19/11/25

COM'E' SPARITA L'ELEGANZA - Requiem per una virtù leggendaria

 


COM'E' SPARITA L'ELEGANZA

Requiem di una virtù leggendaria

di Fabrizio Falconi

Chi vive a Roma è abituato all’eleganza. Assuefatto, direi. L’eleganza dei palazzi, delle rovine, delle chiome dei pini romani, delle fontane, del profilo perfetto delle cupole.

Eppure, questa eleganza data, nemmeno quasi si nota più, perché nessuno più sembra fare caso all’eleganza.

Insomma, basta vedere come ci si veste. Non è una questione di censo o di ricchezza: si vestono malissimo anche i ricchi, che possono ormai acquistare il mondo.

Cose sgargianti sì, lussuose sì, esibite sì, ma l’eleganza?

L’eleganza è una qualità rara. La parola deriva dall’orginale latino elegantia. Come molte altre di quel popolo illuminato, ha avuto grande successo nel mondo (elegance in inglese, élégance in francese, eleganz in tedesco) e nasce da un colpo di genio: mettere insieme il prefisso ex e il verbo eligere, cioè scegliere. Quindi ex-eligere si definisce chi-sceglie tra, ovvero scegliere tra cose diverse. Elegante è colui che sa scegliere. Eleganza è la qualità di chi sa scegliere.

Ecco appunto, ma oggi chi sa scegliere?

Paul Thomas Anderson, uno dei migliori registi contemporanei, qualche anno fa ha dedicato un bellissimo film all’eleganza, chiamato in Italia, Il Filo Nascosto (quando sarebbe stato meglio lasciare la traduzione esatta cioè Il Filo Fantasma, The Phantom Thread, 2017), erroneamente scambiato da molti come un’opera che ha per oggetto il disturbo ossessivo-compulsivo.

Ma The Phantom Thread (bellissime musiche di Jonny Greenwood, il talento dei Radiohead) non parla di questo. Il fatto che il sarto protagonista - cui dà anima Daniel Day Lewis - sia un perfezionista maniacale, è soltanto la conseguenza del fatto che egli è un creatore di eleganza.

Chi nella vita si dedica alla ricerca dell’eleganza è come un rabdomante a caccia di pozzi d’acqua, invisibili, dentro le profondità della terra. Sì, perché l’eleganza nessuno sa dire cosa sia. E quale sia la ricetta per ottenerla. L’eleganza è una idea platoniana, che vive nell’iperuranio: che tutti riconoscono (o almeno riconoscevano) e che nessuno sa dove sia esattamente.

La natura ne è piena: quando osserviamo il profilo e i colori di un fenicottero, il suo collo oblungo che forma una perfetta lettera S, noi sappiamo che quella è l’eleganza, anche se non sapremmo dire perché.

Così Reynolds Woodcock, il sarto di The Phantom Tread, è un cacciatore di invisibile. Lui sa, ma non può spiegare, che una impuntura spostata di qualche millimetro, fa svanire l’eleganza, rovina tutto.

Per questo deve procedere cautamente, per tentativi, per ritocchi apparentemente inutili e arbitrari. Lui sa.

Posso comprenderlo, perché mia madre era una sarta d’alta moda. E ho molti vividi ricordi in proposito.

La clientela di mia madre era formata da signore e signorine (termine che comprendeva anche sessantenni o settantenni nubili) di solito benestanti, che tenevano al vestire e volevano sempre essere come si dice, eleganti à la page.

A tale scopo mia madre spendeva un capitale per acquistare i famosi figurini, libroni fotografici di Vogue e altre riviste francesi con i modelli alla moda indossati da ragazze che non erano anoressiche come quelle d’oggi.

Le signore o signorine venivano nel nostro salotto buono, sfogliavano, sceglievano (ex-eligere) sulla base di quella stessa ricerca, il modello e mia madre glielo faceva su misura, tale e quale (comprensivo di disegno, taglio, cuciture e guarnizioni).

Poi, dopo un mese o due (a meno di casi di urgenza), arrivava il momento della consegna. Il pacco veniva confezionato con molta cura, utilizzando una carta spessa speciale, spillata ai lati sempre con lo stesso formato e l’indirizzo scritto a penna a uno dei margini.

Edotto su come andava trasportato il pacco - sul braccio teso in avanti, “a cavallo del braccio” - in mancanza di meglio, toccavano a me le consegne.

Le clienti, quasi tutte dei quartieri alti, che per noi a Roma erano Prati, Flaminio e anche Balduina, avevano cognomi che parlavano da soli, incutendo una certa soggezione: Baltera, Montecuccoli, ecc...

Ma ciò che meglio ricordo è che la consegna era di solito salutata, dalle clienti, con una contentezza speciale (mia madre si vantava di non aver ricevuto mai indietro un abito, anzi, le toccava molto spesso rimettere mano, adattandone la taglia, ad abiti che venivano portati anche per vent’anni), conseguenza dell’aver scelto e dell’aver aspettato.

Ciò che contava, lo vedevo e lo capivo, non era certo “il figlio della sarta”, ma l’interno di quel pacco, desiderato perché fatto a mano e su misura e non acquistato all’impronta in un negozio qualsiasi. Scelto e poi lavorato con cura e pazienza e quindi elegante.

Qualcuno di questi abiti, forse ancora esiste, da qualche parte.

Ma nel frattempo, qualcosa è successo. Dove sono finite queste persone che sanno scegliere e che sanno aspettare? Dov’è finita quella capacità, leggera e inebriante, di riconoscere l’eleganza (quella vera, senza orpelli e senza fronzoli) in mezzo a tanta volgarità, sciatteria, bruttura?

Forse, bisognerebbe ricominciare a osservare i fenicotteri. Nonostante i cambiamenti climatici, ogni anno attraversano in volo il Sahara e il Mediterraneo e vengono in primavera a cercare climi più favorevoli nelle paludi italiane.

I latini chiamavano i fenicotteri phoenix, cioè fenice. L’uccello mitologico, capace di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. E allora chissà, forse anche l’eleganza, che appare scomparsa dal mondo, un giorno rinascerà e verrà di nuovo a sorprenderci e a rendere più meritevole la nostra vita.

Fabrizio Falconi

On Substack: https://fabriziofalconi.substack.com/p/come-sparita-leleganza




11/11/25

PERDERSI FA BENE A RITROVARSI (perché chi non si perde è forse condannato a non trovarsi mai)

 


PERDERSI FA BENE A RITROVARSI 

(perché chi non si perde è forse condannato a non trovarsi mai)

di Fabrizio Falconi

Non so se c'entri il diluvio Sinner, ma fioccano ovunque autobiografie di tennisti ed ex tennisti come se piovesse.

Mancano all'appello Fabio Fognini, Paolo Cané e pochi altri, ma arriveranno.

Intanto sono appena uscite quelle di Bjorn Borg, di Boris Becker, di Pat Cash, eccetera eccetera.

Ciò che rende la vita dei tennisti così appassionante sembra essere la loro propensione ad essere nevrotici e ad aver avuto quindi vite nevrotiche, colme di segreti eccessi e di furiose lotte con il proprio demone artistaide che il tennis (specie quello di ieri) sapeva incarnare.

Ma la prima e insuperata biografia del settore, quella che va oltre quel che si si aspetterebbe dal gossip stiloso è stata sicuramente “Open” che ha raccontato vita e opere di uno dei geni più irregolari della racchetta. Uno specialista vero di cadute negli abissi e risurrezione. Cosa che ha fatto dell'uscita di questo libro un evento duraturo mondiale.

Il merito è in gran parte dello scrittore che è dietro quella biografia: JR Moehringer (di famiglia italiana, nonostante il suo cognome), vincitore del premio Pulitzer per il giornalismo, autore di un romanzo come Il Bar delle Grandi Speranze, che ha vinto molti premi importanti e che è stato portato sullo schermo da George Clooney con il titolo The Tender Bar (2021), protagonista Ben Affleck (ne consiglio il ripescaggio da chi lo ha perso all'epoca).

La forza di Open - ciò che ha conquistato platee enormi di lettori, tra i quali anche quelli che non capiscono un'acca di tennis - è la meticolosa e appassionante descrizione di quello che Jung chiamerebbe “processo di individuazione”, quel percorso, cioè, attraverso il quale ciascuno di noi è chiamato a conoscere sé stesso, che è poi lo scopo per cui si sta al mondo.

La vicenda è nota: Agassi a cinque anni si ritrova con una racchetta da tennis in mano, ferocemente preda di un padre pazzo, esule armeno trapiantato nel deserto di Las Vegas. Il padre pazzo ha deciso per lui il suo destino. Sarà, costi quel che costi, un tennista. Ma non uno qualsiasi, un campione.

La “vocazione” di Agassi non è la “sua” vocazione dunque, ma la vocazione che qualcun altro gli ha appiccato addosso e che lui, per molti motivi che sono l'ossatura del libro, non può fare a meno di seguire.

Ciò provoca nel ragazzo un costante sentimento di scissione: amore-odio per il tennis, amore-odio per (quel)la vita, che durerà fino al giorno in cui - dopo aver conquistato ben otto titoli slam - deciderà di smettere.

E' questa la ragione del successo di una vicenda che parla a tutti.

Perché tutti, più o meno, nell'incertezza del nostro destino, ci siamo trovati a dover scegliere tra quello che gli altri pensavano fosse il giusto per noi e quello che noi, confusamente o no, sentivamo invece che fosse “più” giusto.

La confessione di Agassi è bella e molto dolorosa e sa di autentico (del resto, quando un libro di 500 pagine, scritto tutto in prima persona, senza pause, e al tempo presente, ti tiene inchiodato - anche se tu sai già tutto di cosa accadrà perché quel tennista lo hai visto decine e centinaia di volte in televisione - vuol dire che il libro è eccellente).

La trasformazione del “Kid di Las Vegas”, ranocchio che si veste con orrende tute fucsia e ha al posto dei capelli un parrucchino biondo leopardato (un boro , lo si sarebbe definito a Roma), in un principe della racchetta, gentleman, marito romantico e benefattore con evolutissima scuola di formazione al seguito, da lui fondata per bambini disagiati, è soprattutto credibile.

Agassi, infatti, dopo aver tanto sofferto e dopo essersi perso innumerevoli volte si è anche trovato.

Ha capito insomma sulla sua pelle, quello che tutti noi sappiamo, più o meno inconsciamente, ma facciamo finta di non sapere. Ovvero che sono le esperienze, e più di tutto le esperienze negative, quelle che discendono dalla nostra ombra , non quelle del mondo brutto e cattivo, a darci la possibilità, costantemente, di diventare persone migliori.

Agassi ha faticosamente capito che non sapeva chi era perché non gli era stato permesso né di conoscere sé stesso, né di conseguenza, le cose del mondo.

E' una bella parabola di vita, un invito al sacrificio (parola che oggi suscita allergia) di uscire dalla famosa comfort zone personale dentro la quale si sguazza, per osare, sbagliare, fallire, perdersi.

Osare, sbagliare, fallire, perdersi sono il motore dell'evoluzione personale. Il ritrovarsi non è garantito, ma non tentare vuol dire vivere la vita sul binario a scartamento ridotto.

Fabrizio Falconi

(leggi su substack: https://substack.com/home/post/p-178342033)