L'attrezzo è lì. Io ho dodici anni. L'età di mio figlio ora.
La palestra della scuola è immersa nella luce bianco-latte invernale. Ho freddo, i pantaloni corti lasciano scoperte le mie gambe magre e lunghe. Forse non sufficientemente lunghe.
Il maestro ha i modi bruschi. La scuola media è severa. L'hanno intitolata ad Ariosto, gli insegnanti sono quasi tutti vecchio stampo.
Noi siamo tutti in fila, con le nostre magliette bianche e i pantaloni corti azzurri, le scarpe da ginnastica in tela: una lunga fila in attesa.
Oggi è previsto il salto della cavallina.
Bisogna prendere la rincorsa, partire forte, saltare sulla pedana elastica con vigore, poggiare le mani sul dorso di pelle imbottita, e con un balzo solo - cioè senza restarvi sopra, il maestro lo ripete minaccioso - atterrare dall'altra parte, sul morbido tappeto .
Mentre aspetto, succede qualcosa.
L'attrezzo troneggia sinistro in mezzo al grande ambiente vuoto. Lo detesto.
Non ho voglia di misurarmi, non ho voglia di saltare. Anzi, non è che non ho voglia: ho paura.
Chi non ce la fa, chi si schianta sopra l'attrezzo, chi cade di lato, chi fallisce, è ridicolo.
E' una prova di ardimento a bassa intensità. Non è così difficile. Però io ho paura. Vedo snocciolarsi la fila, davanti a me: tutti, uno dopo l'altro, saltano. Tutti, più o meno goffamente, riescono.
La fila si assottiglia e il mio panico cresce.
So che io non ce la farò. So che fallirò una prova così stupida. So che gli altri - i compagni, il maestro - non avranno alcuna comprensione. Né, come è giusto, alcuna pietà.
Sarò deriso, sarò, in qualche modo, finito.
Sono rimasti ormai soltanto due o tre compagni di classe.
Ma io ormai ho le gambe che mi tremano, le mani ghiacce, gli occhi sbarrati. Tocca a me. Non posso sottrarmi, non posso fuggire come vorrei. Come vorrebbe ogni centimetro del mio corpo, ogni angolo del mio spirito.
Tocca a me, prendo la rincorsa, parto. Fallisco, fallirò. Ho fallito.
Fallito.
Ci ho messo una vita a comprendere che la cavallina non aveva vinto. Anche se lei è sempre dentro di me. Il sinistro attrezzo non mi ha mai più abbandonato. Vive con me, abita un recesso ben nascosto e molto vivo del mio mondo interiore.
Ma ora so guardarla da lontano, senza esserne ipnotizzato.
Qualche volta anzi, mi sembra quasi di sapere, di poter comprendere che lei è la parte migliore di me.
Qualche volta anzi, mi sembra quasi di sapere, di poter comprendere che lei è la parte migliore di me.
La parte più vile di te è la fonte della grazia.
Non sono ancora pronto per quel salto. Nessuno è mai pronto, forse. Ma bisogna saltare, in un modo o nell'altro. Atterrare, fallire.
Il meglio che puoi dare è dare te stesso per intero, con tutte le tue parti. Cadrai anche con la tua paura. Dove cadrai, questo è solo un dettaglio.