15/01/14

La sindrome della Cavallina.





L'attrezzo è lì. Io ho dodici anni. L'età di mio figlio ora. 

La palestra della scuola è immersa nella luce bianco-latte invernale. Ho freddo, i pantaloni corti lasciano scoperte le mie gambe magre e lunghe. Forse non sufficientemente lunghe. 

Il maestro ha i modi bruschi. La scuola media è severa. L'hanno intitolata ad Ariosto, gli insegnanti sono quasi tutti vecchio stampo. 

Noi siamo tutti in fila, con le nostre magliette bianche e i pantaloni corti azzurri, le scarpe da ginnastica in tela: una lunga fila in attesa. 

Oggi è previsto il salto della cavallina.  

Bisogna prendere la rincorsa, partire forte, saltare sulla pedana elastica con vigore, poggiare le mani sul dorso di pelle imbottita, e con un balzo solo - cioè senza restarvi sopra, il maestro lo ripete minaccioso - atterrare dall'altra parte, sul morbido tappeto .

Mentre aspetto, succede qualcosa. 

L'attrezzo troneggia sinistro in mezzo al grande ambiente vuoto.  Lo detesto. 

Non ho voglia di misurarmi, non ho voglia di saltare. Anzi, non è che non ho voglia: ho paura.  

Chi non ce la fa, chi si schianta sopra l'attrezzo, chi cade di lato, chi fallisce, è ridicolo. 

E' una prova di ardimento a bassa intensità.  Non è così difficile. Però io ho paura. Vedo snocciolarsi la fila, davanti a me: tutti, uno dopo l'altro, saltano. Tutti, più o meno goffamente, riescono

La fila si assottiglia e il mio panico cresce. 

So che io non ce la farò. So che fallirò una prova così stupida.  So che gli altri - i compagni, il maestro - non avranno alcuna comprensione. Né, come è giusto,  alcuna pietà. 

Sarò deriso, sarò, in qualche modo, finito

Sono rimasti ormai soltanto due o tre compagni di classe. 
Ma io ormai ho le gambe che mi tremano, le mani ghiacce, gli occhi sbarrati. Tocca a me. Non posso sottrarmi, non posso fuggire come vorrei. Come vorrebbe ogni centimetro del mio corpo, ogni angolo del mio spirito. 

Tocca a me, prendo la rincorsa, parto. Fallisco, fallirò. Ho fallito. 

Fallito. 

Ci ho messo una vita a comprendere che la cavallina non aveva vinto.  Anche se lei è sempre dentro di me. Il sinistro attrezzo non mi ha mai più abbandonato. Vive con me, abita un recesso ben nascosto e molto vivo del mio mondo interiore. 

Ma ora so guardarla da lontano, senza esserne ipnotizzato.

Qualche volta anzi, mi sembra quasi di sapere, di poter comprendere che lei è la parte migliore di me.

La parte più vile di te è la fonte della grazia. 

Non sono ancora pronto per quel salto. Nessuno è mai pronto, forse. Ma bisogna saltare, in un modo o nell'altro. Atterrare, fallire. 

Il meglio che puoi dare è dare te stesso per intero, con tutte le tue parti.  Cadrai anche con la tua paura. Dove cadrai, questo è solo un dettaglio. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


14/01/14

La paura di soffrire - Corrado Pensa.







Un ingrediente essenziale di tutti gli stati mentali negativi o difficili sembra essere la paura, cioè la paura di soffrire.

Paura di imbattersi nello spiacevole, paura di perdere il piacevole.

Spesso noi assomigliamo a una persona che si è barricata in casa e che impiega tutta la propria energia a cercare di impedire che un gruppo di suoi prigionieri (cose piacevoli) possa fuggire e, contemporaneamente a tentare di impedire l'entrata in casa a visitatori ostili (cose spiacevoli).

E malgrado il fatto  che i prigionieri continuano a evadere e che i visitatori continuano a fare irruzione, noi non rinunciamo al nostro vano tentativo e non ci rendiamo conto che, in realtà, c'è un solo vero prigioniero e siamo noi.

Non comprendiamo, cioè, che la nostra paura di soffrire è una fonte primaria di sofferenza, poiché essa o crea sofferenza, oppure intensifica notevolmente la sofferenza obiettiva.

Ora, aprirsi gradualmente allo spiacevole in noi e fuori di noi, e, più sottile e importante ancora, aprirsi alla vasta, potente e paralizzante paura che intride letteralmente ogni minuto di così tante vite, sembra essere una caratteristica cruciale del corretto lavoro interiore.


tratto da Corrado Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini editore, Roma, 1994, pag. 14.

illustrazione in testa: the goldfinch (il cardellino), Carel Fabritius, 1654.



13/01/14

Libri: Nasce UTET - Extra - Nuova collana diretta da Emanuele Trevi.



Nasce UTET extra, una nuova collana a cura di Emanuele Trevi che attinge al patrimonio dei ClassiciUtet per proporre percorsi inusuali tra antico e moderno, curiosita' e perle della letteratura di ogni tempo. 

Brevi e preziosi i libri sono selezionati con l'idea che, "a volte, leggere poco sia il modo migliore per leggere bene" spiega la nota editoriale. 

Ad inaugurare la collana "Lucrezio, La natura dell'amore", con un racconto di Marcel Schwob; Antony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury, "Lettera sull'entusiasmo" e Carlo Collodi con "Pipi' o lo scimmiottino color rosa". 

I tre titoli di meno di 100 pagine ciascuno, 96 per la precisione, sono in vendita a 5,00 euro, ebook compreso, fino al 30 giugno.

12/01/14

La poesia della Domenica - 'australe' di Fabrizio Falconi.









australe




nobile e austero
il frutto caduto del pensiero
marcisce
nel tramonto futuribile
di molti uomini
sulla stessa nave incagliata
in qualche bassifondo
australe, dimenticando
i porti dell’origine
le ambizioni d’avventura
le dame lasciate a macerare
i loro amori naviganti:
resta un pallido eterno
pomeriggio senza vento
riflesso sulla stiva scricchiolante
dal triste sciabordio. 





Fabrizio Falconi ©  ( inedito ) - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

11/01/14

Perdono e assoluzione non sono la stessa cosa.




C'è una ragione anche quando si sbaglia.  Ma puoi sapere che hai sbagliato solo se riconosci dentro di te l'errore. 

Ogni crescita umana si basa sul perdono.  Quando riconosci l'errore non l'hai ancora riconosciuto veramente come tale: lo riconoscerai soltanto quando qualcuno potrà perdonarti.  Avrai bisogno di quel perdono e potrai averlo se troverai qualcuno generoso, disposto ad accogliere il tuo errore e il tuo sbaglio. 

Dopo che sarai stato perdonato dall'esterno, dovrai perdonarti tu.  E sarà un lavoro molto più lungo, che potrà durare anche per l'intera tua vita. 

Per questo perdonare (e ancora di più perdonar-si) è così difficile. 

Ma il perdono è l'unica cosa che permette di ri-conoscere l'errore o lo sbaglio (è in termini psico-analitici l'attraversamento dell'Ombra, che unicamente, permette il processo di individuazione del Sé). 

Altra cosa è la pratica, diffusissima, della assoluzione. L'assoluzione non costa nulla. L'assoluzione è un colpo di spugna: nulla è mai successo, il fatto non sussiste. 

Per questo è così facile auto-assolversi. Ti dai la benedizione e ti dici che tutto il mondo sbaglia e dunque è perfettamente legittimo che anche tu sbagli.  Anzi, lo sbaglio nemmeno esiste perché tutti sbagliano. E lo sbaglio dunque, dov'è ?

L'assoluzione è la nostra scolorina dell'anima. L'uomo lo fa dai tempi del Neolitico.  Per vivere e sopravvivere deve costruir-si per forza una quantità di inganni, raccontarsi parecchie frottole alle quali far finta di credere, ogni giorno.

E per questo scopo, l'auto-assoluzione è fondamentale.   Si evitano le verità che si incontrano dentro se stessi, si tengono al sicuro, sotto chiave.   

Le verità, poi, prima o poi si impongono. Le verità sono evidenti, eclatanti, vogliono sempre venir fuori.  Ma si può sempre far finta di niente, anche quando la vita sta per finire. Darsi l'assoluzione, cancellare tutto.  

"I'm imperfect guy in imperfect world," ha twettato pochi giorni fa Lance Armstrong dopo aver ucciso per anni e anni la verità, lo sport, la dignità sua e dei colleghi, aver mentito al mondo intero nel più cinico dei modi.

Il mondo è imperfetto e nessuno mi perdonerà. E anche se dovesse perdonarmi, faccio prima io a darmi l'assoluzione. E buonanotte.

Un mondo di non-perdonati e di in-consapevoli, felici di esserlo.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





10/01/14

Un luogo meraviglioso: La piazza dei Cavalieri di Malta all'Aventino, a Roma e il genio di Piranesi.




La Piazza dei Cavalieri di Malta, sull’Aventino, a Roma. 


C’è un luogo a Roma che rappresenta una tappa fissa nei percorsi turistici per spiriti romantici e si trova sul colle dell’Aventino, in posizione defilata rispetto al circuito tradizionale dei grandi monumenti del centro storico.

E’ il celebre buco della serratura – così viene chiamato familiarmente dai romani – nella Piazza dei Cavalieri di Malta: si tratta del foro sul portone della Villa, che consente di inquadrare, come attraverso la lente di un cannocchiale, in una prospettiva perfetta incorniciata dai cosiddetti giardini del Priorato, il Cupolone di San Pietro. Grazie alla fuga del viale e alla particolare illusione ottica che se ne ricava, la Basilica infatti appare magicamente più vicina di quel che sembrerebbe.

E’ un rituale al quale si sottopongono volentieri i molti turisti che ogni giorno salgono l’antica Via di Santa Sabina, alla scoperta di quello che sin dall’antichità viene chiamato il grande Aventino - il colle compreso tra le pendici sud del Circo Massimo, la riva sinistra del Tevere e la valle attraversata attualmente da Viale Aventino – per distinguerlo dal piccolo, identificabile dall’attuale quartiere di San Saba. Oltrepassati così lo splendido Giardino degli Aranci e le chiese di Santa Sabina e di Sant’Alessio, si giunge così sulla sommità del colle, teatro di molti e importanti eventi nella storia di Roma antica, scoprendo la quiete apparentemente surreale della Piazza dei Cavalieri di Malta, recintata verso sud dal muro di cinta della chiesa e dal monastero di Sant’Anselmo, e a nord dal perimetro murario della Villa dei Cavalieri di Malta, che comprende al suo interno la Chiesa del Priorato, di cui ci occuperemo tra breve.

La Piazza dei Cavalieri di Malta, vero gioiello architettonico partorito dal genio di Giovan Battista Piranesi nel 1765, ha suscitato e suscita da sempre interessi esoterici per diversi motivi, per la sua forma, per i simboli che ospita al suo interno e per la vicinanza con gli edifici che abbiamo appena nominato. In effetti, a ben guardare, la Piazza sembra essere uscita proprio da una delle fantasie grafiche del grande Piranesi, il geniale architetto, inventore di quel rovinismo capace di restituire vita ai fasti della storia romana attraverso l’utilizzo di simboli classici, come gli obelischi, i triangoli, le piramidi, le sfere reinterpretandoli con gusto moderno in centinaia e centinaia di incisioni, disegni, acqueforti.



Ma assai prima del Piranesi, e del progetto della piazza settecentesca, questo luogo era già stato segnato dalla presenza inconfondibile dell’Ordine dei Cavalieri Templari. Il complesso che si vede oggi, infatti, sorto nell’anno 939 d.C. come monastero benedettino (fu importantissimo e fu retto da Oddone di Cluny) passò a metà del 1100 d.C. di proprietà dei Templari. Allo scioglimento, cruento in Francia e poi in Italia, dell’Ordine, nel 1312 tutti gli edifici passarono poi ai Cavalieri Gerosolimitani – i Cavalieri di Malta – che alla fine del XIV secolo vi posero il loro priorato. Per comprendere la simbologia della Piazza disegnata dal Piranesi su incarico del Cardinale Carlo Rezzonico che divenuto Gran Maestro dell’Ordine nel 1764 gli affidò i lavori, dobbiamo innanzitutto risalire alle origini del Colle, che per molto tempo rimase al di fuori del tracciato cittadino delle mura romane, collegato al Foro Boario da una sola via d’accesso che era il Clivus Publicius, la più antica strada lastricata, costruita nel 240 a.C. e che corrisponde grosso modo all’attuale percorso di Via di Santa Prisca.

Questa zona, proprio per la sua posizione defilata, fuori dal Pomerio – cioè dal vero e proprio recinto cittadino - a partire dall’età regia fu scelta dapprima come sede dei culti di divinità straniere, come testimonia ad esempio il santuario intitolato a Giove Dolicheno, che sorgeva nell’attuale area di via di San Domenico. 

Luogo di santuari dunque e di mitrei – nella zona ce ne sono di belli e importanti, basti pensare a quello riportato recentemente agli antichi fasti, alle Terme di Caracalla, quello del Circo Massimo, a fianco della chiesa di Santa Maria in Cosmedin e quello di Santa Prisca, ancora ottimamente conservato – la cui costruzione era dovuta, oltre che alla collocazione dell’Aventino, anche al fatto che in questa zona - prima che in età imperiale divenisse un quartiere residenziale - erano soliti accamparsi gli eserciti, prima della partenza o al ritorno dalle continue missioni belliche e il culto di mitra era particolarmente diffuso tra i milites romani.

tratto da Monumenti esoterici d'Italia .


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





09/01/14

Emanuele Trevi: lo strano incontro del dott. Stevenson e di Mr. Hyde.


Sullo scorso numero di 'Sette', un bellissimo articolo di Emanuele Trevi racconta l'incredibile vicenda - poco conosciuta - dell'incontro di Robert Louis Stevenson avvenuto nel 1864 (tre anni dopo aver scritto Lo strano caso del Dr. Jeckill e Mr. Hyde), dopo lo sbarco dello scrittore nell'atollo hawaiano di Mokokai, con un pastore protestante che si chiamava di cognome proprio Hyde, e che manifestò strane, sorprendenti assonanze con la malvagità del personaggio immaginato da Stevenson, macchiandosi di una infamante operazione di linciaggio del povero Padre Damiano, missionario cattolico che assitette eroicamente i lebbrosi dell'isola per più di un ventennio. 
La vicenda è ricostruita da Trevi con piglio decisamente letterario (come si conviene all'autore) e merita di essere letta d'un fiato.  La versione on line è tuttora indisponibile. Pubblico le immagini dell'articolo pubblicato da Sette-Il corriere della Sera che si possono apprezzare a piena pagina, leggere e stampare qui, cioè sul sito delle Edizioni Medusa, che hanno pubblicato il libro La difesa di Padre Damiano, di Stevenson, in edizione italiana.  




08/01/14

'L'infanzia di Gesù' di J.M. Coetzee - un libro misterioso e pieno di domande.






Coetzee  ha scritto il suo libro più misterioso. 

L'infanzia di Gesù è sin dal suo approccio - il titolo, che sembra più adatto (e lo è) ad un testo di teologia - sin da suo incipit, spiazzante. 

Di cosa vuole parlarci stavolta ? Che tipo di storia è questa ? 

Si intuisce dalle prime pagine che con il Gesù evangelico, con la storia tramandata, questo romanzo sembra non avere proprio nulla a che fare (ma nutriremo molti dubbi in proposito, andando avanti con la lettura). Il vecchio  (ma scopriremo poi che non è affatto vecchio, ha solo quarantacinque anni) Sìmon, approda, dopo un viaggio in nave (proveniente da dove ? Da quale terra? Da quale vita?) sulle sponde di un continente o di un paese chiamato Novilla, dove tutti parlano spagnolo e tutti sembrano ragionevoli e cordiali (a loro modo accoglienti): una società super-strutturata, su un modello che fa pensare ad  un socialismo effettivo (anche se non si intravvedono vertici totalitari) comunitario: molta burocrazia, centri di smistamento, di istruzione, di assegnazione degli alloggi, perfino il lavoro è strutturato come un'opera astratta, limitata all'uso corrente, senza apparenti fini, senza motivazioni che non siano quelli del puro presente. 

In questo modo apparentemente sereno ma allo stesso modo sottilmente inquietante, i sentimenti e le passioni paiono bandite.  Fanno parte della vita precedente, di quella che gli attuali abitatori di Novilla hanno lasciato alle spalle quando sono sbarcati sulle rive della nuova terra, chi prima chi dopo. 

Sìmon arriva a Novilla in compagnia di un bambino di cinque anni, che alla frontiera hanno battezzato David. Il figlio però non è suo (di chi è figlio ? Perché era da solo ? Da dove viene?). Si sono incontrati sulla nave - ma nulla ci viene riferito di questo incontro - e lui, Sìmon ritiene di dover svolgere il compito di trovare la madre di David, che deve essere da qualche parte a Novilla e che lui troverà non attraverso una ricerca metodica, analitica, ma sentendo che quella è la madre, quando la incontrerà, quando se la troverà di fronte.

La madre viene trovata: Sìmon la identifica in Inès, una tennista elegante che vive nella Residencia (una specie di quartiere residenziale riservato a pochi?) insieme a due scorbutici fratelli e a un cane altrettanto scorbutico. 

Sìmon, sentendo di aver esaurito il suo compito, lascia il bambino dalla madre. Salvo scoprire subito che non può fare a meno di lui. David è un bambino eccezionale. Sembra disporre di poteri e di percezioni particolari.  E' refrattario ad ogni forma di educazione tradizionale, tanto meno quella impartita a Novilla. Non ne vuol sapere. Tempesta Sìmon di domande filosofiche.  

Nelle ultime pagine del libro si cementa un legame tra Inès - che difende strenuamente il bambino e si oppone fieramente ad ogni tentativo dell'autorità di trasferirlo nel temibile centro di Punta Arenas, destinato ai ragazzi disadattati -  e Sìmon.  I tre - una famiglia davvero sui generis - si mettono in viaggio (ed è ovvio che qui il pensiero, come in altri punti del libro, vada alla suggestione del racconto evangelico) per sfuggire alla cattura, insieme al cane, nella vecchia vettura di uno dei due fratelli della donna.  David cercherà di convincere le persone che incontra a seguirli, in una strana e personalissima sequela

Più propriamente il romanzo di Coetzee è - come ha fatto notare Joyce Carol Oates - un'opera che si interroga sul Senso.  Senso con la maiuscola. Quello che sembra essere scomparso dall'orizzonte del mondo contemporaneo. 

Nessun vento è favorevole al marinaio che non sa dove andare, scriveva Seneca. E sembra essere diventato il paradigma del mondo che abitiamo.  Anche Novilla è un po' così: tutto è perfettamente organizzato, tutto ha uno scopo pratico - che sembra principalmente quello di eliminare la sofferenza e ogni tipo di turbamento - ma un senso vero non c'è. E infatti non c'è nessuna vera gioia, nessuna vera felicità. 

David è l'elemento dissonante.  Il bambino parla un linguaggio diverso, è - come direbbe il filosofo Marco Guzzi - l'emblema del Nascente, di quello che di nuovo sta germogliando, e che non è ancora compreso e non può essere compreso. 

David non  fa altro che fare domande. Ciò che il nostro mondo - e Novilla, ovviamente - non vuole e non sa più tollerare. 

David non ubbidisce.  David vede cose che non si vedono, afferma cose che non si possono dimostrare, cambia continuamente le prospettive logiche, chiede continuamente dove esista quel punto dove si può cadere. 

La forza del bambino, come la sua provenienza, è misteriosa. 

Quel che è certo è che egli non ha né padre, né madre. E' del tutto nuovo. Può avere soltanto qualcuno che si occupi di lui, che si prenda cura di lui.

Coetzee sembra arrivato al punto di considerare con stanchezza i mali (denunciati) del mondo, le ingiustizie, le cose sulle quali si gira intorno da sempre.  Quel che sappiamo della natura e del cuore nero dell'uomo e che la letteratura ha indagato in ogni modo (e lui stesso, basti pensare a Vergogna). 

Forse è giunto il momento di volgere lo sguardo ad altro.  A quel punto di universo - orizzontale e verticale - dove serve una vista diversa, come aveva intuito il collega Nobel José Saramago in un altro romanzo, straordinario come questo (e per atmosfere abbastanza consimile),  Cecità. 
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 



07/01/14

Perdere il compagno di una vita, l'elaborazione del lutto secondo Oates e Barnes.



Julian Barnes 


Esistono vari livelli in cui uno si trova a vivere, nota l'inglese Julian Barnes, che racconta prima di chi cercava nell'Ottocento di alzarsi da terra con precarie mongolfiere, poi di come lui, morta sua moglie, la compagna di oltre 30 anni, sia invece sprofondato sotto terra. Il racconto di una lunga caduta nell'abisso del dolore e' anche quello autobiografico di Joyce Oates, una delle piu' prolifiche e importanti scrittrici americane, che ha scritto il proprio diario a seguito della morte, dopo 48 anni di vita in comune, del marito. 

Due libri sull'elaborazione del lutto, ma molto diversi. Barnes, l'acclamato autore di "Il senso di una fine", ricorda che una mongolfiera poteva, per qualsiasi minimo imprevisto, precipitare a terra sino a conficcarsi nel terreno e cosi' capita a chi arriva improvvisa una disgrazia e si trova costretto a affrontarla in un'epoca in cui non e' piu' possibile, come Orfeo, scendere agli inferi per riportare indietro la propria Euridice, tanto piu' che poi e' praticamente impossibile resistere a non guardarla, quando la si sente di nuovo viva e parlare alle proprie spalle. 

Perche' Barnes Oscilla tra il dirsi che la morte fa parte del meccanismo naturale dell'universo e il bisogno di continuare la propria conversazione interrotta con Pat, giungendo per gradi, per sofferenza ("i dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente, matematicamente tristi"), per necessita' a capire che "il fatto che una persona sia morta puo' voler dire che non e' viva, ma non che non esiste". 



                                                                     Joyce Carol Oates 


Un libro intenso, mai retorico, un'elaborazione anche letteraria, sapendo come sempre che la scrittura e' terapeutica, nel cercar di ritrovare un senso dell'essere, con emotivita' ma senza sbavature, recuperando con stile cio' che e' stato e che non puo' andare perduto.

Scrittura terapeutica e' certo anche quella della Oates, che del resto ci propone un racconto di 600 pagine (cinque volte il libro di Barnes) che e' sostanzialmente diario minuzioso della propria disperazione, sino al pensiero non occasionale del suicidio, dopo aver reso conto dell'ultimissimo periodo con Ray, della sua malattia improvvisa, una polmonite, che improvvisamente si aggrava proprio quando sembrava ormai risolversi, tanto che la scrittrice era tornata a casa dall'ospedale e era riuscita a addormentarsi. 

fonte: ANSA/ Libro del giorno: Oates e Barnes, elaborazione di lutti Due racconti diversi di chi ha perso il compagno/a di una vita (di Paolo Petroni) (ANSA)

06/01/14

Essere vivi (Michael Hookman).




E' una percezione che seppelliamo ogni giorno sotto macigni di inutilità.  Le cose mondane, la vita con le sue necessità e bisogni, con i suoi desideri autentici e inautentici ci fa continuamente perdere di vista questo.



Quando vi svegliate allo spazio e alla chiarezza naturale del vostro essere, allora acquistate fiducia e riuscite a lasciar andare il vostro senso dell'io e la vostra idea di aver bisogno di controllare tutto.

Sentiamo quanto sia giusto questo rilasciamento e la mente si riposa in esso. Impariamo a lasciar andare questa impressione costante che "c'è qualcosa che non va." E anzi proviamo una gioia nuova ad essere una persona sulla via del risveglio. 

Non ci sono grandi problemi. Ma poiché abbiamo una tendenza così forte a pensare che il solo fatto di vivere sia in qualche modo un problema, è bene protendersi deliberatamente nella direzione opposta; e, allorché pratichiamo, collegarci intenzionalmente a un sentimento di gloria e meraviglia per il fatto di essere vivi. 


05/01/14

La poesia della Domenica - 'Due sogni' di Gottfried Benn.




Due sogni

Due sogni. Il primo chiedeva,
come è ora il tuo viso:
è ciò che il tuo labbro diceva,
o che singhiozzando fu osato
all'imbrunire della luce ?

Più chiaro il secondo ti vide:
una rosa o un trifoglio
tenero, dolce, - un mirabile
primigenio custode di mondi
delle marine forme di conchiglia.

Dovrà ancora un terzo venire ?
Grave questo sarebbe di pena:
sogno della conchiglia albeggiato,
dai flutti rapita conchiglia,
via, verso un altro mare.


Gottfried Benn, Zwei Traume, da Aprèslude, traduz. di Ferruccio Masini, Einaudi, 1966, pag. 53.

Originale

04/01/14

L'amore è il togliersi dalla Distanza. (Emilio Tadini).




Mi ricapita tra le mani un bellissimo libro di Emilio Tadini (un grande di cui nessuno parla più in Italia),  La distanza, pubblicato da Einaudi nel 1998 e vi ritrovo questa folgorante pagina.


In ogni abbraccio, per un attimo, ogni distanza si toglie. E' come se per un attimo, si togliesse la Distanza.

L'amore, comunque, è immaginare - sognare - il togliersi della Distanza.  E' immaginare - sognare - di perderci. Non nell'altro, ma con l'altro: in qualche totalità.

Soltanto perdendoci nell'atto d'amore ci sembra che potremo sperare nella ricomposizione di una totalità. Al di là di ogni separazione. Al di là di ogni distanza. Liberati dalla distanza. Scampati dalla distanza.

Forse, nel profondo, magari per un attimo, neanche il più osceno padrone-nato abbraccia soltanto per possedere.

E' per questo che il desiderio primario è nostalgia - e cioè dolore per una lontananza ? Nostalgia di una nostra, privata Età dell'Oro...

Emilio Tadini, La distanza, Einaudi 1998, pag. 58 e 39.

03/01/14

La rinascita di Etty Hillesum - di Giorgio Montefoschi.




La rinascita di Etty Hillesum

La maggior parte delle Lettere che Etty Hillesum scrisse dal lager di Westerbork, pubblicate oggi da Adelphi in edizione integrale (traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, pp. 269, e 22), sono del 1943 e praticamente cominciano quando smette di scrivere il suo lungo Diario, pubblicato anch’esso da Adelphi. 

In entrambi i casi — il Diario e le Lettere — quello che colpisce chi si avvicina a questi due testi sconvolgenti, rivelatori di una delle grandi anime del Novecento, è l’estrema velocità dei due mutamenti spirituali che segnano la breve vita di Etty Hillesum. 

Una velocità che, insieme all’incalzare drammatico della storia, mostra l’intervento della mano divina. Nel Diario , scritto dal 1941 al 1943, la Hillesum — nata un secolo fa nel gennaio 1914, figlia di un professore di scuola ebreo e di una ebrea russa malata di nervi e dotata di un pessimo carattere, sorella di due fratelli a loro volta fragili e instabili — è la tipica ragazza borghese irrisolta, preda delle sue inquietudini sentimentali, animata da un desiderio tanto nobile quanto confuso di elevarsi. Avendo cattivi rapporti con i genitori, vive in casa di un uomo molto più vecchio di lei, Hendrik Wegerif (Etty lo chiama Pa Han), un ex contabile di cui è l’amante. 

Va in bicicletta lungo i canali dell’incredibile Amsterdam ancora «quieta», benché sull’orlo della catastrofe del 1940; divora i libri (da Dostoevskij a Jung, da Rilke alla Bibbia); ma è confusa, e dentro se stessa sente come di avere una sorgente impedita, una sorgente che non riesce a zampillare. 

In una pagina del Diario può scrivere: «A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza dei secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia sui campi di grano». 

E poche righe più in là: «Le mie idee pendono dal mio corpo come vestiti troppo larghi nei quali devo crescere... Idee vaghe di ogni tipo reclamano ogni tanto una espressione concreta». 

Nella buona sostanza, sa e capisce che l’unico e vero compito della sua vita è quello di portare ordine e armonia nel caos che regna nel suo cuore. Intanto, ha conosciuto un uomo che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione spirituale. 

Costui è uno psicochirologo ebreo tedesco allievo di Jung, Julius Spier — anch’egli più anziano di lei di oltre venti anni —, che ha lasciato la famiglia per riparare in Olanda. Spier, che ad Amsterdam ha raggiunto una certa fama, studia la mano e sottopone i suoi pazienti a una bizzarra terapia: vale a dire, la lotta. Il medico e il paziente si avvinghiano, combattono, si rotolano per terra, in modo che le forze oscure della psiche nascoste nel nostro corpo possano sciogliersi, liberarsi e armonizzarsi con quelle del corpo. 

Etty è presto attratta da quest’uomo che, oltre alla lotta fisica, le propone letture e argomenti di meditazione profondi, così come Spier è attratto da lei. E non ha molta importanza il fatto che fra i due si stabilisca una relazione sentimentale. Spier è una vera e pietra imprescindibile nel percorso di Etty. Dio pone molte pietre lungo il nostro cammino. A volte, queste pietre sono inciampi, ostacoli che possiamo superare (e il Salmo ci dice che, se glielo chiediamo, Dio ordina ai suoi angeli di sostenerci in modo che possiamo evitarli). 

A volte sono messe lì, proprio dentro noi stessi, per far sì che le riconosciamo come parte di noi stessi, come una nostra pietra che blocca una nostra sorgente, e in uno sforzo sovrumano le solleviamo, lasciando zampillare la sorgente. È quanto accade, miracolosamente, a Etty Hillesum: che un giorno cade in ginocchio e si colma dell’amore di Dio. 

Ora, però, la situazione per gli ebrei olandesi e di tutta Europa sta precipitando. Etty, benché malatissima, si fa internare nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale uscirà per andare a morire ad Auschwitz. 

Questo è il secondo definitivo gradino della sua elevazione: corrispondente al suo sacrificio. Etty sa che l’amore per Dio e per il prossimo rimane lettera vuota, se non si fa carne. 

Le Lettere dal campo di Westerbork non sono soltanto la testimonianza dell’orrore e dell’abisso che l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare di raggiungere. Sono la più pura testimonianza dell’agape cristiana. La condivisione del dolore.   

02/01/14

Kintsugi: il dolore è oro, perché ti insegna e ti dice che sei vivo.




Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. 

Questa tecnica è chiamata Kintsugi. Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente. 

E la differenza è tutta qui: occultare l'integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione? 

Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le crepe. "Spaccatura, frattura, ferita" sono percepiti come l'effetto meccanicistico di una colpa, perché il pensiero digitale ci ha addestrati a percorrere sempre e solo una delle biforcazioni: o è intatto, o è rotto. Se è rotto, è colpa di qualcuno. 

Il pensiero analogico -arcaico, mitico, simbolico- invece, rifiuta le dicotomie e ci riporta alla compresenza degli opposti, che smettono di essere tali nel continuo osmotico fluire della vita. 

La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed eterna. 

Rendere belle e preziose le "persone" che hanno sofferto......questa tecnica si chiama "amore". Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco.

Il dolore fa due cose: Ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. 

In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro.

I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l'hanno capito più di sei secoli fa - e ce lo ricordano sottolineandolo con l'oro.

01/01/14

Il senso e la poesia. Intervista a Susan Stewart di Roberto Mussapi (Avvenire).



Stewart, versi come atti di fede 

Susan Stewart, nata nel 1952 in Pennsylvania, vive tra Filadelfia e a Princeton. Poeta, critico e traduttore, si occupa anche di critica d’arte. Le sono stati conferiti prestigiosi premi come l’Academy Award per la letteratura. Docente di discipline umanistiche, dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts alla Princeton University. Conosce e frequenta l’Italia. Ha spesso collaborato con artisti italiani, tra cui Sandro Chia. In Italia ha pubblicato due libri, Columbarium e altre poesie, (Ares 2006) e Red Rover, (Jaca Book 2011), a cura di Maria Cristina Biggio.

Nel Paese di tre grandi maestri del Novecento, gli americani Eliot, Pound e Hart Crane, vediamo con Susan Stewart un filo di continuità con la tradizione forte della poesia, la sua linea incandescente. Anche se, nello specifico, il suo maestro americano riconosciuto è Wallace Stevens, e nel passato la tradizione dei metafisici inglesi del Seicento, una magistrale scuola poetica dove prende forma quello che Eliot, teorizzandolo e battezzandolo, definirà sensuous thought, pensiero percepibile dai sensi. Altezza esplorativa ma concretezza massima dell’espressione. Questa arditezza d’impresa, necessaria alla poesia, tende a venir meno nella prevalente produzione poetica dei poeti statunitensi della seconda metà del secolo appena trascorso, che vede dominare un diffuso minimalismo e spesso un formalismo linguistico fine a se stesso. Non mancano le eccezioni, grazie a Dio, e quella di Susan Stewart è un’eccezione forte, una voce composita e sonante, densa di senso metafisico, immersa nell’osservazione anche microscopica del mondo ma con una prospettiva lucidamente visionaria, trasfigurante. Una visionarietà fredda e catturante, che mette in scena il ruolo conoscitivo della poesia ai suoi livelli più intensi.

Lo sguardo del poeta è capace di ampie visioni storiche e di una critica del potere, dall’impero romano agli Stati Uniti, guardando la realtà dal punto di vista degli umili, della stessa sostanza, potremmo dire, delle "foglie d’erba" di Whitman o della zolla calpestata dalle mandrie in cui William Blake vede l’umiltà eroica della poesia. In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente.

Io parto da una premessa, da poeta. La poesia non è un optional. Ma una necessità. Shelley distingueva tra "poetry", la poesia in assoluto come dimensione, bisogno e mancanza dell’uomo, di ogni uomo, cosciente o inconsapevole, e "poem", la singola opera poetica, il risultato perfetto , opera del poeta, che risponde a tale esigenza. L’opera rispetto a quella che, condivido con Shelley, è una necessità. Anche per lei la poesia è necessaria?
«La poesia è lo strumento di pensiero più bello e capace di cui disponiamo. La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

31/12/13

Credere di essere speciali - (J.M.Coetzee)




- E' il modo in cui sono fatti gli esseri umani: io e te e Alvaro e il senor Daga e tutti gli altri.  Il modo in cui veniamo al mondo quando nasciamo. E' quello che tutti abbiamo in comune.

Ci piace credere di essere speciali, ragazzo mio, a tutti piace.  

Ma in senso stretto non può essere così: se fossimo tutti speciali, non ci sarebbe più niente di speciale. E però continuiamo a credere in noi stessi. Scendiamo giù nella stiva della nave, nel caldo e nella polvere, solleviamo i sacchi e ce li mettiamo sulle spalle per poi trascinarli su alla luce, vediamo i nostri amici faticare come noi, fare esattamente le stesse cose.

Non c'è niente di speciale in tutto questo e andiamo fieri di loro e di noi stessi, noi compagni tutti a sgobbare insieme per un obiettivo comune; eppure in un angoletto del nostro cuore che teniamo nascosto sussurriamo a noi stessi:  "E nondimeno, nondimeno, tu sei speciale,  vedrai ! Un giorno quando meno ce lo aspettiamo, un gran fragore risuonerà sopra il fischio di Alvaro e saremo chiamati tutti a raccolta sulla banchina, dove in attesa ci sarà una grande folla e un uomo col vestito nero e il cappello a cilindro; e quell'uomo col vestito nero ti inviterà a fare un passo in avanti, dicendo: "Guardate questo operaio speciale, di cui tutti ci rallegriamo!"  E ti stringerà la mano e ti appunterà sul petto una medaglia - con su scritto "Onore al merito" - e tutti ti acclameranno battendo le mani."

- E' tipico della natura umana fare sogni, anche se sarebbe saggio tenerseli per sè.







29/12/13

Poesia della domenica - Il nostro amore è come Bisanzio di Henrik Nordbrandt.



Il nostro amore è come Bisanzio. 


Il nostro amore è come Bisanzio
deve essere stata
l’ultima sera. Deve esserci stato
immagino
un alone sui volti
di chi si affollava nelle vie
o sostava in piccoli gruppi
agli angoli delle strade e nelle piazze
e parlava a bassa voce
un alone che doveva ricordare quello che ha il tuo volto
quando ne scosti i capelli
e mi guardi.

Immagino che non parlassero
molto, e di cose
piuttosto differenti,
che cercassero di parlare
e si interrompessero
senza aver detto quanto volevano
e cercassero ancora
e rinunciassero ancora
e si guardassero
e abbassassero gli occhi.

Le antichissime icone per esempio
hanno in sé quell’alone
come il bagliore di una città in fiamme
o l’alone che la morte imminente
trasmette alle foto dei morti precoci
nella memoria dei superstiti.

Quando mi volto verso di te
nel letto, ho la sensazione
di entrare in una chiesa
distrutta dalle fiamme
molto tempo fa
in cui solo il buio negli occhi delle icone
è rimasto
piene delle fiamme che le hanno cancellate.


Henrik Nordbrandt, da Il nostro amore è come Bisanzio, a cura di Bruno Berni, Donzelli, 2000.

28/12/13

La differenza tra un cuore inquieto e l'Hallelujah.




La differenza è tra le mille cose che spingono e quella - l'unica - che rimane. La differenza è nel conto delle cose e nella valutazione delle mancanze.

La differenza è nei gesti che contano e nelle parole che non si dicono. La differenza è nel punto del centro dove non arrivi.

La differenza è nelle questioni inadatte, nelle troppe informazioni e nella quiete ipnotica, abissale di un senso che nemmeno tu conosci.

La differenza è nelle notti che non dormi e nei giorni che non vivi.  La differenza è nella metà e nell'uno. La differenza è nel Re confuso che fu capace di comporre l'Hallelujah.







Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.