Oggi, per questo pensatore, non si può fare a meno di chiedersi: chi è Gesù Cristo per l'Oriente, per l'Africa, per il terzo mondo? Come Gesù può divenire realmente il Salvatore per quei popoli, per le nazioni dell'emisfero povero del Sud che sono le protagoniste del presente, ma lo saranno ancor più, presumibilmente, del prossimo futuro? Ovvio che, in tale chiave, l'assise conciliare del domani dovrà essere un Vaticano III, chiamato a focalizzarsi sulle tematiche della mondializzazione del vangelo, sullo sforzo di adattamento della liturgia, dell'ascolto della Parola di Dio e dell'essere chiesa nei più svariati linguaggi e stili di vita. (9)

La speculazione teologica e filosofica di Panikkar, dunque, non si è ancora fermata, così come il suo interrogarsi dentro il mondo e la chiesa di oggi. 

Nel contempo, a rendere la sua figura esemplare e di forte richiamo per i giovani che accorrono a sentirlo parlare, è la serenità e la piena consapevolezza che dimostra anche di fronte ai temi irrisolti della modernità, come l’accettazione della morte.

Ad un uomo che ha oltrepassato splendidamente la soglia dei novant’anni, è stato chiesto di recente se non abbia paura di morire. E questa è stata la risposta di Panikkar:  Una gran parte dell’umanità non ha paura della morte; ha paura della sofferenza, il che è un’altra cosa.  La paura della morte è un fenomeno molto occidentale: se il tempo è un'autostrada che mi porta al cielo, all'inferno, al limbo, o al nulla, o a dove che sia, allora ho paura di non arrivarci. Ma se il tempo non è questo, se la realtà è piuttosto tempiternità - come uso dire con una parola di mio conio - allora la mia vita ha un senso adesso; e benvenuta sia la mia umana finitudine che mi fa scoprire l'unicità di ogni cosa, il valore di ogni momento, di ogni incontro, di ogni bicchiere d'acqua. Nessuna paura, dunque: Cotidie morior, dice San Paolo. E se la fede non trasforma la mia vita, allora questa fede è morta. (10) .

(4./fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 
   
9.     Panikkar espresse queste opinioni in un colloquio informale con Bruno Hussar, fondatore in Israele del villaggio della pace di Nevè Shalom.  Il contenuto di questo colloquio è stato riferito da Brunetto Salvarani nella presentazione del vol.12 – Gesù – del mensile CEM mondialità, collana Le parole delle fedi.
10.     Giovanni Ruggeri, Se Dio diventa un’ipotesi inutile, intervista a Raimon Panikkar, pubblicata sulla rivista on line www.24sette.it



06/04/14

La poesia della domenica: "Dolce oscurità" di David Whyte.





Dolce oscurità

Quando i tuoi occhi sono stanchi
anche il mondo è stanco.

Quando la tua visione se n'è andata
nessuna parte del mondo può trovarti.

Tempo di andare nell'oscurità
dove la notte ha occhi
per riconoscere chi le appartiene.

Allora sarai sicuro
di non essere al di là dell'amore.

L'oscurità sarà il tuo utero
stanotte.

La notte ti darà un orizzonte
più lontano di quanto tu non riesca a vedere.

C'è una cosa che devi imparare,
il mondo è stato fatto per viverci in libertà.

Abbandona tutti gli altri mondi
eccetto quello a cui appartieni.

Qualche volta occorrono oscurità e
dolce prigionia della tua
solitudine per imparare

che qualunque cosa o chiunque
non ti renda vivo

è troppo piccolo per te.


David Whyte, da The House of Belonging.

05/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (3./)




Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (3./)

Si potrà obiettare che anche con queste parole, una definizione chiara non è ancora arrivata.  Ma Panikkar ha preferito semplicemente rispondere a questa domanda - cosa sono io allora? che in definitiva corrisponde a: in cosa credo, quale è la mia percezione di Dio ?  -  con tutta la sua vita.  Una vita che, come si è visto finora, è stata vissuta in rivolta a quella ossessione moderna che è la certezza, la dichiarazione di appartenenza. Per Panikkar essere cristiani vuol dire senza mezzi equivoci scoprire in e attraverso Gesù, figlio di Maria, il mistero di Cristo,  ma al contempo la creazione si produce ogni giorno, ogni giorno è qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile.  
      Per questo vale la pena vivere: per dare inizio a qualcosa di nuovo, scrive Panikkar, Non è questione di ripetere il passato né soltanto di criticarlo. La religione non è archeologia, non è come prima; è nuova ogni giorno: lo Spirito fa nuove tutte le cose, costantemente. La novità però,  se è il risultato di una creazione non ha modello, non ha paradigma: ci dà la libertà, e pertanto la responsabilità di partecipare attivamente nel dinamismo della storia e della realtà.  (6)
     
La testimonianza di un pensiero – e di uno spirito – libero, emana anche dalla stessa figura di Panikkar, che ogni qual volta viene avvicinato per una intervista colpisce l’interlocutore per la luce del suo sguardo, per la eleganza sobria del suo vestire, per il modo con cui riesce ad esprimere, anche di fronte a numerose ed eterogenee platee, il suo pensiero, in forma semplice e diretta.
     
Anche in questo,  il segreto è forse nel coniugare la pazienza, la calma e la meditazione nel parlare degli orientali, con la capacità analitica degli occidentali, anche se ormai queste categorie di distinzione cominciano davvero ad apparire superflue in un mondo sempre più ‘accorciato’.
     Ho avuto la fortuna di avere una madre spagnola e cattolica e un padre indiano e induista, ha detto in una intervista del 2004,  per me è stato un meraviglioso arricchimento. Mi ha insegnato a guardare ogni realtà con l'occhio dell'apertura e dell'amore. Io sono un sacerdote cattolico, ma che cosa sarebbe il mio sacerdozio, se pensassi di appartenere esclusivamente a una setta religiosa nata solo duemila anni fa? Ogni uomo è il punto in cui si incontrano il divino e il creato. Ma oggi molti giovani respingono o ignorano il messaggio cristiano perché in realtà non sanno che cos'è. "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra... Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio...": queste sono le parole dette da Gesù nel Sermone della montagna. Basta ripeterle ai giovani ed ecco che loro scoprono le radici e il significato eternamente valido del messaggio cristiano. (7)
      
Il completamento del ciclo vitale di Panikkar – e al contempo del suo lungo e proficuo cammino di ricerca spirituale – si è manifestato nel 1987 quando dopo più di venti anni trascorsi a cavallo tra due continenti e due realtà del mondo contrapposte,  il filosofo ha fatto ritorno a casa, nella sua catalogna.   Tracciando un bilancio di quel ventennio così movimentato, Panikkar così lo ha sintetizzato: Trascorsi un quarto di secolo tra una delle città più ricche, dello stato più ricco, della nazione più potente, e l’esatto contrario (a dodici ore di fuso orario): una delle città più caotiche, in uno degli stati più ‘sottosviluppati’, di uno dei paesi più poveri del mondo: tra Santa Barbara, in California, negli Stati Uniti, e Varanasi, nell’Uttar Pradesh, in India. La mia vita interiore era, letteralmente, l’unico punto di unione tra due sfere della mia vita.

      

Il ritorno a casa ha coinciso con l’elezione a luogo dell’anima, di Tavertet, un paesino dei pre-Pirenei catalani, dov’era già stato una prima volta qualche anno prima.   Qui, oggi Panikkar vive da monaco, dedicandosi completamente alla preghiera, allo studio, e alla cura del suo centro studi -  chiamato Vivarium - diventato con il tempo punto di incontro e scambi interculturali. 

 (3./segue) 

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5.     Il testo al quale si fa riferimento è pubblicato ne La stella del Mattino –  Laboratorio per il dialogo religioso, nuova serie – trimestrale n. 3 - luglio/settembre  2002.
6.     Raimon Panikkar, Esame di Coscienza in tre punti, pubblicato in www.dimensionesperanza.it
7.      Un guru moderno: Raimon Panikkar, intervista di Elena Missori, PerMe, n. 6 Agosto 2004.

04/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (2./)






Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (2./)

Quello che sperimentò Panikkar durante i lunghi vent’anni seguenti a quella prima visita in India, che trascorse vivendo soprattutto nella città santa di Varanasi, in una piccola casa sul Gange all’interno di un vecchio tempio di Shiva,  dedicandosi alla meditazione, alla preghiera, a studi biblici e vedantici comparati  è proprio che il messaggio religioso di Cristo non appartiene ad alcun particolare gruppo umano. Quindi lo stesso significato del nostro essere cristiani è sempre aperto a nuovi raggi di luce. (3)

A Varanasi, fra l’altro, Panikkar fondò la Abhishiktananda Society, collaborando con i monaci Jules Mochanin, Henri Le Saux  e Bede Griffiths, che erano stati pionieri del dialogo interreligioso tra il mondo indiano e quello occidentale.

Dopo qualche tempo, l’indubitabile evidenza di essere uno dei maggiori conoscitori cattolici del mondo orientale, portarono Panikkar ad essere chiamato nel 1966 nell’Università di Harvard come Visiting Professor di religione comparata  e quattro anni più tardi, nel 1971 ad essere insignito della cattedra di Filosofia comparata delle religioni all’Università di California, a Santa Barbara, incarico che ha ricoperto fino al 1987.

Prima c’erano state le lauree  conseguite:  quella in Scienze all’Università di Barcellona, nel 1941,  quella in Lettere all’Università di Madrid nel 1942 – e il dottorato ottenuto nel 1946 con una tesi intitolata: El concepto de Naturaleza -   e quella in teologia all’Università Lateranense di Roma, nel 1961. 

E ancora, un incessante susseguirsi di conferenze in giro per il mondo – sempre intervallati da lunghi soggiorni in India – seminari, premi e riconoscimenti conferiti da istituti di cultura e università di ogni continente, nell’arco di tempo di quarant’anni, hanno fatto di Panikkar un simbolo riconosciuto di  quella ricerca che, in campo spirituale, non si ferma all’apparenza dei riti e dei dogmi, ma si sforza di ascoltare ovunque la voce di Dio.  La religione non è per Panikkar, una ideologia o un  fatto già assodato, ma un’esperienza, non una teoria ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo – senza preoccupazione né ansia – partecipa all’avventura cosmica. (4)

Una esperienza nella quale, però, esiste il rischio concreto di perdere o di confondere la propria identità. Molte volte, infatti, in questo lungo cammino di conoscenza e di pellegrinaggio spirituale, a Panikkar è inevitabilmente capitato di dover rispondere a richieste precise riguardo al contenuto della propria fede o delle proprie convinzioni religiose. Molte volte - in nome dell’ortodossia - gli è stata più o meno velatamente  contestata una opportunistica ambiguità.

Panikkar, però, anche su questo terreno insidioso, non si è mai tirato indietro.
       Spesso mi hanno domandato di parlare senza ambiguità e dire con chiarezza se io sono un indù oppure no, ha scritto in un testo (5), Se la persona chi mi interroga è cristiana, so molto bene che se rispondo di sì, ne dedurrà che non sono cristiano – e se è al corrente che sono un prete cattolico, presumerà che sono un apostata, che non sono più cristiano. Se dico "no", non sarei sincero e questa non sarebbe più una vera risposta. Lo spirito occidentale, che ha impregnato la mentalità cristiana – aggiunge Panikkar - è generalmente dominato (non riesco a trovare un termine migliore) dal "sacrosanto" principio di non-contraddizione (è il caso di S. Tommaso d’Aquino), secondo cui, se confesso di essere indù non posso essere cristiano, presumendo che i due siano contraddittori.

       Se è un indù a porre la domanda, ciò non sarà più facile per me. So bene che se rispondo "Sì" e so che questa persona è al corrente della mia appartenenza cristiana, immaginerà che io creda che tutte le religioni siano simili e che finalmente, sia una o l’altra non è importante. Presumerà che abbassi tutte le religioni poiché mi pongo al di sotto di tutte. Se dico "No", nuovamente non sarei sincero.

(2./segue) 

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3.     Questa e la citazione precedente sono tratte da: Raimon Panikkar, Vangelo e Zen, prefazione a Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen, di p. Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani, edizioni Dehoniane, Bologna, 2001.
4.     J.M.Terricabras, Laudatio in onore di R.Panikkar, op.cit.

03/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (1./)



  

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (1./)

Raimon Panikkar, che ha peregrinato tanto, propone il pellegrinaggio come simbolo della vita ma non come la vita stessa, perché il pellegrinaggio deve essere non solo esteriore, ma anche interiore.
Sono le parole che furono pronunciate nel 1977  per il conferimento della laurea honoris causa dell’Università di Girona, nella Catalogna, al grande filosofo e teologo spagnolo. (1)

E in effetti, se si potesse riassumere in una sola parola la vicenda umana di Raimon Panikkar, si potrebbe usare il termine: pellegrinaggio.  Un continuo, utile errare per un uomo che ha fatto dello studio, dell’approfondimento, della conoscenza, lo scopo della sua vita, fino a renderlo – come egli è considerato oggi –  “una delle più grandi figure spirituali del nostro tempo, vero punto di incontro fra Oriente e Occidente”. (2)  

Il pellegrinaggio era inscritto già nel dna di Panikkar, visto che egli è nato il 3 novembre del 1918 a Sarrià, un quartiere di Barcellona, da padre indiano - Ramuni Panikkar, nato a Malibar, di orgine aristocratica e con passaporto britannico - di religione hindù, e da madre catalana -  Carme Alemany, morta nel 1975 -  appartenente ad una famiglia borghese cattolica.  Il padre di Panikkar, alla ricerca di un paese neutrale nel conflitto mondiale appena iniziato,  si era trasferito in Spagna nel 1916.  Dal matrimonio con Carme erano nati quattro figli cresciuti in un clima di armonia, seppure nella differenza evidente delle due tradizioni familiari.  

Educato dai gesuiti di Barcellona, Panikkar si dedicò sin da giovane allo studio delle scienze, della filosofia e della teologia, spostandosi in diverse università europee.  Poi,  allo scoppio della guerra civile spagnola -  per il pericolo che incombeva sulla sua famiglia -  si trasferì con i genitori e i fratelli  in Germania, per fare poi ritorno in Spagna nel 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale.

Questo fece di Panikkar, sin dai primissimi anni dell’infanzia, un viaggiatore, un pellegrino senza dimora fissa, con frequentazioni di città e ambienti universitari che gli resero famigliari tradizioni e culture diverse, preparando il terreno per la sua teologia – sviluppata nella maturità -  che Panikkar definì cosmoteoandrica, indicando con questo termine la interrelazione di tre dimensioni, la realtà materiale (cosmos), il divino (theos) e l'umano (anthropos): i tre mondi  - umano, divino e cosmico -  pur distinguibili e gerarchicamente ordinabili, per Panikkar, non erano e non sono cioè separabili;  così come non si può parlare di un uomo che non abbia un corpo materiale, allo stesso modo non ha senso parlare di un Dio auto-sussistente, privo di qualsiasi corporeità e di qualsiasi rapporto con il mondo. 

Questa visione del mondo, e di Dio, oggi paradigma del pensiero filosofico di Panikkar, si spiega con un percorso di vita lungo e complesso, che una volta egli stesso ha riassunto in questi termini: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista senza aver smesso di essere cristiano.”

Il che potrebbe renderlo, agli occhi del mondo - che oggi appare sempre più insofferente alle contaminazioni culturali e sempre più alla ricerca di forti identità nazionali o locali (magari anche soltanto apparenti, di facciata) -  un incomprensibile coacervo vivente, un simbolo di sincretismo religioso.  

Niente di più lontano da quello che Panikkar si riconosceva, visto che è stato ordinato sacerdote cattolico nel 1946, e che nel mondo cattolico – nonostante (o forse proprio in virtù di questo) la sua forte apertura nei confronti delle grandi religioni orientali – è diventato un autorevole punto di riferimento.  

Il suo avvicinamento alla Chiesa cattolica è stato graduale e coerente: già al ritorno dal viaggio in Germania, infatti, nel 1940, Panikkar si era unito ad un gruppo di secolari - i quali aspiravano ad una pienezza di vita cristiana nello svolgimento dei loro compiti professionali – che avrebbe fatto parlare molto di sé e che si sarebbe poi chiamato Opus Dei.  E proprio dal fondatore di quella organizzazione religiosa -  Escrivà de Balaguer -  con il quale Panikkar intrattenne una lunga relazione di amicizia,  gli venne la proposta di ricevere il sacerdozio.   Una scelta, quella di aderire all’Opus dei, che se oggi appare a qualcuno contraddittoria con lo sviluppo della sua teologia, pure non è stata mai rinnegata dal diretto interessato.   Non sono pentito di quella scelta della mia vita… ha scritto nel testo di rievocazione della sua vita che compare nel sito ufficiale del centro studi che porta il suo nome,  la linea della vita non è retta, né spezzata.    

A testimonianza che la linea “non sia spezzata” è il fatto che pur nella continuità delle peregrinazioni, Panikkar non ha mai interrotto, nel corso di una vita molto movimentata, lo stretto legame con la Chiesa Cattolica e con Roma in particolare.  A Roma arrivò infatti la prima volta nel 1953, fermandosi per un anno per terminare gli studi di teologia, presso l’Università Lateranense, per poi farvi ritorno nel 1961,  quando cominciò a tenere i corsi come libero docente di Filosofia della Religione all’Università di Roma.  Ma a Roma partecipò anche al Sinodo e alle attività preparatorie per il Concilio. 

Le cronache raccontano che quando Paolo VI,  nel corso dei lavori per il Vaticano II,  lo ricevette  in udienza chiedendogli su che cosa stesse riflettendo, Panikkar rispose con questa frase eloquente: Sto pensando a come essere cristiani in India senza essere culturalmente greci e spiritualmente semiti. L’imperativo, era dunque, già all’epoca, per il filosofo catalano, quello, di spogliare il cristianesimo del suo manto mediterraneo.

Eppure un aspetto piuttosto curioso di questa scoperta della centralità del mondo induista è che Panikkar – nonostante i molti viaggi già compiuti da studente e con la famiglia – si recò per la prima volta in India, soltanto nel 1954, quando già aveva compiuto trentasei anni.  Era una “missione apostolica”, ma era anche la prima volta che metteva piede nella terra dei suoi padri, e sicuramente, l’impatto emotivo con quella terra  - fortissimo – era stato preparato da anni di studi e di conoscenza del mondo nel quale affondavano le sue radici famigliari paterne.  In quella occasione dovette realizzare con precisione ciò che già stava meditando nel suo cuore, e cioè – come scrisse  in seguito -  che stiamo assistendo alla crisi del mito che ha prevalso in Occidente: il mito che una sola cultura sia sufficiente per abbracciare l’intera gamma dell’esperienza umana: in base a tale  mito re, imperatori, papi, presidenti, governi ed eserciti in buona fede, hanno fomentato il progetto di unificazione politica, religiosa o economica del mondo.  Ora il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.  

(1./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      La Laudatio in onore di Raimon Panikkar fu pronunciata dal professor Josep-Maria Terricabras della Università di Girona.

2.     La definizione è di Julien Ries (Arlon, Belgio, 1920), quello che oggi è riconosciuto il più grande storico delle religioni vivente.

01/04/14

La mia strada è restare . (Tree of life)







sai mia anima, sono stanco di mendicare. 


non devi mendicare, io sono qui.



ma non hai visto niente, io sono in viaggio da sempre e non sono ancora arrivato.


io invece non mi sono mai spostata e sono rimasta ad aspettarti. 


tornerò allora. 


ma non sei ancora nemmeno partito, da me. Io ero da sempre prima di te, dentro di te e non potrai più né partire, né tornare.


la mia strada è restare.






Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata 2014.



31/03/14

Ezra Pound a Siena: quando voleva combattere l'usura.




Ezra Pound fotografato da Richard Avedon nel 1958.


Un tassello che completa il quadro quasi inestricabile di un pensatore che ha sempre amato viaggiare ai limiti della provocazione, tendenza esistenziale che nel dopoguerra gli costo' la condanna per collaborazionismo e l'internamento in un ospedale criminale americano. 

Ezra Pound, candidato al Nobel nel 1959, continua a rimanere al centro dell'attenzione degli studiosi, soprattutto italiani, che onorano cosi' i tanti anni trascorsi dal poeta nel Belpaese, Venezia in primis, dove arrivo' per la prima volta nel 1908 e dove morira' nel 1972. 

A riaccendere le luci sulla figura di Pound è il nuovo saggio di Stefano Adami, filosofo e docente all'Università di Chicago, Ezra Pound a Siena tra Accademia Chigiana e Monte dei Paschi. 

Adami, noto in Italia e negli Usa anche per le sue ricerche su Italo Calvino, inizia il suo agile pamphlet prendendo spunto da un'intervista che Pound, a Venezia, rilascio' nel 1967 a PierPaolo Pasolini. 



In quell'occasione, e questo e' uno dei temi portanti del saggio, il vecchio poeta torna a parlare delle idee economiche di Douglas e Gesell, e del suo arrivo a Siena per combattere l'usura. 

Con una ricerca documentale inedita e approfondita, Adami ripesca dall'oblio alcune riflessioni di Pound sulla usurocrazia, che nei Cantos definisce "una tassa prelevata sul potere d'acquisto senza riguardo alla produttivita', e sovente senza riguardo persino alla possibilita' di produrre". 

In questo, ricorda Adami, si fa sentire in particolare il pensiero di Hugh Clifford Douglas, ingegnere inglese di sei anni più vecchio di lui, conosciuto dal poeta anni prima a Londra, che stigmatizza il fatto che "la produzione di merci e l'accumulazione di moneta sono concentrati nelle mani di un numero di individui sempre minore. E che, attraverso la circolazione della cartamoneta - questo ristretto numero di persone orienta l'economia verso la moltiplicazione finanziaria della ricchezza, svuotando la ricchezza reale degli individui, le loro concrete capacita' creative e produttive e vincolando cosi' l'umanita' a un progetto oscuro di asservimento". 

Per questo Pound benedice l'idea di Silvio Gesell, economista e anarchico tedesco, che concepisce l'idea di creare una 'moneta a tempo', 'prescrittibile', che chiama 'denaro libero', vale a dire una moneta che abbia la stessa durata delle merci che serve ad acquistare e che perda valore con il tempo'. 

Idea peraltro non nuova, riconosce Pound, visto che, scrive in 'Lavoro e usura', "i vescovi del medioevo gia' emettevano una moneta che fu richiamata alla zecca per essere riconiata alla fine di un periodo definito". 

Il lavoro di Adami premia il lettore visto che getta una nuova luce sul Pound che nel 1927 si mette a studiare l'atto di fondazione del Monte dei Paschi di Siena, risalente al 1624, e quello precedente del 1472 come Monte di Pieta'. 

Una banca, e' convinto, lontano dalle logiche usuraie, capace di mettere al centro della sua attivita' l'uomo e il suo lavoro. 

Certamente un paradosso della storia, visto lo scandalo che ha travolto recentemente l'istituto senese. 

Ma Pound, ricorda l'autore del saggio, e' attratto anche dalla dimensione culturale del nostro Paese, in particolare quello musicale. 

A questo aspetto, e in particolare al suo legame con l'Accademia Musicale Chigiana, Adami dedica una parte della sua indagine, che tuttavia avrebbe forse meritato un saggio a parte.

30/03/14

Una visita, domenica prossima, ai sotterranei dell'Orologio di Augusto.




Domenica prossima, 6 aprile, alle 10 ho organizzato, insieme all'amica Simona Capodimonti, una visita ai sotterranei della Meridiana di Augusto, a Campo Marzio, a Roma. 
Vi racconteremo e vi faremo vedere qualcosa di molto antico e di molto bello. 
Qui i dettagli: 




VISITA GUIDATA CON PERMESSO SPECIALE
al sito con i resti della Meridiana di Augusto

Nel 2014, in occasione delle celebrazioni del bimillenario dalla morte di Augusto (19 agosto 14 d.C.), visita con permesso speciale alla scoperta dei resti della grandiosa Meridiana di Augusto, con partenza dall'obelisco in piazza Montecitorio e sotterranei di Via San Lorenzo in Lucina, alla scoperta dei grandiosi resti di un monumento unico al mondo.

DOMENICA 6 APRILE, ore 10.00
appuntamento sotto l'obelisco di Piazza Montecitorio



Info e prenotazioni necessarie

La poesia della domenica "Sii dolce con me. Sii gentile." di Mariangela Gualtieri.




Sii dolce con me. Sii gentile.


Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci -
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.

Mariangela Gualtieri, da Bestia di gioia

29/03/14

La sapienza dell'Oriente e l'infelicità moderna.




Eve Arnold, Retired woman, China (1979)


C'è una obiezione di fondo che muovo ai filo-orientalisti: coloro che sostengono la superiorità della sapienza e della tradizione dell'Oriente in confronto a quella occidentale. 

Sono il primo ad essere convinto che il misticismo orientale - molto più di quello maturato e sviluppatosi nell'Occidente - si sia avvicinato alle cosiddette verità ultime.  

Basta leggere un libro di grande divulgazione come il Tao della fisica, per rendersi conto che 3.000 anni fa i grandi pensatori e mistici d'Oriente, i fondatori del buddhismo, del taoismo, dello zen, dell'induismo, compresero (molto meglio e molto più propriamente dei filosofi  e dei mistici occidentali), ciò che oggi la fisica moderna, la meccanica quantistica, la teoria einsteniana, ci stanno dicendo sul mondo. E su quella che noi chiamiamo realtà.

Ciò che stiamo scoprendo, cioè, è stato anticipato ed elaborato dalle grandi tradizioni filosofiche e mistiche orientali molti e molti secoli fa: oggi sappiamo che non esiste sostanza (gli atomi sono fatti quasi esclusivamente di vuoto e per il resto di relazioni, campi, interconnessioni e probabilità, non sostanza), che lo spazio e il tempo sono convenzioni (e solo un accidente della realtà), che le cose invisibili sono molto più di quelle invisibili, che gli universi sono infiniti e probabilmente interconnessi, che il mondo che noi conosciamo è tenuto insieme da una misteriosa e complessissima danza cosmica, fatta di interrelazioni, energie, campi, probabilità.  L'opposto di quello che i nostri sensi ci dicono: individuazione dell'io, separazione tra osservato e osservante, ego-centrismo ed elio-centrismo dell'universo, che sono invece i principi su cui si è incardinata la storia del pensiero occidentale (di radice cristiana).

Eppure, l'ammirazione per questa saggezza d'Oriente, capace di cogliere il senso profondo delle cose e la sostanza vera della realtà, suscita l'obiezione di cui dicevo all'inizio:

perché questi grandi sistemi filosofici e mistici e questa sapienza non hanno saputo tradursi nel concreto in una evoluzione umana (e di civiltà) più accettabile della nostra ? 

Il prodotto di 3.000 anni di sapienza e di consapevolezza orientale sono i grandi paesi-continenti dell'oggi: la Cina, il Sud-est asiatico, l'India e da ultimo il Giappone.

Nessuno di questi paesi oggi mostra l'immagine di questa sapienza superiore, arcana, primordiale, maturata non soltanto nel chiuso di qualche antico monastero o nella mente di qualche filosofo, ma dispensata in norme religiose e di vita che sono state con-divise per secoli e secoli da intere popolazioni.

Il prodotto non è confortante: la Cina è oggi un paese terribilmente materialista, forse il paese meno spirituale al mondo, e non c'è democrazia, ma un regime autoritario e autocrate.  L'India è un paese-continente colmo di spaventose disuguaglianze, ancora in gran parte edificato socialmente sul sistema delle caste.  Sud-est asiatico e Giappone, pur avendo aderito (in forme parossistiche) al modello di vita occidentale, sono ancora pervasi da mentalità fondamentaliste, in alcuni casi medievali.

L'Occidente, pur con le sue distorsioni, le sue guerre spaventose, i suoi genocidi, ha creato - dalla grande tradizione dei padri romani e greci - i principi del diritto e della democrazia, oltreché dei principi fondamentali della persona umana (e quindi delle Costituzioni libere) che sono state adottate anche in molte parti d'Oriente.

Insomma: perché tanta sapienza, tanta profonda consapevolezza non si è tradotta, nel corso di così tanti secoli,  in vita migliore, in principi migliori, in equità, in giustizia, tutto sommato, in felicità condivisa e diffusa ?

Resta per me un mistero.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata 

28/03/14

La fine del mondo secondo Borges.




Amava scherzare (ma neanche troppo) con il concetto del tempo. 

Credeva, con l'amato filosofo Berkeley e con gran parte della fisica moderna, che il tempo fosse solamente una convenzione umana. 

Jorge Luis Borges, in un saggio intitolato Nuova confutazione del Tempo, si dedicò a rivisitare il concetto di tempo nella filosofia classica, da Platone a Schopenhauer, e a dimostrare come, quando parliamo tanto di fine del mondo parliamo di una cosa molto bizzarra e molto relativa. 

Perchè la fine del mondo è legata al tempo e il tempo è una illusione

Borges cita Isaac Newton, che nei suoi Principia (III, 42) dice: Ogni particella di spazio è eterna, ogni indivisibile momento di durata è dappertutto

Poi cita Schopenhauer: La forma dell'apparizione della volontà è solo il presente, né il passato né il futuro; questi ultimi non esistono se non per il concetto e per l'incatenamento della coscienza, sottoposta al principio di ragione. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro. Il tempo è come un cerchio che giri infinitamente.

Concetto che si ritrova nella filosofia orientale a quella occidentale. 

Nella Via della Purezza è scritto: L'uomo di un momento passato ha vissuto, ma non vive nè vivrà; l'uomo di un momento futuro vivrà, ma non ha vissuto nè vive. l'uomo del momento presente vive ma non ha vissuto nè vivrà.

Nel De E Apud Delphos, Plutarco scrive: L'uomo di ieri è morto in quello di oggi, quello di oggi muore in quello di domani. 

Negare la successione temporale, conclude Borges, negare l'io, negare l'universo astronomico sono disperazioni apparenti, ma anche consolazioni segrete

Il tempo, scrive Borges, è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume. E' una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre. E' un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.



Fabrizio Falconi