27/11/25

NEO-RURALI - FAMIGLIE E DESTINI NEL BOSCO

 


Il finale di quel grande film che è Blade Runner (Ridley Scott, 1982) mi colpì sin dalla prima volta che lo vidi al cinema: quando il cacciatore di taglie Deckard-Harrison Ford riesce finalmente a scappare insieme alla bella androide Rachael (Sean Young) di cui si è innamorato, attraversando a bordo della sua macchina volante la spessa coltre di nuvole nere che avvolge la Los Angeles del 2019, si aprono di fronte ai suoi occhi scenari naturali meravigliosi, panorami stupendi, verdi e incontaminati.

Al che, seduto sulla mia sediola al cinema, mi venne spontaneo chiedermi: “ma se pioveva ininterrottamente soltanto a Los Angeles, cioè dentro il nuvolone nero di smog e pioggia (Blade Runner è il film della pioggia per eccellenza, L.A. è diventata la città dove piove sempre), perché tutti se ne stavano in quell’inferno, quando appena fuori dalla città c’era il paradiso naturale? Perché tutti non scappavano nei boschi?”

Bella domanda.

Che torna d’attualità con questa storia dei neo-rurali, piccole comunità o singoli, e della famigliola nel bosco di Palmoli, in Abruzzo di cui parlano ormai anche tutti i giornali stranieri.

E allora mi è tornata in mente una vecchia storia che raccontava mia madre e che lei aveva sentito nel paese dov’era nata sua madre (ovvero mia nonna).

Riguardava la vicenda di uno di quei paesani che, in un anno imprecisato del dopoguerra, aveva deciso un giorno di costruirsi una capanna nel bosco, lontano da tutti.

Il resto del paese chiamava da sempre quel tipo Tarzan. Perché da quando era ragazzino gli piaceva arrampicarsi e passare la giornata tra le fronde degli alberi, nel bosco.

Tarzan era di buona indole e lavoratore instancabile, ma parlava quasi niente e praticava poco le donne. Per cui, invece di mischiarsi alla stanca vita del paese preferiva inerpicarsi sui crinali e andare a caccia dei nidi di rapaci, che spiava senza avvicinarsi troppo.

Ai tempi in cui aveva già cominciato a costruire la sua capanna e a trascorrervi molto tempo, a Tarzan capitò di incapricciarsi di Demetra, una donna del paese, non più giovanissima, anche lei poco integrata nella vita del paese per via di certi trascorsi risalenti alla guerra e alla occupazione dei tedeschi, ai quali in realtà sembrava fosse del tutto estranea; ma si sa come vanno le cose nei paesi.

Incoraggiato dalla buona accoglienza dei suoi impacciatissimi approcci, Tarzan cominciò a passare i pomeriggi con Demetra, che aveva fatto di mestiere la maestra, prima che la sua rispettabilità precipitasse per via delle famose malelingue.

Insieme, Demetra e Tarzan, cominciarono a trascorrere sempre più tempo insieme al capanno. Che la donna cominciò ad arredare con gusto femminile e Tarzan ad ampliare con due nuovi piccoli ambienti più una cucinetta e un bel gabinetto.

Il resto era venuto da solo: i due sembravano fatti uno per l’altra, stavano bene insieme e, anche senza sposarsi, misero al mondo due figli, maschi, i quali già da piccoli furono allevati nella casa nel bosco.

Durante quegli anni felici, Demetra aveva scoperto la ragione della scelta di Tarzan. Quasi analfabeta, l’uomo aveva letto praticamente un solo libro nella sua vita. Le cui pagine sfogliava quasi ogni giorno della sua vita (brano per brano) e che era diventato per lui un vangelo. Quel che gli aveva cambiato la vita.

Il libro si intitolava Vita nei boschi e alla pagina 152 c’era un brano che quasi ormai non si leggeva più per via della consunzione dovuta al numero di volte con cui era stato consultato:

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

“Qui c’è tutto quel che serve,” ripeteva Tarzan alla donna con occhi spiritati.

Dopo quegli anni felici, però, qualcosa era andato storto:

come nelle famose strazianti scene de Il Monello ( The Kid, Charlie Chaplin, 1921) le autorità del circondario, con gli assistenti sociali, erano venute ad accertarsi, con tutte le voci che giravano in paese, delle condizioni di vita dei bambini, che furono giudicate pregiudizievoli al punto di ordinare il trasferimento in un istituto per orfani, anche se loro orfani non erano. Demetra li seguì e insieme al marito cercarono di farli tornare.

Inutilmente. La sentenza emessa prevedeva il compimento dei diciotto anni. Fino a quel momento i ragazzi sarebbero rimasti e rimasero, in istituto. Con la maggiore età, per di più, i figli presero due strade diverse: il più grande decise di restare con i genitori, mentre il minore dichiarò di volere una vita “normale” e proseguì i suoi studi in un collegio. Si laureò, si sposò, ebbe figli.

Tornò alla casa nel bosco solo quando la madre, Demetra, morì a causa di una setticemia. Poi ripartì. Il figlio più grande allora affrontò il padre, dicendogli che ormai non c’erano più motivi, per loro due, di restare nel bosco. Ma Tarzan, dopo aver dato la benedizione al figlio grande, decise di rimanere al suo posto, comunque nel bosco.

Così trascorsero altri anni, finché di Tarzan si persero quasi completamente le tracce.

Fino all’inaspettato epilogo: una sera di inizio inverno, ci fu un fatto di cronaca nera in quel paese tra le montagne dove non succedeva mai niente. Un tassista notturno che aveva a bordo un cliente e doveva riportarlo a casa, su quelle strade tortuose, in mezzo alla radura, fermò la macchina, aprì il portello posteriore e minacciando il cliente con una pistola tentò di derubarlo. Quando il cliente scese dalla macchina con le mani alzate, alla luce dei fari, sbucò fuori dal nulla di un cespuglio, proprio Tarzan, il quale con un balzò tentò di bloccare il braccio del tassista, prendendosi un colpo di pistola al ventre che lo uccise in pochi secondi.

Non ho mai saputo se il colpevole fosse stato arrestato. Fatto sta che, per grazie alla testimonianza del cliente salvato, Tarzan col suo gesto disperato divenne all’improvviso una celebrità, al punto che un cippo fu eretto sulla piazza del paese, con scritto il suo vero nome. Oggi, comunque, non esiste più.

Tutta questa storia mi è tornata in mente forse per ammonirmi. L’idea, la convinzione di una natura buona, ospitale, con gli annessi della cultura ambientalista moderna, sono in realtà una acquisizione molto recente della vita evolutiva umana.

Per molto tempo nell’antichità e fino a pochi secoli fa, la selva, il bosco, non erano amici, non erano ospitali. Erano, anzi, luoghi di pericolo e di angoscia, come si può scoprire in quel meraviglioso libro, Foreste (Forests: The Shadow of Civilization, Robert Pogue Harrison, 1992, in Italia Garzanti). L’evoluzione del cammino umano è passata interamente per la distruzione e la dominazione di questi spazi selvaggi, e la loro colonizzazione umana.

Forse è per questo - complessi di colpa, istinto profondo di appartenenza, nostalgia dell’Eden - che oggi persone chiamate neo-rurali compiono questo gesto radicale e inattuale che così tanto ci spaventa (e però anche ci attrae). Un gesto che vuole ricostruire intorno a sé tempo, percezione, pensiero, rifondando la meraviglia dell’adesione al reale (cioè di tutto ciò che di naturale esiste nello stare al mondo).

Traggo la citazione da uno dei più brillanti saggi usciti in Italia negli ultimi anni scritto da un brillante filosofo (purtroppo oggi scomparso dai radar per vicende personali che sembrano la sua personale nemesi delle storie che racconta in questo libro): Quattro Capanne (Leonardo Caffo, Nottetempo, 2020)

Per la cronaca, le Quattro Capanne del libro sono quelle in cui vissero Thoreau, Theodore “Unabomber” Kaczynski, Le Corbusier e Ludwig Wittgenstein.

Scelte estreme alla ricerca di una radicale semplicità del ritorno. Discutibile quanto si vuole, pericolosa quanto si vuole.

Un sogno che sembra destinato a fallire ogni volta e che invece non smette di essere sognato. Anzi, a quanto pare, da un numero sempre più alto di persone.

Fabrizio Falconi



19/11/25

COM'E' SPARITA L'ELEGANZA - Requiem per una virtù leggendaria

 


COM'E' SPARITA L'ELEGANZA

Requiem di una virtù leggendaria

di Fabrizio Falconi

Chi vive a Roma è abituato all’eleganza. Assuefatto, direi. L’eleganza dei palazzi, delle rovine, delle chiome dei pini romani, delle fontane, del profilo perfetto delle cupole.

Eppure, questa eleganza data, nemmeno quasi si nota più, perché nessuno più sembra fare caso all’eleganza.

Insomma, basta vedere come ci si veste. Non è una questione di censo o di ricchezza: si vestono malissimo anche i ricchi, che possono ormai acquistare il mondo.

Cose sgargianti sì, lussuose sì, esibite sì, ma l’eleganza?

L’eleganza è una qualità rara. La parola deriva dall’orginale latino elegantia. Come molte altre di quel popolo illuminato, ha avuto grande successo nel mondo (elegance in inglese, élégance in francese, eleganz in tedesco) e nasce da un colpo di genio: mettere insieme il prefisso ex e il verbo eligere, cioè scegliere. Quindi ex-eligere si definisce chi-sceglie tra, ovvero scegliere tra cose diverse. Elegante è colui che sa scegliere. Eleganza è la qualità di chi sa scegliere.

Ecco appunto, ma oggi chi sa scegliere?

Paul Thomas Anderson, uno dei migliori registi contemporanei, qualche anno fa ha dedicato un bellissimo film all’eleganza, chiamato in Italia, Il Filo Nascosto (quando sarebbe stato meglio lasciare la traduzione esatta cioè Il Filo Fantasma, The Phantom Thread, 2017), erroneamente scambiato da molti come un’opera che ha per oggetto il disturbo ossessivo-compulsivo.

Ma The Phantom Thread (bellissime musiche di Jonny Greenwood, il talento dei Radiohead) non parla di questo. Il fatto che il sarto protagonista - cui dà anima Daniel Day Lewis - sia un perfezionista maniacale, è soltanto la conseguenza del fatto che egli è un creatore di eleganza.

Chi nella vita si dedica alla ricerca dell’eleganza è come un rabdomante a caccia di pozzi d’acqua, invisibili, dentro le profondità della terra. Sì, perché l’eleganza nessuno sa dire cosa sia. E quale sia la ricetta per ottenerla. L’eleganza è una idea platoniana, che vive nell’iperuranio: che tutti riconoscono (o almeno riconoscevano) e che nessuno sa dove sia esattamente.

La natura ne è piena: quando osserviamo il profilo e i colori di un fenicottero, il suo collo oblungo che forma una perfetta lettera S, noi sappiamo che quella è l’eleganza, anche se non sapremmo dire perché.

Così Reynolds Woodcock, il sarto di The Phantom Tread, è un cacciatore di invisibile. Lui sa, ma non può spiegare, che una impuntura spostata di qualche millimetro, fa svanire l’eleganza, rovina tutto.

Per questo deve procedere cautamente, per tentativi, per ritocchi apparentemente inutili e arbitrari. Lui sa.

Posso comprenderlo, perché mia madre era una sarta d’alta moda. E ho molti vividi ricordi in proposito.

La clientela di mia madre era formata da signore e signorine (termine che comprendeva anche sessantenni o settantenni nubili) di solito benestanti, che tenevano al vestire e volevano sempre essere come si dice, eleganti à la page.

A tale scopo mia madre spendeva un capitale per acquistare i famosi figurini, libroni fotografici di Vogue e altre riviste francesi con i modelli alla moda indossati da ragazze che non erano anoressiche come quelle d’oggi.

Le signore o signorine venivano nel nostro salotto buono, sfogliavano, sceglievano (ex-eligere) sulla base di quella stessa ricerca, il modello e mia madre glielo faceva su misura, tale e quale (comprensivo di disegno, taglio, cuciture e guarnizioni).

Poi, dopo un mese o due (a meno di casi di urgenza), arrivava il momento della consegna. Il pacco veniva confezionato con molta cura, utilizzando una carta spessa speciale, spillata ai lati sempre con lo stesso formato e l’indirizzo scritto a penna a uno dei margini.

Edotto su come andava trasportato il pacco - sul braccio teso in avanti, “a cavallo del braccio” - in mancanza di meglio, toccavano a me le consegne.

Le clienti, quasi tutte dei quartieri alti, che per noi a Roma erano Prati, Flaminio e anche Balduina, avevano cognomi che parlavano da soli, incutendo una certa soggezione: Baltera, Montecuccoli, ecc...

Ma ciò che meglio ricordo è che la consegna era di solito salutata, dalle clienti, con una contentezza speciale (mia madre si vantava di non aver ricevuto mai indietro un abito, anzi, le toccava molto spesso rimettere mano, adattandone la taglia, ad abiti che venivano portati anche per vent’anni), conseguenza dell’aver scelto e dell’aver aspettato.

Ciò che contava, lo vedevo e lo capivo, non era certo “il figlio della sarta”, ma l’interno di quel pacco, desiderato perché fatto a mano e su misura e non acquistato all’impronta in un negozio qualsiasi. Scelto e poi lavorato con cura e pazienza e quindi elegante.

Qualcuno di questi abiti, forse ancora esiste, da qualche parte.

Ma nel frattempo, qualcosa è successo. Dove sono finite queste persone che sanno scegliere e che sanno aspettare? Dov’è finita quella capacità, leggera e inebriante, di riconoscere l’eleganza (quella vera, senza orpelli e senza fronzoli) in mezzo a tanta volgarità, sciatteria, bruttura?

Forse, bisognerebbe ricominciare a osservare i fenicotteri. Nonostante i cambiamenti climatici, ogni anno attraversano in volo il Sahara e il Mediterraneo e vengono in primavera a cercare climi più favorevoli nelle paludi italiane.

I latini chiamavano i fenicotteri phoenix, cioè fenice. L’uccello mitologico, capace di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. E allora chissà, forse anche l’eleganza, che appare scomparsa dal mondo, un giorno rinascerà e verrà di nuovo a sorprenderci e a rendere più meritevole la nostra vita.

Fabrizio Falconi

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