13/01/17

"Il libro del Tao - Tao Te Ching" di Lao Tzu, un libro per la vita.




E' un libro che non si smette mai di rileggere e che ogni volta restituisce un tesoro di conoscenza. 

Si tratta di uno di quei testi sapienzali che come accade per lo stesso I-Ching sembra rispondere diversamente ogni volta al lettore che lo interroga e che vi si accosta. Proponendo risposte ricche di implicazioni da decifrare, che hanno riscontro nelle vite di tutti. 

Scritto, secondo la tradizione cinese, nel VI secolo a.C. dal leggendario Lao-tzu e, secondo i filologi, in un’età oscillante fra il VI e il III secolo a.C., il Tao-tê-ching è considerato il fondamento della religione e della scuola filosofica taoista.

Lao-tzu utilizza e interpreta categoria che all'epoca in cui egli scrive già esistevano e facevano parte della civiltà cinese arcaica: il Tao, cioè la «Via», regolatrice della totalità; il , «Virtù», ma piuttosto nel senso di «potenza magica»; lo Yin e lo Yang, princìpi femminile e maschile; il Wu wei, cioè il «non-agire», ricetta della suprema efficacia. 

Tali categorie vengono rielaborate dal Tai-te-Ching in brevi frasi apparentemente semplici, che possiedono una risonanza infinita e pur rasentando la paradossalità esprimono idee di pura evidenza, illuminanti nella introspezione dell'animo umano.  

In particolare - in pieno contrasto con l'ideologia preminente nella civiltà occidentale - il Tao-te-ching è una esaltazione della debolezza e della mollezza come antidoto alla forza e alla durezza umana, che causano i più grandi disastri, nelle vite individuali e in quella collettiva. 

Pratica il non agire. Impegnati a non essere indaffarato (LXIII), scrive Lao-Tzu, Più vai lontano, meno conosci. Per questo il saggio conosce senza spostarsi, riconosce senza vedere, compie senza agire. (XLVII)

 Fai vivere le creature, nutrendole e trattandole come se fossero tue, senza aspettarti nulla in cambio. Lasciale crescere e non pretendere di possederle e governarle. Questa è la virtù più misteriosa. (X)

In poche pagine si dipana una saggezza difficile e antica, che si basa sull'accettazione della trasformazione e sull'essere predisposti e consistenti per il cambiamento.  Come ogni bambino che nasce che - scrive Lao Tse - è molle e debole, e proprio per questo cresce e diventa colmo di pienezza.  Per questo chi muore è duro e rigido. 

Non bisognerebbe mai dimenticarlo. 



12/01/17

"Confessioni di un alfiere decaduto" di Andrei Makine. (Recensione).



Scritto nel 1990 e pubblicato due anni dopo per la prima volta in Francia con il titolo  Confession d'un porte-drapeau déchu da Belfond, questo è il secondo romanzo di Andrei Makine, nato in Siberia a Krasnoyarsk nel 1957 e esiliato con una richiesta di asilo politico in Francia, a Parigi, dal 1987. 

Makine, come è noto, scrive in francese, lingua che conosce e studia dall'età di 4 anni, quando una vecchia signora cominciò a prendersi cura di lui e a impartirgli lezioni private di quella lingua, che poi studiò a Mosca e cominciò ad insegnare a Novgorod, prima di trasferirsi in Francia. 

Durante i suoi primi anni a Parigi, Makine visse la stagione del diseredato, dello sradicato.  In un mondo e in una terra non suoi, agevolato dalla perfetta conoscenza della lingua, cominciò a scrivere furiosamente, soprattutto dei suoi ricordi e del suo mondo russi, cominciando ad essere pubblicato, fino a vincere in pochi anni (1995) il prestigioso Premio Goncourt e ad ottenere la cittadinanza francese l'anno seguente (che fino a quel momento gli era stata negata). Attualmente è anche membro dell'Accademia di Francia (dal 2016). 

Chi conosce Makine, sa quanto può essere sofisticata e ricca la sua lingua.  I suoi romanzi sono sempre prima di tutto un viaggio: un viaggio nella memoria, nelle suggestioni di una lingua, e sostanzialmente nel tempo. 

Anche qui, in Confessioni di un alfiere decaduto, ritorna - in forma di lunga lettera aperta all'amico di infanzia Arkadj, che ormai vive negli Stati Uniti e si è perfettamente occidentalizzato - il mondo perduto della giovinezza, il mondo dei panorami scintillanti, dei cieli di Russia, ma anche delle fanfare e delle bandiere, delle adunate di ragazzi su enormi piazzali in attesa del notabile sovietico di turno.  

Ma è nella descrizione delle cose minute della natura, dei suoi vibratili aspetti che Makine riesce a tessere un ordito di squisita bellezza, raccontando in poco più di 100 pagine la vita di quella piccola corte, formata da tre sole case, in mezzo alla campagna russa, sorta intorno ad una misteriosa Crepa - che si scoprirà essere la cicatrice di antichi e terribili fatti di guerra.   

E' proprio la guerra, protagonista di questa storia. La guerra combattuta per la difesa della Russia contro l'avanzata dei nazisti, la difesa di Leningrado, l'abiezione che ne seguì, nei ricordi e nei racconti dei genitori del protagonista e di quelli di Arkadj.  I padri dei due bambini hanno combattuto insieme. Uno è rimasto paralitico. L'altro - Jasà, il padre di Arkadj . ne è divenuto il custode, il compagno di infinite partite a domino nel cortile della corte. 

Anche le madri nascondono segreti, come ogni abitante di quel luogo desolato.  Anche i nuovi uomini, plasmati dalla retorica sovietica - sedotti da essa, e respinti - sono chiamati alla guerra, una guerra che stavolta si è spostata sui confini dell'Afghanistan. 

Quel tempo perduto, che ha legato i due bambini, non esiste più. La loro formazione li ha portati su sponde lontane, e forse nemmeno si incontreranno più. 

Ma quel cortile, quelle facce, quei sospiri, quelle vigliaccherie e attese, quelle forme di vita così pulsanti e vere, quei sogni sbocciati troppo presto e morti troppo tardi, porteranno segni indelebili nelle vite di uomini - come suggerisce il titolo - definitivamente decaduti (disarcionati da un sogno o da una illusione che, come una guerra persa, li ha respinti lontani). 







06/01/17

L'Epifania a Roma, il bambinello dell'Aracoeli e un furto senza colpevoli.




Il bambinello miracoloso dell’Aracoeli, un furto senza colpevoli. 

Il 2 febbraio del 1994 le cronache di Roma furono sconvolte da un fatto grave: uno dei più preziosi oggetti sacri di Roma era stato inopinatamente trafugato, durante la notte da due sconosciuti che, introdottisi attraverso una impalcatura nel convento dei frati francescani a fianco della Basilica dell’Ara Coeli, avevano aperto l’armadio blindato nel quale il Santo Bambino era custodito, rubando anche gran parte dell’oro frutto degli ex voto dei fedeli, conservato insieme alla statua.

La notizia fece il giro di tutta Roma e l’ottimismo degli inquirenti basato sul fatto che il bambinello fosse un’opera troppo nota, universalmente nota, per poter essere piazzato al mercato dei ricettatori, si rivelò infondato visto che il prezioso oggetto sacro non fu mai ritrovato.

La storia del bambinello dell’Aracoeli è troppo importante perché si potesse pensare ad un furto casuale, e così c’è chi ipotizza che l’operazione sia stata realizzata su commissione, per adornare la dimora di qualche malfattore interessato a possedere la reliquia.

La statua, alta soltanto sessanta centimetri, era stata, secondo la tradizione, scolpito direttamente nel legno proveniente dagli ulivi dell’orto di Getsemani e battezzato da un frate francescano nelle acque del fiume Giordano, prima di giungere in Italia attraverso un viaggio miracoloso: la nave sulla quale l’oggetto sacro era trasportato, infatti, si diceva avesse fatto naufragio e si fosse salvata, approdando sulle rive laziali con i suoi passeggeri incolumi grazie all’intervento divino del sacro Bambinello.

Dal Settecento cominciò la tradizione per la quale gli infermi romani, quelli che potevano camminare, si recavano in processione all’Aracoeli per essere guariti dal Bambino Gesù e il principe Alessandro Torlonia, nell’Ottocento, giunse a mettere a disposizione una carrozza per portare la statua santa presso le abitazioni degli infermi più gravi. A questo proposito esisteva anche una tradizione consolidata: se quando entrava nella stanza del malato, le labbra della statua  divenivano più rossi, significava che la guarigione miracolosa sarebbe avvenuta; se al contrario impallidivano, voleva dire che non c’era più speranza.

Ma al Bambinello, con il passare dei decenni e dei secoli, cominciò ad associarsi anche una tradizione legata ai culti natalizi e all’Epifania

Il 6 gennaio, con una solenne cerimonia,  la popolare immagine del bambino, con la veste tempestata di pietre preziose e ricoperta da tessuti dorati, veniva mostrata al popolo, mentre i frati francescani impartivano la benedizione a tutta la città.

Le traversie del Bambinello comunque sono state, nel corso dei secoli numerose. Già una prima volta, infatti, il prezioso oggetto fu rubato. 

Furono in quel caso i soldati francesi che avevano occupato Roma nel 1798 e che erano attratti dai preziosi ex voto custoditi insieme alla statua.  Il generoso intervento di un nobile romano, Severino Petrarca, riuscì a far restituire ai Romani il Bambinello, grazie ad una delicata opera diplomatica con le autorità militari francesi.

Altri rischi derivarono al seguito dei moti rivoluzionari del 1848. In quell’anno ogni oggetto simbolo dei privilegi papali era sospetto e così una particolare disposizione riguardò le berline, cioè le ricche carrozze cardinalizie, compresa quella del Papa

Per evitare che anche quella, la più preziosa di tutte, finisse al rogo insieme alle altre, uno dei capi rivoluzionari – il triumviro Carlo Armellini - propose che ospitasse il Santo Bambinello, ben sapendo che nessuno, neanche il più focoso tra i rivoluzionari avrebbe osato bruciare la carrozza contenente la sacra reliquia.  E così fu. Al punto che negli anni seguenti rimase la tradizione di una processione del sacro Bambinello, che a bordo della berlina papale,  veniva fatto sfilare per tutta la Via del Corso (l’antica Via Lata).


Nella Basilica dell’Aracoeli, oggi purtroppo è custodita soltanto una copia del Bambinello, ricostruita dagli artigiani romani, il più fedelmente possibile rispetto all’originale.  Il che non ha impedito la continuazione della venerazione popolare e della donazione di nuovi ex voto che adornano la copia dell’antichissimo Bambinello, ormai introvabile

03/01/17

("Come scende la sera qui", da Poesie (1996-2007) - Fabrizio Falconi) L'altrove della Poesia, una nota di Anna Vasta.

L'altrove della poesia - Anna Vasta

"Come scende la sera qui" da Poesie(1996-2007)-Fabrizio Falconi. 


Come scende la sera qui,
mi chiedi contando le mosche
bloccate dal temporale:
scende come una fune, come
acrobata dai piedi d'oro,
scende. 
Fabrizio Falconi

Così scendono i versi del poeta, con la leggerezza e il fiato sospeso di un acrobata. Come un acrobata si avvinghiano alla fune gli attimi strappati all'insignificanza, i giorni e le notti fagocitati da un “fuoco colossale”che trasforma “la carne in scintilla”, “perdite, mancanze”, corse, “ascese” “per “intricati rami” “all'albero del pane/e della conoscenza”. 

E “ore vuote e limpide,/ inconcludenti, magnifiche/sparse incomprensibili ore” di un tempo “quando bastavano/miti, non certezze”. 

Ora “veniamo a patti con il cielo” e la vita é “fiorir di fiori fuori stagione”,/addomesticamento”. 

E “Al sogno/ frecciato, sporco di anni,/ repentino , io sollevo/il calice notturno/solitario di marmo e terra.”. “E qualcosa di sbagliato deve esserci/nell'invenzione che non risolve, /nel dubbio che non scorda/e commemora i tempi dello sbaglio.” 

Non c'é “sbaglio” , né “colpa”, se anche degli sbagli e delle colpe “non é rimasto niente”. Se il ritorno é affidato a “quell'unico, perduto/reciso,/indelebile geranio da balcone”, che malgrado tutto “tenta nuovi colori,/ sulla stessa morta terra”, se “vivere é perdere/ogni giorno un poco di sè/, vale la pena comunque provarci. 

Se quel che perdiamo possiamo “ricrearlo nuovo/in un altrove sconosciuto." 

L'altrove della poesia.

02/01/17

Il ritratto di Velazquez di Innocenzo X alla Galleria Doria – Pamphilj (di Fabrizio Falconi).





Il Palazzo Doria, uno dei più magnifici di Roma, sorge con la sua elegante facciata rococò sul lato sinistro di Via del Corso, subito prima di arrivare in Piazza Venezia. Fu edificato nel 1400 dai cardinali ospitati nella vicina diaconia di Santa Maria in Via Lata, e acquistato successivamente (e ampliato) dai Della Rovere, dagli Aldobrandini e infine dai Pamphilj che si estinsero nei Doria.

All’interno, il sontuoso cortile cinquecentesco permette di accedere alla Galleria Doria-Pamphilj una delle più importanti raccolte di quadri di Roma (e anche d’Italia e d’Europa) dove tra le celebri opere di Tintoretto, Correggio, Raffaello, Lotto, Tiziano, Caravaggio e moltissimi altri è possibile ammirare nella seconda sala del Gabinetto ottagonale, il ritratto di Innocenzo X Pamphilj realizzato da Diego Velàzquez, l’opera più insigne del maestro esistente in Italia.

Dipinto che ha una storia particolare.

 Diego Velàzquez, oltre che essere un incredibile artista, pittore di camera del sovrano di Spagna, Filippo IV svolgeva anche mansioni diplomatiche, rivestendo anche la carica di cavaliere dell’Ordine di San Giacomo.

 Nel 1649, Velàzquez arrivò a Roma, per incarico del suo sovrano: aveva accettato di buon grado l’incarico, bramoso di confrontarsi con le bellezze classiche della città eterna e di trovarne ispirazione per la sua opera.

 Una presenza così importante non sfuggì ai più stretti collaboratori del Papa, che gli consigliarono di farsi ritrarre.

 Innocenzo X però, che aveva un carattere piuttosto aspro, rispose che non conosceva la maestria di quel pittore.

 Velàzquez, allora, si cimentò con il ritratto di uno dei suoi, uno spagnolo di nome Juan de Pareja, che era discendente dei mori (il celebre ritratto è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York che se lo aggiudicò nel 1997 nel corso di un’asta da Christie’s a Londra per la cifra stratosferica di cinque milioni e mezzo di dollari) e quest’opera impressionò talmente Innocenzo da convincerlo a posare per il grande artista.



Quando vide il dipinto finito, il Papa rimase ammirato e allo stesso tempo turbato: non soltanto vi riconosceva infatti i suoi tratti fisici, ma anche tutte le ombre del suo carattere.

Le cronache dell’epoca riferiscono che commentò, osservandolo: “Troppo vero!”

Innocenzo – che all’anagrafe si chiamava Giovanni Battista Pamphilj – si sentì messo a nudo quasi come Velàzquez, con qualche strana dote magica, fosse riuscito a carpire i segreti della sua anima.

Ubbie e gelosie, tormenti e brame derivavano a quel Papa anche a causa della discussa amicizia con quella che fu definita la donna più potente di Roma, Donna Olimpia Maldaichini. Il popolo dell’Urbe la chiamava la Pimpaccia, mutuando il soprannome che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino ( e che derivava dal geniale gioco di parole: «Olim pia, nunc impia», ovvero, una volta religiosa, adesso peccatrice). Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini era riuscita a farsi sposare in seconde nozze da Pamphilio Pamphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di Innocenzo X. La cognata divenne dunque con il passare degli anni, una consigliera molto influente del papa, e in poco tempo così ricca che alla morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro.

I Pamphilj, originari di Gubbio, dal 1470 avevano scalato i vertici del potere nobiliare romano dopo che un antenato della famiglia, Antonio aveva comperato un palazzo vicino Piazza Navona, primo nucleo del futuro grandioso Palazzo Pamphilj.

 La scalata al potere della famiglia si consolidò nei due secoli successivi, grazie a una serie di matrimoni fortunati e al trionfo definitivo che si concretizzò proprio con l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo X. Giovanni Battista Pamphilij era un uomo severo, che aveva a cuore la sorte dei diseredati e la gloria di Roma, che prima di lui aveva dovuto subire ingenti operazioni di spoglio anche da parte dei suoi predecessori (in particolare da Urbano VIII Barberini).

 Avvalendosi dei più grandi architetti e artisti dell’epoca, in primis Bernini e Borromini, Innocenzo cambiò il volto alla città e per far questo dovette tessere relazioni diplomatiche con le più potenti famiglie e confraternite, missione alla quale si dedicò infaticabilmente proprio Olimpia Dopo la morte di Pamphilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera da impegni coniugali: Il sodalizio che si generò con il cognato alimentò dicerie e veleni di ogni tipo, specie dopo l’elezione di Giovanni Battista a Papa.

 Si cominciò a diffondere la maldicenza che i due fossero o fossero stati amanti, e che fosse stata la stessa Olimpia ad avvelenare nel sonno il marito. Fatto sta che non v’era praticamente affare importante che a Roma potesse essere deciso senza aver prima consultato Olimpia, divenuta una sorta di papessa. Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.

Oltre ai numerosi scandali faceva discutere la gestione del denaro, da parte di Olimpia, accusata di esigere laute prebende per ogni questione le fosse affidata, ivi comprese le commissioni degli artisti. Ma forse l’episodio più infamante è quello che riguarda la morte di Innocenzo X che fino a che fu in vita protesse e preservò la cognata dalle vendette e dalle invidie di corte, e anche dalle maldicenze del popolo.

 Innocenzo morì il 7 gennaio 1655, all’età di ottantuno anni. Pare che, quando il cadavere del pontefice era ancora caldo, Olimpia non si fece problemi a sottrarre, da sotto al suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi come ‘una povera vedova’ si rifiutò di pagare una degna cassa da morto. L’ingrata cognata non volle saper nulla né di esequie né di sepoltura o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliata da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi (una sorte che ricorda da vicino quella di papa Borgia, Alessandro VI).

Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato dal papa perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale della cognata Olimpia.

L’onore dei Pamphilj fu salvato dal nipote Camillo che fece erigere un degno sepolcro, opera di Giovanni Battista Majno, nella Chiesa di Sant’Agnese in Agone, che è possibile ancora oggi visitare. In quanto a Olimpia, che sopravvisse di cinque anni il più celebre cognato, dopo la sua morte, per aver contratto la peste, a San Martino del Cimino, non valse l’incredibile somma lasciata in eredità – ben due milioni di scudi – a cancellarle la leggenda nera di dosso: si tramutò in uno dei più celebri fantasmi della storia di Roma, più volte avvistato in circostanze spaventose, sulla collina del Gianicolo, sul Ponte Garibaldi (dove sembra si presentasse a bordo di un cocchio infuocato) e nelle vie dell’odierno quartiere Monteverde dove un grande viale (di Donna Olimpia) porta ancora il suo nome.



Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma 2016

01/01/17

Il Sentimento Romantico come risposta al disincanto: una conferenza il 10 gennaio a Roma !




Martedì 10 gennaio 2017 il Comitato "Dante" di Roma invita a partecipare alla conferenza “Il sentimento romantico come risposta al disincanto”. 

La lezione, a cura della dottoressa Fulvia Strano, inserita nel ciclo predisposto per l’anno sociale 2016/2017 su “La pittura in Italia e in Europa nel secolo XIX, si svolgerà a Palazzo Firenze (Piazza di Firenze, 27 – Roma) e avrà inizio alle ore 17. 

La delusione prodotta dalla caduta di Napoleone e dalla Restaurazione degli antichi privilegi nella società europea innesca un fenomeno, largamente condiviso dalla generazione di artisti attivi tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento, di progressivo ripiegamento su una dimensione più intimistica e soggettiva della storia

All’adesione filologica al passato e agli ideali della classicità, si sostituisce un approccio sentimentale che, in modi diversi a seconda delle differenti culture in ambito europeo, determina una varietà di espressioni artistiche in cui prevale la visione soggettiva ed emozionale del racconto, in una sorta di isolamento eroico dell’artista nei confronti della committenza e del pubblico.

 Al Romanticismo tedesco, caratterizzato da una forte spinta verso la dimensione assoluta del sublime, la Francia contrappone un maggiore interesse per l’attualità storica in chiave di realismo pittorico. In Italia, complice anche la cultura cattolica di cui è permeato l’ambiente sociale, si predilige una deriva più intimista e incline alla dimensione familiare e domestica, andando a ricercare nel Medioevo le matrici di riferimento del nuovo linguaggio artistico

Nasce così il fenomeno del Purismo, attorno ad alcune figure di letterati (Antonio Bianchini) e artisti (Tommaso Minardi, Pietro Tenerani, Friedrich Overbeck) che reagiscono al rigore accademico neoclassico promuovendo un ritorno all’arte del Trecento e Quattrocento, espressione di una religiosità pura, capace di trasmettere sentimenti di profonda spiritualità in una forma lineare e didascalica

Molte le assonanze con i Nazareni, artisti tedeschi già attivi a Roma nel secondo e terzo decennio del secolo e dei quali fa parte lo stesso Overbeck; ma anche con i Preraffaelliti inglesi che pure muoveranno da posizioni simili a quelle dei puristi. 

Ciò che accomuna tutte queste esperienze e caratterizza il linguaggio di una intera generazione di artisti è il cambio di prospettiva operato nei confronti della storia, di cui si cercano ora le molte matrici culturali legate a momenti e luoghi diversi, secondo una visione particolare e non più assoluta del Bello, come era stato invece per gli ideali etici ed estetici del Neoclassicismo. Emblematica la figura di Francesco Hayez, artista romantico per eccellenza, che incarna la nuova sensibilità in una poetica pittorica di straordinaria forza e bellezza, in cui appaiono evidenti i richiami alla letteratura e al melodramma

31/12/16

Capodanno 2022 - gli auguri del Blog di Fabrizio Falconi.




vorrei salutare il nuovo anno con questo brano dai diari del grande poeta inglese William Wordsworth (1770-1850) che racconta l'incanto che tutti noi possiamo o potremmo provare, se soltanto facessimo attenzione.  E' il mio augurio per il 2021 che arriva. 


Ho notato fin dall'infanzia che se, in qualsiasi circostanza, l'attenzione è fortemente concentrata su un atto di osservazione o di attesa assidue e lo stato di attenzione si allenta all'improvviso, in quel preciso momento ogni oggetto bello, ogni oggetto visibile significativo (o collezione di oggetti) che incroci il nostro sguardo va dritto al cuore con una forza sconosciuta in altre circostanze.

Pochi istanti fa, il mio orecchio era incollato a terra per cercare di cogliere un rumore di ruote che avrebbero potuto scendere al lago di Wythburn dalla strada di Keswick.  

Nel momento esatto in cui ho alzato la testa dal suolo, abbandonando definitivamente ogni speranza per questa notte, nel preciso istante in cui gli organi dell'attenzione hanno allentato tutti, in un sol colpo, la tensione, la fulgida stella appesa in aria sopra quegli imponenti contorni di tenebra ha incontrato all'improvviso il mio sguardo e colmato la mia facoltà percettiva di un commovente senso dell'infinito che non mi avrebbe toccato in altre circostanze. 


testo riportato Thomas De Quincey, Recollections of the Lake Poets, Coleridge, Wordsworth, and Southey, Black, Edinburghm 1862, "William Wordsworth" (1839) (Penguin Books, Harmondsworth, 1978, p.160). 

29/12/16

Hervé Clerc - "Le cose come sono - una iniziazione al buddhismo comune" (Recensione)




Per chi è in cerca di una introduzione (o una iniziazione, come è scritto nel sottotitolo) al buddhismo, come filosofia di vita e come pratica quotidiana, il libro di Clerc è un ottimo strumento. 

Scritto con tono completamente a-confessionale, da un punto di vista sostanzialmente laico, Le cose come sono racconta prima di tutto un incontro molto personale con l'essenza del buddhismo, come è stato vissuto dall'autore. 

Clerc (a indurlo a scrivere è stato il suo amico Emanuele Carrère) si è portato questa storia dentro per quattro decenni. Fu infatti più di quarant'anni fa che, reduce dai fervori e dai clamori del maggio '68, ebbe «un'esperienza incommensurabile rispetto a tutte quelle che avrebbe poi fatto nella sua vita e, ovviamente, a quelle fatte in precedenza»: si trattò di una vera e propria illuminazione, pervenuta al termine di una esperienza di droghe, che spalancò le porte ad una nuova percezione della realtà: una esperienza squassante di nudo, immobile, vuoto. 

Clerc non sapeva allora non sapeva che cosa fosse. Soltanto più tardi ha trovato la radice di questa esperienza meticolosamente, miracolosamente descritta negli antichi testi buddhisti. 

Così, riprendendo oggi il filo della propria biografia, riesce a renderci partecipi di un insegnamento plurimillenario, e nella forma più semplice e spoglia possibile, scardinando cliché, tic accademici, gerghi, mode, che invoglia alla lettura. Allo stesso tempo lo studio dei testi classici del buddhismo e delle sue radici è comparato con l'esperienza occidentale, in particolare con gli esiti di quella ricerca fenomenologica che da Husserl ad Heidegger si è avvicinata - per certi toni - alla tradizione millenaria orientale. 

Un libro insomma affascinante, denso di spunti e con un prezioso glossario finale che racchiude i termini e le formule principali del pensiero buddhista. 


Hervé Clerc 
Le cose come sono 
Una iniziazione al buddhismo comune 
Traduzione di Carlo Laurenti 
Piccola Biblioteca Adelphi 2015, 
3ª ediz., pp. 259 € 14,00 

26/12/16

Chi era Stefano - Il protomartire cristiano e la storia delle reliquie.




La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i comites Christi, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio. 

Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno. 

Di s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”

Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme

Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica

I dodici Apostoli allora riunirono i discepoli e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale. 

La tradizione dice che Stefano compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto. 

Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”. 

Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”. E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore. 

Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione

In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato. 

Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo

Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome. 

Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini. 

Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario. 

Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. 

La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima. 

Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme. 

Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura. 

La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415. 

Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio

Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.


La Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, Roma

25/12/16

La poesia di Natale: "L'incantato delle stelle" di Roberto Mussapi




Fu un lungo viaggio, duna su duna, per gli scribi.
Per me fu breve, breve in confronto
all'immobile mappa delle stelle.
Sapevo che il nostro destino era la pista,
o uscirne, o perdersi nelle sabbie,
lentezza era lo sguardo degli astri,
che ho conosciuto, studiandone posizione e luce.
I segni del cielo, le rotte esterne,
e noi scivolanti come onde verso una morte lieve
come la carezza di una donna al tramonto.
Conoscevo la perfezione celeste e il breve respiro
umano che si estingue dopo un atto d'amore.
La vita, svanire prima dell'orizzonte.
Ho conosciuto il cosmo e le teorie caldaiche,
le pietre che sfiammano del ricordo di Venere,
i disegni del cielo gelosamente custoditi nei tappeti.
Poi la grotta e fu buio e respiro
animale e povere membra, una lontana
oscurità rasoterra, più lontana delle stelle,
io non guardai dentro, io provai pena
del tanfo, del povero calore di colpi raccolti.
E uno ne guardai che mi passava accanto,
con gli occhi fissi rapiti da una stella.
Bruno, sporco, con le spalle chiuse da idiota
beveva la luce come eternamente,
eternamente io lo ricorderò, lo racconto.
Perché non fu riflesso ma scontro,
tra quella luce a me nota e un'altra oscura
che in modo assoluto lo incatenava al cielo.
Che luce, che fonte, che pietra stupefacente
orientò lo sguardo e il corpo e il suo destino nel mondo ?
Perché io ero già in lui e lo scrutavo
come avevo scrutato gli enigmi celesti,
e non conosco la luce del profondo,
il fiato della caverna ventricolare e del buio
e la mappa disegnata e persa nella sua ignota esistenza.
Che strada, che pista, che dune alzate dal vento
portano a quel segreto entro te stesso ?
Dov'era la luce, in alto o in basso ?
E io come farò a non perdermi
per esplorare un nuovo universo
quando ti seguirò nel buio del tuo mondo interno,
su quali punti orienterò il mio viaggio
cercando la rotta oscura che proiettò il tuo sguardo,
tu, pezzo di terra,
fangoso simile fratello ?

Roberto Mussapi, da La polvere e il fuoco, Milano, 1997, pp.76-77




24/12/16

Una Lettera di Natale di David Maria Turoldo




Cari amici del Blog, Buon Natale.  Ho scelto per voi, in questo giorno, questa lettera di Natale scritta da David Maria Turoldo poco prima di morire. 
Auguri a tutti.

Quando a uno si dice: guarda che hai un cancro, bello bello, seduto nel centro del ventre come un re sul trono, allora costui - se cerca di avere fede - fa una cosa prima di altre: comincia ad elencare ciò che conta e ciò che non conta; e cercherà di dire, con ancora più libertà di sempre, quanto si sente in dovere di dire, affinché non si appesantiscano ancor di più le sue responsabilità. E continuerà a dirsi: la Provvidenza mi lascia ancora questo tempo e io non rendo testimonianza alla verità! E’ dunque per queste ragioni, caro Gesù, che mi sono deciso a scriverti in questo Natale. Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: anzi penso che sia una profanazione di ciò che veramente il Natale significa, costellazioni di luminarie impazzano per città e paesi fino ad impedire la vista del cielo. Sono città senza cielo le nostre. Da molto tempo ormai! E’ un mondo senza infanzia. Siamo tutti vecchi e storditi. Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi: tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi.

Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù , ma sei un bambino di gesso! Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno. L’occidente non attende più nessuno, e tanto meno te: intendo il Gesù vero, quello che realmente non troverebbe un alloggio ad accoglierlo. Perché, per te, vero Uomo Dio, cioè per il Cristo vero, quello dei “beati voi poveri e guai a voi ricchi”; quello che dice “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia ..”, per te, Gesù vero, non c’è posto nelle nostre case, nei nostri palazzi, neppure in certe chiese, anche se le tue insegne pendono da tutte le pareti...Di te abbiamo fatto un Cristo innocuo: che non faccia male e non disturbi; un Cristo riscaldato; uno che sia secondo i gusti dominanti; divenuto proprietà di tutta una borghesia bianca e consumista.

Un Cristo appena ornamentale. Non un segno di cercare oltre, un segno che almeno una chiesa creda che attendiamo ancora…Eppure tu vieni, Gesù; tu non puoi non venire…Vieni sempre, Gesù. E vieni per conto tuo, vieni perché vuoi venire. E’ così la legge dell’amore. E vieni non solo là dove fiorisce ancora un’umanità silenziosa e desolata, dove ci sono ancora bimbi che nascono; dove non si ammazza e non si esclude nessuno, pur nel poco che uno possiede, e insieme si divide il pane.
Ma vieni anche fra noi, nelle nostre case così ingombre di cose inutili e così spiritualmente squallide. Vieni anche nella casa del ricco, come sei entrato un giorno nella casa di Zaccheo, che pure era un corrotto della ricchezza. Vieni come vita nuova, come il vino nuovo che fa esplodere i vecchi otri. Convinto di queste cose e certo che tu comunque non ci abbandoni, così mi sono messo a cantare un giorno:

Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni , figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre , Signore.

Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore.

David Maria Turoldo

23/12/16

La Nasa fa gli auguri di Natale con la meravigliosa immagine di un "Nido di stelle".




Non sono la fantomatica cometa di Betlemme, ma sono ugualmente belle e luminose e arrivano al momento giusto.


In realta' si tratta di una galassia singolare, dalla forma a spirale, ma cosi' poco compatta da produrre l'impressione di un nido di stelle

E' la prima osservazione dettagliata di questa 'galassia stellare' fin dalla sua scoperta, avvenuta nell'aprile del 1789 fa a opera dell'astronomo William Herschel

 In una notte limpida di piu' di due secoli fa, Herschel vide la luce di NGC 4707, una galassia a spirale nascosta nella costellazione dei Cani da caccia, lontana 22 milioni di anni luce dalla Terra. 

Oltre duecento anni dopo, il telescopio spaziale Hubble e' riuscito a individuare e vedere la stessa galassia, ma con un dettaglio molto maggiore di quello di Herschel, cogliendone tutte le sue caratteristiche e complessita' come mai prima. 

La straordinaria immagine pubblicata raccoglie infatti le osservazioni della Advanced Camera for Surveys (ACS),uno degli strumenti ad alta risoluzione posto a bordo di Hubble

Herschel descriveva NGC 4707 come una "piccola galassia stellare"

Anche se classificata a spirale, i suoi bracci sono molto larghi e indefiniti, e il centro piccolissimo, quasi inesistente. Sembra piu' una spruzzata di stelle, con pennellate di lampi blu su una tela scura sulle regioni di formazione stellare, dove gli astri neonati brillano luminosi, circondati da ombre intense turchesi e azzurre.

21/12/16

Un posto bellissimo e misterioso: le rovine di Cuma e l'antica grotta della Profetessa.


Le rovine di Cuma, in Campania, con l’antica grotta della Profetessa.

La città di Cuma – le cui rovine si ammirano oggi nel territorio di Pozzuoli, nella zona dei Campi Flegrei, non lontano da Napoli – fu una delle prime in assoluto fondate dai coloni greci nell’ottavo secolo avanti Cristo, proprio negli stessi anni in cui più a nord nasceva in una sorta di disputa fratricida, la leggenda di Roma sul colle Palatino.

I coloni della Magna Grecia che per la prima volta arrivarono fin qui, scelsero il nome di Cuma -  Κύμη (Kýmē) – proprio perché questo terreno roccioso, in realtà di lava solidificata nel corso dei secoli, ricordava un’onda.

Il rialzo della roccia apparve a questi avventurosi colonizzatori il luogo ideale per costruire una città fortificata, dotata di acropoli che, in breve tempo giunse ad espandere il suo territorio a buona parte dell’attuale Campania. Un regno indipendente che durò poco, prima dell’invasione subita da parte dei Campani prima, e dei Romani poi, che concessero però alla nobile città il rango di civita sine suffragio, che garantiva cioè tutti i diritti di cittadinanza romana, con l’esclusione del voto.

I resti che si ammirano oggi di Cuma, si riferiscono però quasi interamente all’epoca di Augusto, durante la quale furono restaurati gli edifici più antichi. Ciò che fu invece salvaguardato, per il rispetto che il luogo incuteva era la Grotta, che una persistente leggenda, durata per secoli, indicava come la dimora del più celebre oracolo del mondo, la Sibilla Cumana, la sacerdotessa in grado di predire il futuro.

Chi era dunque Sibilla ? E perché questo luogo continua ad esercitare lo stesso fascino misterioso descritto da Virgilio, che della Sibilla fa un personaggio centrale, la traghettatrice che conduce Enea nel regno dell’Oltretomba (lo stesso ruolo che svolgerà Virgilio medesimo nella Comoedia dantesca) ?
Virgilio, nell’Eneide, nel sesto libro, fornisce questa immagine della Grotta della Sibilla: profonda grotta, immane di larga apertura/di roccia, da un nero lago difesa, e dai boschi tenebrosi.

Una Grotta, specifica ancor meglio Virgilio, abitata da vapori sulfurei,  in cui la profetessa appare come una virgo violentemente posseduta dal dio Apollo, che dolorosamente deve scacciare dal proprio petto, in un passaggio simbolico che richiama tutte quelle figure di sacerdotesse dell’antichità, il cui culto fu probabilmente importato dall’Oriente e passando attraverso la Pizia di Delfi, finì per essere assorbito dalla cultura della Magna Grecia prima, e romana poi.
L’habitat descritto da Virgilio, riguardante la Sibilla, era quello che già si tramandava oralmente e radicato dunque nella tradizione. Per intraprendere il viaggio negli inferi il visitatore – in questo caso Enea – doveva procurarsi un ramo d’oro (secondo diverse versioni doveva trattarsi di vischio) e condursi all’entrata del Lago di Averno, formatosi nell’antichità nel cavo di un vulcano e ricolmo di acque sulfuree le quali erano anche all’origine del suo nome, perché si riteneva scacciassero gli uccelli (l’etimologia di ‘Averno’, nel senso di ‘Inferno’ sembra derivi, oltre che dal colore scurissimo delle sue acque e dalla fitta vegetazione intorno, dal greco, Aornon, cioè ‘senza uccelli’).



Questo luogo, dunque, il Lago di Averno, che ancora oggi è possibile ammirare per fortuna libero dalle esalazioni che sono scomparse o attenuate, eppure pesantemente minacciato dallo sproporzionato sviluppo edilizio della zona, era la porta degli inferi, e la Grotta, quell’antro dove era possibile portarsi al cospetto della Sibilla.


20/12/16

Nel cervello degli artisti, le aree opposte sono in equilibrio. Uno studio a Trento.






Nel momento della produzione creativa si attivano, in un equilibrio sapiente, due reti cerebrali di solito considerate in opposizione: da una parte quelle legate al pensiero divergente e alla generazione di idee e, dall'altra, quelle deputate al controllo dell'attenzione

I risultati emergono da un lavoro sulla creativita' nell'arte condotto dal Centro mente-cervello (Cimec) dell'Universita' diTrento e pubblicato dalla rivista scientifica internazionaleScientific Reports, con il titolo Brain networks for visual creativity: a functional connectivity study of planning a visual artwork

Negli artisti, hanno scoperto i ricercatori del Cimec, la connessione tra queste funzioni risulta piu' marcata rispetto a quanto accade nei non artisti

Lo studio e' stato sviluppato da alcuni neuroscienziati del Cimec di Trento in collaborazione con il Mart, Museo d'artemoderna e contemporanea di Trento e Rovereto. 

Gli autori sono Nicola De Pisapia (Cimec e Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive), Francesca Bacci (Mart), Danielle Parrott e David Melcher (entrambi del Cimec). 

"Lo studio - commenta De Pisapia - ha confermato che esiste un forte coordinamento tra le regioni del cervello deputate al pensiero divergente/generazione di idee e quelle invece specifiche del controllo dell'attenzione. Inoltre e' emerso che la connettivita' e' ancora maggiore tra gli artisti professionisti, sottoposti quotidianamente alla formazione e alla pratica nella creazione di opere visive". 

19/12/16

500.000 visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi .







Continua questa bella avventura insieme.  

Vorrei ringraziarvi per aver tagliato il simbolico e significativo traguardo dei 500.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 


Grazie.

15/12/16

Nasce un nuovo editore a Milano: De Piante. Rarità e libri-gioiello, una proposta molto originale.




'Pochi libri per pochi': con questo motto si e' presentata per la prima volta al pubblico  a Milano la neonata De Piante Editore, una casa editrice nata con il progetto esplicito di creare libri da custodire come opere d'arte, improntati alla scoperta o alla riscoperta di rarita' o inediti del patrimonio letterario italiano. 

A partire dal primo volume di recente pubblicazione e da questi giorni in vendita, 'Non posseggo nemmeno una Divina Commedia', raccolta stampata in 500 copie di tre lettere inedite di Eugenio Montale: scritte negli anni '50 al grecista Manara Valgimigli e provenienti dal Fondo Valgimigli di Ravenna, le epistole ritraggono la figura umana del poeta, non privo di furbizie, cinismo e pigrizia nel cercare di farsi includere nella giuria di un premio letterario, nel chiedere aiuto per scrivere un articolo su Pascoli o nell'accampare scuse pur di non partecipare a un convegno su Dante Alighieri. 

"L'idea di aprire questa casa editrice viene dal mio lavoro nella progettazione della stampa - ha raccontato la fondatrice Cristina Toffolo De Piante - Ma in un periodo in cui gli editori senza idee creative sono in fila per chiudere, noi abbiamo deciso di pubblicare dei libri-gioiello: e' una scommessa, ma fatta con la testa e con responsabilita' verso collaboratori e fornitori". 

Con una cura del particolare, dalla stampa alla carta, la De Piante con i cofondatori e giornalisti Angelo Crespi e Luigi Mascheroni si e' proposta di dare vita a un progetto che punta al pregio artistico e tipografico fin dalle sovracoperte, come quella del pittore astratto Roberto Floreani che impreziosisce questa prima pubblicazione: "Dire che vogliamo fare libri per pochi non e' snobismo, ma voglia di divertirci con una qualita' editoriale tutta italiana", spiega Mascheroni. 

 Nel 2017 la De Piante si propone di pubblicare 4 libri (con tiratura di 300 copie) tra cui un racconto inedito di Piero Chiara su un viaggio in macchina con Ezra Pound dal castello Brunnenburg del poeta a Milano, e un articolo del 1974 di Fruttero e Lucentini che espone quattro immaginarie trame eversive da suggerire ai giornalisti per descrivere gli anni di piombo, e sono in corso trattative per due carteggi inediti, di Guido Morselli e di Carlo Emilio Gadda.

 "Noi giochiamo di retroguardia, con testi non ideologici ne' rivoluzionari, libri inutili che pero' sono preziosi nelle nostre librerie piene di brutti libri, specie in un momento in cui si intravede un nuovo margine di crescita per il libro cartaceo", dice Crespi. 

14/12/16

In Mostra a Palazzo Braschi a Roma le meravigliose carte da gioco dipinte da Guttuso, Fontana, Burri, appartenute a Paola Masino.



Il Fante di spade dipinto da Renato Guttuso, con la casacca rosso fuoco e l'arma brandita in alto. O l'Asso, quasi 'bruciato', da Burri. La Regina di fiori di Alexander Calder e ancora Spade, con il Tre di Prampolini (nella foto), o la 'chicca' del Re di quadri firmata da Titina De Filippo. 

E poi la sfilata dei Tarocchi, con La Morte di Carlo Fontana, il Papa di Cesare Zavattini o Il Mondo, realizzato a piccolo punto da Niki Berlinguer su disegno di Jean Cocteau. 

E' la 'partita' davvero unica da giocare al Museo di Roma a Palazzo Braschi con 'I pittori e le carte da gioco. La collezione di Paola Masino', mostra che per la prima volta espone l'invidiabile tesoro d'arte appartenuto alla scrittrice e compagna di Massimo Bontempelli

Un corredo arrivato fino a 352 carte dipinte, che lei stessa chiese una per una ai grandi maestri a partire dagli anni '50. tra mazzi di napoletane, francesi, tarocchi, che lei stessa chiese una per una in dono a grandi maestri a partire dagli anni '50. 

Anticonformista, intellettuale coltissima, che non ebbe paura di affrontare lo scandalo di un compagno sposato, separato e di 30 anni piu' grande, ma anche appassionata di poker, pinnacolo e scopone (a cui giocava con Pirandello), "mia zia era una donna anche 'violenta', cui era difficile dir di no", racconta oggi il nipote di Paola Masino, Alvise Memmo che ha scelto di donare il Fondo al Museo di Roma. 

 In mostra, anche foto, carteggi e i ritratti della Masino di Bucci, De Chirico, Sironi.

fonte ANSA 

13/12/16

Nasce un nuovo negozio Online: TAbook, tutto dedicato ai libri.

 
 
 
Nasce Tabook, un nuovo negozio online, dedicato ai libri e agli editori indipendenti. E' una iniziativa interessante e importante.
 
 
Carissimi lettori e carissimi amici,
 
oggi per noi è un giorno molto importante, e speriamo che possa diventarlo anche per voi. Dopo un lungo e intenso lavoro, siamo lieti di annunciare la nascita di TaBook, un negozio online completamente dedicato a voi e all’editoria indipendente. Abbiamo cercato di creare uno spazio confortevole dove potrete muovermi con la massima facilità e libertà, offrendovi la possibilità di scegliere le vostre letture in un catalogo il più possibile ampio, variegato e di qualità. Non è facile per noi affacciarci nel mondo della vendita online in questo preciso momento storico, ma abbiamo deciso di farlo proprio perché crediamo fortemente in alcuni valori che per noi sono imprescindibili se si parla di cultura. È per questo che alla base delle nostre scelte editoriali vi è un lungo lavoro di selezione e valutazione. Abbiamo scelto di scendere in campo al fianco degli editori indipendenti, perché condividiamo con loro gli stessi valori e gli stessi principi, cercando di premiare la qualità e non la quantità, cercando di non scendere a compromessi con le logiche di vendita, ma puntando su prodotti editoriali di primissimo rilievo che però non trovano spazio nella grande distribuzione. Nasce TaBook per tutte quelle voci fuori dal coro che altrimenti non riuscirebbero a farsi sentire.
Per creare questa nuovissima libreria abbiamo faticato molto, ma al tempo stesso ci abbiamo messo dentro tutta la passione e la gioia per la lettura e per la divulgazione della cultura, rafforzando il già ottimo rapporto con l’associazione ODEI e investendo sulla creazione di questo magazine tramite il quale intendiamo tenervi aggiornati sulle nostre attività, mettervi al corrente delle novità e fornirvi approfondimenti su tutti i nostri libri, autori ed editori. Contemporaneamente potrete seguirci su tutte le piattaforme social (Facebook, Instagram e Twitter) per essere sempre aggiornati su promozioni e ultimi arrivi. TaBook intende essere la vetrina da cui si affaccia un intero mondo. Il nostro magazzino, fornitissimo, è il regno del libro e del lettore. Voi non dovrete fare altro che scegliere. Noi faremo del nostro meglio per indirizzarvi e consigliarvi. Dopodiché, grazie alle nostre spedizioni esclusive con GLS, avrete i vostri libri a casa in un batter d’occhio. Ma non è tutto: mettiamo al vostro servizio anche la possibilità di ricevere il prodotto già incartato (se vorrete fare un regalo potrete già indicare l’indirizzo cui recapitarlo) e personalizzato.
 
TaBook è una scommessa sul domani, sul futuro del libro e dei lettori. Crediamo nel valore, politico e sociale, di una editoria fondata su una pluralità di voci e punti di vista. Ci siamo posti l’obiettivo di dare visibilità a quella parte di editoria penalizzata dall’attuale assetto distributivo/promozionale, credendo fortemente nelle loro capacità creative di ricerca, di lavoro artigianale e di scovare voci nuove. TaBook si rivolge, dunque, a tutti i lettori curiosi che vanno sempre più alla ricerca di novità, che scelgono con criteri ben precisi gli editori cui affezionarsi. I nostri editori, che ci sentiamo di ringraziare uno a uno, mettono al primo posto la libertà e l’autonomia della loro visione culturale.
 
TaBook sarà dunque un nuovo punto di riferimento, una libreria, ma soprattutto un luogo di incontro tra voi lettori e i vostri autori ed editori preferiti. Faremo in modo di creare sempre occasioni per far sì che questo contatto possa avvenire.
Nel mentre, cercheremo ogni giorno di creare un rapporto di fiducia con noi, consapevoli della scelta difficile che abbiamo fatto, ma felici di portarla avanti con fierezza e con spirito di condivisione. Sappiamo che senza di voi, voi lettori, il nostro lavoro e quello degli editori non avrebbe senso: le storie, le informazioni, le immagini, la conoscenza dei libri non avrebbero vita. Da oggi, quindi, apriamo le porte di questa nuova libreria. Vi accogliamo a braccia aperte e vi accompagniamo in questo nuovo viaggio nel mondo dell’editoria indipendente, nel mondo di una lettura diversa, più libera ed estremamente affascinante. Siete pronti?